La strage di Bologna

Il lungo iter giudiziario seguito alla strage del 2 agosto 1980 sembra essersi concluso con la condanna all’ergastolo di Paolo Bellini, ritenuto dai giudici bolognesi esecutore dell’attentato insieme con gli ex militanti dei NAR condannati prima di lui (Fioravanti, Mambro, Ciavardini, Cavallini). Secondo i giudici, Bellini avrebbe agito in concorso coi presunti mandanti, organizzatori e finanziatori: Licio Gelli (maestro venerabile della loggia massonica P2), Umberto Ortolani (eminenza finanziaria della P2), Federico Umberto D’Amato (direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno dal 1971 al 1974, iscritto alla P2, collaboratore dell’“Espresso”) e Mario Tedeschi (direttore del “Borghese”, Senatore della Repubblica dal 1972 al 1979, iscritto alla P2).

Alla tesi formulata dalla magistratura bolognese, che prima delle indagini aveva accolto l’apodittica indicazione del capo del governo Francesco Cossiga, secondo cui la matrice della strage era indiscutibilmente “di timbro fascista”[1], pubblicisti e politici di destra tentano di contrapporre – e non da oggi – la tesi di una “pista palestinese”. Se non il primo in assoluto, uno dei primi a proporla fu il senatore missino Giorgio Pisanò, direttore del settimanale “Candido”, che nel luglio 1981 dichiarava: “Io sono ancora del parere che il massacro non fu la conseguenza di un attentato, ma di un ‘incidente sul lavoro’, provocato dalla criminale imprudenza di qualche terrorista in transito quella mattina a Bologna con un carico di potentissimo esplosivo (…) proveniente dall’estero, da uno di quei Paesi che hanno fatto del terrorismo una scienza altamente esatta, sostenuta da mezzi tecnici sofisticatissimi. Non è un’ipotesi campata in aria: basti ricordare che le Università di Perugia, Urbino e Bologna costituiscono le basi ideali di tutte le organizzazioni terroristiche arabe a cominciare dalla Libia”[2].

Lo spunto fornito all’epoca da Pisanò è stato sviluppato dall’ex vicedirettore di “Candido”, Guido Giraudo, in un libro di recente pubblicazione[3]. Secondo Giraudo, la strage di Bologna sarebbe stata una vendetta palestinese per la rottura del cosiddetto “Lodo Moro”, l’accordo verbale e segreto stipulato nel 1973 fra lo Stato italiano e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), in base al quale l’Italia concedeva ai gruppi palestinesi il trasporto e il deposito di armi ed esplosivi sul proprio territorio in cambio della loro rinuncia ad azioni armate sul suolo italiano. Ma il “Lodo Moro” venne violato nel settembre 1979 col sequestro di due missili destinati ad essere imbarcati su una nave libanese ormeggiata ad Ortona e con l’arresto e la successiva condanna di Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Va anche detto che sulla “pista palestinese” Giraudo innesta l’immarcescibile “pista libica”, nella quale all’epoca si cercò di coinvolgere anche l’autore di queste righe, allora presidente dell’Associazione Italia-Libia[4]. Infatti, scrive Giraudo, non bisogna “scordare il ruolo della Libia (che, ai tempi, era il primo sponsor del terrorismo palestinese) nelle drammatiche vicende italiane del 1980”[5]. Orbene, in seguito all’attacco (israeliano? statunitense? francese?) del 27 giugno 1980 contro l’aereo che si riteneva trasportasse Gheddafi ed al contestuale abbattimento di uno dei due MiG-23 libici che lo scortavano, il 2 agosto la Libia avrebbe attuato la sua vendetta… contro l’Italia.

Una pista israeliana venne invece indicata in termini chiarissimi, due anni dopo la strage, dall’on. Rino Formica, capogruppo socialista alla Camera. “Ce la prendiamo col fascista assassino – disse Formica intervistato da “Repubblica” – così come abbiamo fatto per le altre stragi. E non a caso non abbiamo mai trovato nessun colpevole. Tranne in un caso: il 17 maggio del 1973 Gianfranco Bertoli lancia una bomba contro il presidente del Consiglio Rumor (…) Sedicente anarchico, veniva da un kibbutz israeliano”[6]. Anche per l’attentato di Bologna l’on. Formica puntò il dito contro “un paese ‘amico’ nel Mediterraneo”: “Ci hanno avvertito, ci hanno mandato a dire con la strage che l’Italia deve stare al suo posto sulla scena internazionale. Un posto di comparsa, di aiutante. (…) Altro che strage fascista: è accaduto qualcosa (…) che pone il problema della nostra autonomia internazionale (…) Ci ricordano che al massimo possiamo mandare qualche corvetta da qualche parte”[7]. Lo stesso concetto esposto dall’on. Formica venne espresso, anche se in modo più velato, dal giudice Carlo Mastelloni e dallo stesso Cossiga.

Sulla verosimile responsabilità dei servizi speciali israeliani nella strage di Bologna è ritornato Paolo Cucchiarelli nel libro Ustica e Bologna. Attacco all’Italia. “Gli americani di stanza in Italia – stando ad una testimonianza riferita dal giornalista – erano stati ragguagliati su alcune dichiarazioni di Rabin, tra le quali quella di una gravissima irritazione del governo israeliano per le forniture di materiale nucleare da parte dell’Italia al Pakistan. A fronte di ciò il governo israeliano aveva dichiarato una sorta di guerra allo stato italiano fatta a mezzo di attentati. Mi fu detto che uno di questi attentati era stata la strage di Bologna”[8].

L’ipotesi della pista israeliana è stata poi ripresa in termini diversi e sulla base di altri elementi. “Il 2 agosto 1980 – scrive Luca Tadolini recensendo il libro di Cucchiarelli – il gruppo di Carlos, Ilich Ramirez Sánchez – struttura rivoluzionaria filopalestinese con appoggi anche nell’Est europeo – stava trasportando un carico di esplosivo che avrebbe dovuto essere usato per colpire obiettivi ebraici in Europa. (…) Alla stazione di Bologna il carico sarebbe stato intercettato dagli agenti di Tel Aviv e fatto brillare appoggiando vicino alla valigia che conteneva l’esplosivo una piccola carica ad alto potenziale. Il micidiale attentato avrebbe così conseguito un triplice scopo: veniva scongiurato un attentato antiebraico, veniva punito l’accordo italiano con i gruppi della Resistenza palestinese (…) e veniva colpito il gruppo Carlos, uno dei più sofisticati e pericolosi nemici d’Israele”[9]. Nel 1982 la Questura di Bologna informò il Tribunale che nella notte precedente l’attentato aveva pernottato all’Hotel Jolly, proprio davanti alla stazione ferroviaria, il cittadino israeliano Amos Bahir. Il quale, “a quanto scrive la Questura di Genova, era il responsabile della sicurezza della società Zim, che è una società di navigazione, ma fa tante altre cose, ancora esiste, era una società controllata dal governo israeliano. Possiamo tranquillamente dire che Bahir era un ufficiale del Mossad”[10].

L’abbattimento del DC-9 dell’Itavia e le minacce alle ditte italiane

Nel 1994 il giornalista Claudio Gatti, nuovaiorchese di adozione, pubblicò Il quinto scenario[11], in cui sosteneva che il DC-9 dell’Itavia abbattuto nel cielo di Ustica con ottantuno passeggeri a bordo il 27 giugno 1980, due mesi prima dell’attentato di Bologna, era stato colpito da un caccia israeliano, il quale lo aveva scambiato per un aereo francese carico di uranio destinato all’Iraq.

L’operazione, decisa dal primo ministro israeliano Menachem Begin, era senza precedenti, scrive Gatti, poiché “mai nella storia dell’Aeronautica un paese aveva osato tanto: intercettare un aereo straniero civile su un’aerovia straniera civile in tempo di pace”[12]. Ma lo Stato ebraico, argomenta il giornalista, aveva “tutto l’interesse a sferrare un attacco alla Francia collaborazionista col regime iracheno. Saddam Hussein infatti era in possesso di armi di distruzione di massa e della bomba. La bomba nucleare che gli israeliani temevano fosse diretta ai loro territori. Una questione di sopravvivenza in vita [sic] di uno Stato”[13].

Presentando la seconda edizione del libro di Gatti, l’ex presidente del consiglio Giuliano Amato scrive: “è vero che Israele voleva allora impedire l’arrivo a Saddam Hussein di uranio arricchito destinato all’ordigno atomico di cui lo stesso Israele era il sicuro bersaglio – una motivazione esistenziale. È vero inoltre che l’Israele [sic], che avrebbe dopo bombardato il quartier generale tunisino dell’OLP, era capace di concepire e di attuare un’azione volta a intercettare in volo quel trasporto di uranio. Ed è vero che il serbatoio ausiliario trovato fra i relitti, e liquidato dai periti come un vecchio arnese americano, era di un tipo che gli americani avevano venduto a Israele”[14].

Poco più di un mese dopo l’abbattimento del DC-9 dell’Itavia proseguì l’anonima campagna intimidatoria contro le società italiane (e francesi) che si erano impegnate a contribuire al programma atomico di Saddam Hussein. Il 7 agosto il centralino della genovese AMN (Ansaldo Meccanica Nucleare), che collaborava con la SNIA Techint a Tuwaitha, dove sorgeva il principale sito nucleare iracheno, ricevé un messaggio telefonico che minacciava rappresaglie qualora la ditta non avesse desistito dalle sue attività in Iraq. Nello stesso giorno l’ingegner Marino Fiorelli della SNIA Techint, indicato in un libro di Steve Weissman[15] come uno dei protagonisti della collaborazione nucleare italo-irachena, fu destinatario di analoghe telefonate minatorie. Nella notte fra il 7 e l’8 agosto gli uffici romani della SNIA Techint furono devastati da due bombe, mentre un altro ordigno esplose davanti all’appartamento del direttore generale della ditta. Nei giorni successivi l’azione intimidatoria proseguì con una raffica di lettere e telefonate ai dirigenti della SNIA Techint, dell’Ansaldo e del CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare); tra i destinatari delle minacce vi fu anche la sorella dell’ingegner Fiorelli.

I messaggi minatori erano stati emessi a nome di un fantomatico “Comitato di salvaguardia della rivoluzione islamica” e di una altrettanto fantomatica “Associazione per la difesa della rivoluzione islamica”, la quale si dichiarava sostenitrice dell’Iran, in quel momento impegnato nella guerra contro l’Iraq. Ma dietro le due sigle “islamiche” e filoiraniane si nascondeva una realtà ben diversa: il Mossad. In un colloquio svoltosi alla Farnesina, il Direttore Generale degli Affari Economici, l’Ambasciatore Maurizio Bucci, lo confermò all’ingegner Fiorelli, il quale ragguagliò a sua volta il direttore della SNIA nel memorandum “riservato” dell’11 settembre 1980, di cui riproduco i passi salienti: “(…) Io ho chiesto quanto segue: Interpretazione del Ministero degli Esteri sugli autori dell’attentato rivendicato da fazioni iraniane (…) L’Ambasciatore Bucci mi ha risposto che l’interpretazione dei fatti attribuiva l’attentato a Israele (…) Ho chiesto che tipo di protezione forniva lo Stato Italiano a una società italiana che lavorava in base ad un contratto approvato dal ns. governo. L’Ambasciatore Bucci mi ha risposto che un gran numero di società che lavorano per il Medio Oriente, e in particolare in settori strategici, sono oggetto di attentati e di minacce. Mi ha ricordato che presso la sua divisione gli incontri del tipo che io stavo avendo sono sempre più frequenti. (…)”[16].

Nel 1978 l’Italia aveva firmato con l’Iraq un contratto da 50.320.000 dollari per la fornitura delle tecnologie necessarie al funzionamento di quattro laboratori, che dovevano essere costruiti in Iraq dalla SNIA Techint e dall’AMN di Genova. Il Centro ITREC (Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) di Rotondella in provincia di Matera si mise all’opera anche per addestrare ingegneri iracheni e pachistani; ma in capo a qualche mese due tecnici italiani “subirono pesanti minacce da parte del Mossad, tanto da essere costretti a girare con una scorta di polizia”[17].

L’abbattimento di Argo 16

L’abbattimento del DC-9 dell’Itavia fu preceduto da quello di Argo 16. Il 23 novembre 1973, poco dopo essere decollato dall’aeroporto di Venezia-Tessera, il velivolo dell’Aeronautica Militare Italiana identificato col nome in codice Argo 16 (un Douglas C-47 Dakota in carico al 306º Gruppo del Reparto volo dello stato maggiore) si schiantò nella zona industriale di Porto Marghera. Nel disastro perirono i quattro militari che erano a bordo.

Nel corso di una riunione presso la sede del Servizio Informazioni Difesa il generale Gianadelio Maletti affermò che l’Argo 16 era stato oggetto di un atto di sabotaggio da parte di agenti del Mossad, perché il 30 ottobre lo stesso aereo aveva trasportato a Tripoli i militanti dell’OLP sospettati di voler abbattere, lanciando un missile da un terrazzo di Ostia, un aviogetto della El Al con Golda Meir a bordo. La spiegazione di Maletti venne condivisa dal generale Ambrogio Viviani, capo del controspionaggio dal 1970 al 1974; tuttavia le autorità aeronautiche archiviarono ben presto il caso Argo 16, liquidandolo come un banale incidente.

Nel 1986, in seguito alle nuove dichiarazioni rilasciate dai generali Viviani e Miceli ad alcuni organi di stampa, la Procura di Venezia riaprì il caso, affidandolo al giudice Carlo Mastelloni. Ma quando Mastelloni chiese al SISMI (l’ex SID) l’elenco delle trasmissioni compiute da Argo 16, l’inchiesta fu bloccata dal segreto di Stato.

Nel marzo del 1997 il giudice Mastelloni incriminò ventidue ufficiali dell’Aeronautica con l’accusa di soppressione, falsificazione e sottrazione di atti concernenti la sicurezza dello Stato e formulò l’accusa di concorso in strage contro il mandante Zvi Zamir, che per anni aveva diretto il Mossad, e contro Asa Leven, capo del Mossad in Italia all’epoca del disastro aereo. Il processo si concluse il 16 dicembre 1999, quando i giudici stabilirono che l’aereo era precipitato per un’avaria o per un errore del pilota.

I primi attentati sionisti in Italia

“Dopo la fine della Seconda guerra mondiale – scrive Eric Salerno – l’Italia era diventata la base operativa dei terroristi ebrei dell’Irgun e della banda Stern”[18]. Il loro clamoroso esordio avvenne nella notte del 31 ottobre 1946, quando due valige di dinamite esplosero a Roma davanti all’ingresso dell’ambasciata britannica in via XX Settembre, squarciando la facciata dell’edificio e ferendo due persone che si trovavano nelle vicinanze. Il ministro degli Esteri Pietro Nenni, accorso immediatamente sul luogo dell’attentato, in una riunione del consiglio dei ministri che si tenne al Viminale poche ore più tardi ipotizzò un’azione compiuta da forze straniere, “magari ebraiche con riferimento all’atteggiamento inglese in Palestina”[19], mentre il ministro (comunista) dell’Assistenza Postbellica Emilio Sereni (fratello di Enzo Sereni e quindi cognato di Ada Ascarelli Sereni, coordinatrice del Mossad le aliyà bet) denunciò l’esistenza di una non precisata “organizzazione fascista italiana che aveva collegamento con [non meglio precisate, ndr] organizzazioni fasciste palestinesi”[20]. Intanto le indagini della Questura si indirizzarono verso “i terroristi ebrei da un lato e i polacchi del secondo corpo di Anders dall’altro”[21]. Secondo la stampa romana, l’attentato era opera di “gang terroristiche”[22] ebraiche, in particolare di quella che il 22 luglio aveva fatto saltare in aria il King David a Gerusalemme, provocando la morte di novantun persone: l’“oscura organizzazione ebraica ‘Irgun Zwai Leumi’”[23]. Il giornalista Ezio Maria Gray, esponente del “Senato” clandestino presieduto da Pino Romualdi, suggerì invece una pista alternativa: quella dei “comunisti slavi residenti a Roma”[24].

La conferma della responsabilità dell’Irgun nell’attentato di Roma venne data dalla stessa organizzazione sionista, la quale, oltre a rivendicare l’azione terroristica con un comunicato “pubblicato nella Diaspora il 2 novembre 1946”[25] e riprodotto integralmente tre giorni dopo dai principali quotidiani della Capitale, inviò una lettera aperta al capo del governo italiano, Alcide De Gasperi[26], per informarlo che “l’attacco all’ambasciata britannica a Roma segna[va] l’inizio dell’allargamento del fronte militare ebraico anche al di fuori di Eretz Israel”[27].

Qualche mese dopo, in seguito ad una formale richiesta dell’Ambasciata britannica, il sottosegretario di Stato Giulio Andreotti dispose il sequestro del periodico “L’Idea Sionistica”, che fiancheggiava esplicitamente la lotta armata delle organizzazioni ebraiche[28].

Le indagini della polizia misero in luce l’esistenza, in molte città d’Italia, di una vasta ed articolata “organizzazione terroristica attiva”[29], cosicché furono denunciati come presunti affiliati all’Irgun una ventina di ebrei. Tuttavia non fu possibile identificare gli autori dell’attentato, dal momento che, secondo il questore Saverio Polito, “gli ebrei, com’è noto, ed in particolare i membri dell’Irgun, sono molto riluttanti ad accusarsi l’un l’altro, anche per tema di rappresaglie da parte dell’organizzazione”[30]. Né ovviamente è da escludere che le “autorità” dell’Italia “liberata” abbiano dovuto subire qualche “premura” (per usare il termine della relazione poliziesca riportata più sotto) da parte del vicepresidente della American League for a free Palestine [sic], il prof. Johan J. Smertenko, giunto da New York a Roma il 27 novembre per “approva[re] e appoggia[re] la resistenza sotterranea ebraica nella sua lotta contro l’oppressione britannica”[31].

Poco più di due mesi dopo l’attentato di Via Veneto, il 10 gennaio 1947, esplosero simultaneamente a Roma, Napoli, Venezia, Bari, Milano, Torino, Firenze e Padova diverse bombe carta[32], che dispersero tutt’intorno manifestini dell’Irgun. La Direzione Generale della Pubblica Sicurezza esaminò allora la nuova “questione ebraica” in una relazione di cui riporto qui sotto i brani salienti.

“In questo dopoguerra si è venuta gradualmente formando, in Italia, una questione ebraica che va assumendo caratteri sempre più preoccupanti. Alla cessazione delle ostilità sono cominciati ad affluire nel nostro Paese numerosi ebrei provenienti dai campi di concentramento della Germania e da varie nazioni dell’Europa Centrale, nelle quali sono tuttora vive le persecuzioni razziali. Essi vengono in Italia con l’intendimento di emigrare in America e di trasferirsi clandestinamente in Palestina; senonché, privi di documentazione dei paesi d’origine e in stato quindi di apolidi, non hanno la possibilità di recarsi in America (…) Quanto alla Palestina è ben noto come sia irrilevante la quota degli ebrei che vi sono ammessi e, d’altra parte, occorre considerare che le Autorità Inglesi esercitano una stretta vigilanza lungo le coste palestinesi e respingono in Italia gli ebrei i quali, provenienti dai nostri porti, tentino di entrarvi clandestinamente. (…) A quanto è stato dichiarato in via provvisoria, da fonte che dovrebbe essere competente, durante lo scorso anno sarebbero entrati in Italia per lo meno 10.000 ebrei e si ha motivo di ritenere che questa cifra sia di molto inferiore alla realtà. (…) Trattasi, poi, di gente che, in grande maggioranza, si dedica ad attività improduttive ed illegali, particolarmente al cosiddetto mercato nero della valuta e degli oggetti preziosi, senza nessun vantaggio ed anzi spesso con detrimento del paese che li ospita, raggiungendo in poco tempo anche fortune ragguardevoli. (…) Di fronte a questa situazione attuale sta di fatto che da parte dell’American Jewish Joint Distribution Committee e da parte della Unione delle Comunità Israelitiche italiane vengono rivolte continue pressanti premure direttamente, e anche con autorevoli appoggi per ottenere per gli ebrei numerose facilitazioni (…) Queste associazioni continuano a fare premure in tutti i sensi e per varie questioni e tutte vengono fatte per assumere sempre maggiori iniziative in Italia, le quali si risolvono evidentemente con continua e sempre crescente stabilizzazione degli ebrei in Italia. (…) È apparso più volte evidente che gli ebrei spesso, nei viaggi che intraprendono verso l’Italia ed anche per uscirne clandestinamente, sono sostenuti da organizzazioni di correligionari, fattesi, col tempo, molto esperte. Come essi, poi, incidano sul nostro ordine interno, portandovi agitazioni e questioni fino ad oggi estranee al nostro paese, è messo in evidenza dall’attività spiegata dall’associazione terroristica ebraica Irgun Zwai Leumi, della quale, per quanto finora è risultato, fanno parte soltanto ebrei stranieri. (…) Ma non è da escludere che, rimanendo lungamente a contatto con detti elementi stranieri e col progressivo aumento del loro numero, anche gli ebrei italiani non si lascino trascinare a partecipare attivamente alle loro agitazioni, creando all’Italia difficoltà di ordine interno e più ancora d’ordine internazionale con conseguenze imprevedibili”[33].

Sabotaggi di navi e di aerei

L’11 aprile 1948 i giornali italiani davano la notizia di un’esplosione che nel giorno precedente aveva provocato l’affondamento della motonave Lino (450 tonnellate) nel porto di Bari. Il “Daily American”, che veniva pubblicato a Roma, fornì la versione ufficiale dei fatti: la nave italiana, col suo carico di materiale bellico prodotto dalla Škoda cecoslovacca, “avrebbe dovuto raggiungere la piccola isola di Lipari, dove un complotto comunista mirava ad assumere il controllo dell’isola; ma il piano è stato sventato con l’arresto di un colonnello dell’Aviazione sovietica e la nave è stata affondata nel porto di Bari”.

Il presunto colonnello sovietico era in realtà Isaac Fegman, un agente del Mossad entrato in azione in seguito a un ordine emanato da Ben Gurion e trasmesso alla base operativa romana diretta da Ada Sereni e Yehuda Arazi (ai quali De Gasperi stesso aveva concesso libertà d’azione[34]): bisognava ad ogni costo bloccare la Lino, che, partita da Fiume, si dirigeva a Beirut per consegnare 8.000 fucili e 6 milioni di proiettili all’esercito siriano. “I primi a essere messi in preallarme furono gli uomini della base del Mossad a Bari. Contemporaneamente, gli agenti già pronti a Roma e a Formia si prepararono a passare dal Tirreno all’Adriatico”[35]. Un primo tentativo di piazzare l’ordigno andò male. Poi i guastatori riuscirono a piazzare la mina e a tornare alla base di Formia e successivamente a Roma, “nel cuore del quadrilatero al centro della capitale che il Mossad aveva scelto per i suoi uffici”[36].

Il 14 agosto di quello stesso anno il “Messaggero” rivelò che all’aeroporto di Venezia un normale controllo aveva sventato un attentato contro due aerei destinati all’Egitto. Inquirenti e cronisti erano certi che si trattasse di un’azione dell’Irgun.

Fallì anche l’attentato successivo, che doveva impedire agli Egiziani di acquisire da una società fiorentina cinque bimotori Dakota. Le cariche esplosive erano già pronte, ma i sabotatori desistettero quando si accorsero che le scritte italiane sugli aerei non erano state sostituite da quelle arabe: la stampa italiana avrebbe condannato l’azione terroristica e la causa sionista avrebbe perso consenso in un paese che si dimostrava fin troppo tollerante nei suoi confronti.

Un altro fallimento avvenne quando un guastatore sionista, tale Gideon Rosen, rimase ferito dall’esplosione di un detonatore mentre si apprestava a far saltare in aria la Rosalyn, una nave che nel porto di Genova imbarcava armi destinate all’Egitto.

Ebbe invece successo l’operazione di sabotaggio intrapresa contro l’Aeronautica Macchi dal gruppo capeggiato da Amnon Yona. Venuta a sapere che gli Egiziani avevano firmato con la Macchi una commessa per 20 caccia modello 205, la cellula romana del Mossad decise di attuare un’azione di sabotaggio nell’aeroporto di Venegono, in provincia di Varese. Il “Corriere della Sera” del 19 settembre 1948 diede notizia dell’attentato rievocando recenti episodi analoghi: “Uno dei caccia e i tre velivoli da turismo sono andati distrutti, gli altri hanno riportato guasti più o meno rilevanti. Il valore dei danni si fa ascendere a 110 milioni (…) diversi indizi e circostanze fanno ritenere che l’impresa sia stata organizzata da qualche gruppo terroristico ebraico, per impedire l’invio dei caccia ad uno Stato arabo, qual è l’Egitto. La cosa non è, del resto, senza precedenti. Si ricorderà la tragica fine fatta diversi mesi or sono da un quadrimotore SM 95 diretto in Egitto, che esplose in aria, sul golfo di Terracina. E un episodio ancora più recente si ricollega, secondo ogni evidenza, a quello di Venegono. Il 16 agosto scorso, un quadrimotore e un trimotore di fabbricazione italiana e destinati a una società aerea egiziana dovevano essere visitati, nell’aeroporto veneziano di San Nicolò al Lido, dal principe Soliman, cugino di re Farouk. (…) L’ipotesi di un attentato ebraico appare perciò assai verosimile”.

Nel febbraio 1949 ebbe vasta eco sulla stampa italiana la scoperta di un’organizzazione terroristica sionista, avvenuta casualmente nel Ponente ligure in seguito ad un controllo effettuato dalla polizia stradale[37]. In un’auto di grossa cilindrata intestata a Valerio Ascarelli, esponente della Comunità israelitica di Milano e parente di Ada Sereni, gli agenti trovarono “tre cassette di esplosivo ad alto potenziale, undici chili di tritolo in scaglie, tre dispositivi di deflagrazione a orologeria, tre thermos contenenti sostanze incendiarie, esplosivo allo stato liquido, tre pile elettriche e una lampada portatile a batteria”[38]. A breve distanza dall’auto furono rintracciati il cittadino israeliano Josef Dror (alias Yossele) e l’insegnante ebrea Giuliana Basevi, residente a Milano, la quale, interrogata dalla polizia, dichiarò quanto segue. “Dovevamo subito partire [da Milano] e sulla via Aurelia fermarci in una certa località a lui [a Josef Dror] nota, ma che a me non comunicò, dove esisteva un cantiere navale, nel quale si trovavano alcune grosse imbarcazioni da guerra, forse motoscafi, che il cantiere aveva costruito per ordine del governo egiziano, e che erano già pronte per essere inviate in Egitto. Scopo della missione doveva essere quello di distruggere o danneggiare detti motoscafi in maniera da non poter raggiungere l’Egitto e quindi da non poter essere impiegati contro lo Stato di Israele. Mi precisò che il mio compito doveva essere quello di restare sulla via Aurelia, dalla parte del mare, in funzione di palo, in maniera che l’avrei dovuto avvertire con una forte risata dell’avvicinarsi di estranei. A compiere l’azione dovevano anche collaborare l’Attilio [?], lo Yehuda [l’israeliano Frank Ben Zion], i due giovanotti [“due giovanotti stranieri, vestiti male, che parlavano solo l’ebraico”] e lo Zannoni [l’autista], nel senso che doveva attendere sulla macchina il nostro ritorno per rientrare a Genova”[39].

L’unico ad essere rinviato a giudizio fu Josef Dror, che ricevette una condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione per detenzione illegale di ordigni esplosivi. Ma “funzionari e diplomatici israeliani corrono a limitare i danni, distribuiscono bustarelle e Yossele torna a casa dopo aver scontato una minima parte della pena”[40].

L’“incidente” in cui morì Enrico Mattei

Nel marzo 1993, quando lo intervistai nella sua abitazione di Mosca[41], il tenente Leonid Kolosov era ormai un tranquillo pensionato che trascorreva le giornate elaborando le proprie memorie. Kolosov, uno dei venti agenti del KGB di stanza in Italia negli anni Sessanta, dal 1954 al 1958 aveva lavorato come economista capo presso la rappresentanza commerciale dell’URSS in Via Clitumno 46 a Roma. La sua regolare partecipazione alle trattative commerciali italo-sovietiche gli consentì di conoscere Enrico Mattei, col quale instaurò una relazione cordiale. Perciò nel 1962, informato di una grave minaccia che incombeva sul capo del presidente dell’ENI, Kolosov volò in Sicilia per convincerlo a trascorrere in Crimea un periodo di riposo. Mattei però non prese sul serio l’invito che gli veniva rivolto e si mostrò sicuro del fatto suo: “Voi – avrebbe detto all’agente del KGB – non avete l’Okhrana che ho io”.  Non molti giorni dopo, il 27 ottobre 1962, il bimotore che da Catania doveva portare a Milano il presidente dell’ENI precipitò nelle campagne di Bascapè. Una piccola carica esplosiva era stata sistemata dietro il cruscotto dell’aereo.

Un anno prima del mortale attentato, l’11 novembre 1961, Mattei si era recato al Cairo per confermare “l’impegno assunto a Roma con il ministro dell’Industria Aziz Sedky, responsabile del piano quinquennale di sviluppo 1961-1965, per un credito di 50 milioni di dollari, all’epoca una cifra vertiginosa per le casse dell’ENI”[42]. Durante la sua permanenza nella capitale egiziana il presidente dell’ENI ebbe un lungo colloquio con Gamal ‘Abd el-Nasser, “all’epoca il nemico più pericoloso per Israele (…) E Nasser era anche l’alleato principale di Mattei in Medio Oriente, la chiave e l’accredito che gli permetteva di entrare in contatto con le nuove realtà nazionali del cosiddetto Terzo Mondo. (…) La cooperazione a tutto campo con il mondo arabo da parte di (…) Mattei, considerato l’eminenza grigia di un paese geopoliticamente fondamentale nello scacchiere mediterraneo, lo poneva nelle condizioni di essere ‘attenzionato’ dai servizi d’informazione israeliani”[43].

Le frizioni dell’ENI col potere sionista duravano da alcuni anni. Il 23 settembre 1957 il sottosegretario agli Esteri del governo Segni, il democristiano Alberto Folchi, aveva avvertito il presidente dell’ENI che un suo scontro con lo Stato ebraico avrebbe prodotto “negative ripercussioni in quei circoli politici e finanziari americani dove le simpatie e la solidarietà anche materiale per Israele hanno così larga parte”[44]. L’avvertimento di Folchi si riferiva al fatto che Mattei aveva manifestato l’intenzione di interrompere le trattative in corso con lo Stato ebraico, il quale si opponeva alla richiesta italiana di risarcimento per le razzie e le devastazioni compiute dalle truppe sioniste durante la guerra di Suez nei campi petroliferi di Abu Rudeis, nel sud del Sinai; inoltre Mattei aveva chiesto al governo di Roma di consentirgli l’avvio di una campagna di stampa contro la posizione assunta dalla delegazione israeliana. Fu così che la trattativa per il Sinai finì in mano ad un personaggio legato a circoli di potere sionisti e statunitensi: il famigerato Eugenio Cefis[45], che il 6 dicembre firmò a Tel Aviv un accordo favorevole agl’israeliani. Espulso dall’ENI nel gennaio 1962, Cefis vi rientrò dopo la morte di Mattei come vicepresidente esecutivo con pieni poteri, conducendo una politica di discontinuità rispetto alla linea del suo predecessore.

La dichiarazione secondo cui “L’ENI non ha rapporti con Israele e non intende averne sotto nessun aspetto”[46], fatta da Mattei all’ambasciatore della Repubblica Araba Unita a Roma il 12 ottobre 1961, era sostanzialmente “una dichiarazione di guerra contro Israele. Un pericolo per lo Stato ebraico, perché (…) la tela intessuta dal presidente dell’ENI fin dall’anno della fondazione della compagnia petrolifera italiana – non solo in direzione del mondo arabo-islamico, ma anche, dopo il 1957, verso l’Europa del Mercato comune – poteva risultare, e anzi sarebbe sicuramente risultata una sponda formidabile per il radicalismo antisionista guidato da Nasser”[47]. Più che legittima, quindi, l’ipotesi di una pista israeliana nell’“omicidio mirato” di Enrico Mattei: “negare che la questione israeliana sia co-determinante nella vicenda Mattei, che dell’attentato di Bascapè Israele sia stata se non il principale comunque uno dei maggiori beneficiari, e che l’ipotesi di un coinvolgimento diretto del Mossad nell’attentato di Bascapè sia percorribile, sarebbe altrettanto assurdo”[48].

Omicidi mirati

Il 17 ottobre 1972 l’Ufficio politico della Questura di Roma informò la Procura della Repubblica che verso le 22,20 della sera precedente nel cortile di uno stabile sito in piazza Annibaliano 4 era stato rinvenuto il cadavere di un uomo identificato come il cittadino giordano Adel Wail Zwaiter, rappresentante di Al-Fatah in Italia. Zwaiter era stato colpito al capo e alle spalle con dodici pallottole calibro 22.

Adel Wail Zwaiter era nato a Nablus nel 1934 da una famiglia di intellettuali. Dopo avere studiato letteratura araba e filosofia all’Università di Bagdad, aveva lavorato in Kuwait; nel 1962 si era trasferito a Perugia per perfezionare la sua conoscenza dell’italiano e quindi si era stabilito a Roma, dove svolgeva attività di traduttore presso l’ambasciata libica e attendeva ad una versione delle Mille e una notte. Portavoce dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Zwaiter aveva intessuto in Italia una rete di contatti negli ambienti politici e intellettuali; alla fine del 1968 aveva gettato le basi di un Comitato Italiano di Sostegno al Popolo Palestinese e di una rivista intitolata “Palestina”. Aveva anche organizzato a Milano un comizio di Abu Omar, stretto collaboratore di Yasser Arafat, al quale parteciparono 20.000 persone. Nel marzo 1971 contribuì alla pubblicazione di un nuovo periodico in lingua italiana, “Al Fatah”; nel 1972 aprì una libreria che divenne punto di riferimento per gli studenti provenienti dai paesi arabi.

Il procedimento legale avviato nel 1975 dalla magistratura romana si concluse il 17 dicembre 1980 con una sentenza d’appello che proscioglieva da ogni accusa i sette indiziati con la seguente motivazione: “Anche ammesso che questi appartenessero all’‘Intelligence Service israeliano’ (…) in ogni caso mancano prove concrete che a Roma abbia operato un ‘commando’ formato, nella sua totalità, proprio dagli stessi distintisi poi per attività analoghe in altri paesi europei”; ossia in Francia, a Cipro e in Norvegia, dove il Mossad aveva eliminato altri militanti palestinesi.

Adel Wail Zwaiter era stato assassinato dai sicari del gruppo operativo del Mossad comandato da Michael (Mike) Harari (1927-2014) nel contesto dell’operazione “Ira di Dio” voluta da Golda Meir, primo ministro di Israele, come vendetta per l’azione di Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco di Baviera. In un’intervista apparsa il 5 ottobre 2008 sul quotidiano israeliano “Yediot Ahronoth” il presidente emerito Francesco Cossiga, riferendosi all’uccisione di Zwaiter, dichiarò testualmente: “Crede che l’Italia non potesse, a suo tempo, arrestare i due agenti che lo fecero fuori? Un giorno, mentre rientrava in casa, due giovani lo picchiarono all’ingresso e lo fecero fuori con due pistole munite di silenziatore. Crede che gli Italiani non sapessero chi erano? È ovvio che lo sapevano, ma in questioni del genere è meglio non mettere le mani, ed era questa la linea che guidava il comportamento dell’Italia”.

All’“omicidio mirato” di Adel Wail Zwaiter ne seguirono altri. Il 9 ottobre 1981 venne assassinato a Roma lo scrittore Majed Abu Sharar, membro del Comitato Centrale di Al-Fatah, che era arrivato nella capitale per partecipare con monsignor Hilarion Capucci, Roger Garaudy e Vanessa Redgrave ad una conferenza internazionale di solidarietà col popolo palestinese. Gli agenti del Mossad gli piazzarono una bomba sotto il letto, nell’albergo in cui aveva preso alloggio. Inizialmente si cercò di far credere che Abu Sharar fosse stato ucciso dall’esplosione di una bomba che egli stesso stava confezionando, ma i risultati dell’autopsia e delle indagini seppellirono il tentativo di depistaggio.

Sempre a Roma, il 17 giugno 1982, furono ammazzati il medico chirurgo palestinese Nazih Matar e Youssef Kamal Hussein, che dopo Nemer Hammad era il numero due della rappresentanza di Al-Fatah in Italia. In quella giornata Kamal Hussein aveva partecipato ad un corteo di diecimila persone che aveva sfilato per le vie della capitale innalzando fotografie di Arafat e striscioni con la scritta “Alt al genocidio del popolo palestinese”. Poi, nella notte, era accorso con altri dirigenti palestinesi in via Valtravaglia, dove giaceva il corpo di Nazih Matar crivellato di colpi di pistola; dopo aver risposto alle domande dei funzionari di polizia e scambiato qualche parola coi giornalisti, si era diretto in auto verso casa. Quando frenò davanti ad un semaforo nei pressi della via Appia, l’auto esplose. “C’era una bomba con un congegno ‘a bolla di mercurio’, un ordigno micidiale – 200 grammi di tritolo più pallettoni d’acciaio – che deflagra al primo spostamento brusco (il mercurio si sarebbe mosso durante la ripida salita del garage innescando la fase preparatoria allo scoppio). Kamal rimane con la schiena dilaniata dalla rosa delle pallottole”[49].


NOTE

[1] Nel marzo 1991 l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga dichiarò: “Fui fuorviato, intossicato. Ho sbagliato”; e addebitò il suo “sbaglio” di undici anni prima all’influenza esercitata da “quella subcultura che aveva agganci con lobbies politiche e finanziarie”, dalla quale le stragi venivano “collegate alla destra e gli ammazzamenti singoli alla sinistra”.

[2] Giorgio Pisanò, E se non fosse stato un attentato?, “Candido”, n. 23, 11 giugno 1981.

[3] Guido Giraudo, C’è del marcio a Bologna. 12 mesi per far sparire la verità sulla strage, Passaggio al bosco, Firenze 2024.

[4] Tale tentativo può essere sinteticamente rappresentato da una scheda anonima apparsa sull’“Espresso”. “Dopo la strage di Bologna molti si sono chiesti se la Libia di Gheddafi non avesse svolto un qualche ruolo nella vicenda. Le ricerche in quella direzione non avevano dato però nessun risultato concreto. Ma con l’arresto del professore parmigiano Claudio Mutti emerge adesso il primo filo, seppure tenue, che lega la bomba della stazione al regime di Gheddafi. Il professor Mutti, 34 anni, è infatti un fervente ammiratore del colonnello libico (…) basta guardare la produzione saggistica di Mutti (…) Mutti ha dedicato energie sempre maggiori alla diffusione in Europa delle dottrine arabe più rozze e violente. La casa editrice per cui lavorava a Parma (Edizioni all’insegna del Veltro) ha stampato opuscoli monografici sulla ‘guerra sacra’ e su ‘Gheddafi templare di Allah’ (…)” (Anonimo, Da Ferrara a Bologna passando per Tripoli, “L’Espresso”, 7 settembre 1980, p. 10). Alla scheda dell’“Espresso” attinse nel 1981 il giudice istruttore Aldo Gentile (bollato da Giraudo come filopalestinese!) per motivare il rigetto dell’istanza di scarcerazione inoltrata dagli avvocati di Mutti, presentando quest’ultimo come “autore di saggi, titolare di attività editoriale, fondatore di movimenti estremistici (Giovane Europa), attivista della causa araba e favorevole all’islamismo con atteggiamenti di spiccato antisemitismo (…) La lettura dei documenti teorici è sufficiente di per sé ad attribuire all’imputato un ruolo di primo piano dell’ [sic] associazione sovversiva, poiché, per costante giurisprudenza, ai fini della configurabilità per [sic] il reato previsto dall’art. 270 del C.P. è sufficiente una attività anche di carattere soltanto ideologico”.

[5] G. Giraudo, op. cit., p. 178.

[6] Mino Fuccillo, Col sangue l’Italia è stata avvertita, intervista a Rino Formica, Capo Gruppo dei Deputati PSI, “La Repubblica”, 29 dicembre 1984.

[7] Ibidem.

[8] Paolo Cucchiarelli, Ustica & Bologna. Attacco all’Italia, La Nave di Teseo, Milano 2020, p. 502.

[9] Luca Tadolini, Rec. di P. Cucchiarelli, op. cit., “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 1/2021, p. 186. Si veda inoltre: L. Tadolini, Bologna: la pista israeliana, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2023.

[10] Giampaolo Pellizzaro in: Intervista a Paolo Bellini, “Reggio Report”, Capitolo 2 (1h 24’ 55’’), 4 luglio 2022.

[11] Claudio Gatti – Gail Hammer, Il quinto scenario. I missili di Ustica, Rizzoli, Torino-Roma 1994.

[12] C. Gatti, Il quinto scenario. Atto secondo. I missili di Ustica. La strage del 27 giugno 1980. Le risposte, dopo decenni di domande, Fuori Scena, RCS MediaGroup, Milano 2024, p. 290.

[13] Elena Di Dio, Gatti, ancora bufale su Ustica, https://www.stragi80.it, 12 agosto 2011.

[14] C. Gatti, Il quinto scenario. Atto secondo, cit., p. 2.

[15] Steve Weissman – Herbert Krosney, The Islamic Bomb, Times Books, 1981.

[16] SNIA Techint, Memorandum, 11 settembre 1980 (Archivio dell’Autore).

[17] Eric Salerno, Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste, il Saggiatore, Milano 2010, p. 179.

[18] E. Salerno, op.cit., p. 51.

[19] Verbale della seduta del 31 ottobre 1946 in: Aldo G. Ricci, Verbali del Consiglio dei Ministri, luglio 1943 – maggio 1948, VII, 1 – Governo De Gasperi, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, 1997.

[20] Ibidem.

[21] Felice Chilanti, Da due valige di dinamite alla lega dei popoli marittimi, “Cronache”, 9 novembre 1946.

[22] I “desperados” volontari della morte, “Il Messaggero”, 3 novembre 1946.

[23] Le indagini si polarizzano su elementi stranieri, “Il Popolo Nuovo”, 2 novembre 1946.

[24] E. Salerno, op. cit., p. 80. “In realtà, due testimonianze convergenti, quella di Marina Romualdi, figlia di Pino, e quella di Carlo Dinale, all’epoca giovane militante del Msi e stretto collaboratore di Romualdi, fanno nuova luce sull’episodio. (…) l’esplosivo, secondo le due testimonianze, sarebbe stato fornito dai neofascisti dei Far. Romualdi, che successivamente ne avrebbe parlato in diverse occasioni, pubbliche e private, sarebbe stato contattato per la fornitura dell’esplosivo da un personaggio che disse di chiamarsi Jabotinski (…) A queste due testimonianze va aggiunta l’importante dichiarazione del senatore Alfredo Mantica, in passato stretto collaboratore di Romualdi” (Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, Il Mulino, Bologna 2012, p. 220 e note 22 e 23 a p. 356).

[25] Si veda il testo del comunicato del “Comando Supremo dell’Irgun Zvai Leumi in Eretz Israel” in: Roberto Gremmo, L’ebraismo armato. L’“Irgun Zvai Leumi” e gli attentati antibritannici in Italia (1946-1948), Storia Ribelle, Biella 2009, pp. 9-10.

[26] La lettera dell’Irgun a De Gasperi è riprodotta in: R. Gremmo, op. cit., pp. 13-15.

[27] R. Gremmo, op. cit., pp. 14-15.

[28] Ministero degli Affari Esteri, Pubblicazioni anti-inglesi della stampa sionistica in Italia, 26 giugno 1947, ACS-PS (Categoria H2, busta 211).

[29] Questura di Roma, Attentato dinamitardo all’Ambasciata d’Inghilterra presso il Governo Italiano, sita in via XX Settembre – Indagini 22 dicembre 1946, ACS-SIS (busta 38).

[30] Ibidem.

[31] Dichiarazione del Prof. Johan Smertenko, Vice Presidente della Lega Americana per una Libera Palestina, 26 novembre 1946, ACS-PS (Categoria H2, busta 219).

[32] Le bombe carta “consistevano in un barattolo di latta di sigarette contenente dai 15 ai 20 grammi di tritolo, e due tavolette di legno, una delle quali faceva da base e l’altra da elemento portante dei volantini. Tutto questo veniva poi incartato in un involucro dal quale fuoriusciva esclusivamente il capo di una miccia da due minuti” (Mario Tedeschi, Fascisti dopo Mussolini. Le organizzazioni clandestine neofasciste 1945-1947, Settimo Sigillo, Roma 1996, pp. 133-134).

[33] Direzione Generale della Pubblica Sicurezza. Divisione Affari Generali Riservati sezione 3a, Appunto, 23 gennaio 1947, ACS-PS (Categoria H2, busta 211).

[34] In un suo libro di memorie (I clandestini del mare. L’emigrazione ebraica in terra d’Israele dal 1945 al 1948, Mursia, Milano 2006) Ada Sereni riferisce di un colloquio informale che lei e Yehuda Arazi avrebbero avuto col presidente del consiglio. Alla domanda di De Gasperi “Cosa dobbiamo fare per voi?” la Sereni rispose: “Chiudere un occhio, e possibilmente due sulle nostre attività in Italia”. “Va bene”, disse De Gasperi alzandosi. Cfr. E. Salerno, op. cit., p. 24.

[35] E. Salerno, op. cit., p. 55.

[36] E. Salerno, op. cit., p. 83.

[37] Dinamitardi ebrei stranieri scoperti e catturati dalla polizia, “Il Momento”, 19 febbraio 1949; Nuovi arresti a Genova fra i sionisti dinamitardi, “Il Tempo di Milano”, 23 febbraio 1949; Arrestati a Genova altri ebrei dinamitardi, “L’Italia”, 24 febbraio 1949; Scoperta a Milano una setta di dinamitardi stranieri, “Il Tempo”, 25 febbraio 1949; Numerosi terroristi arrestati a Genova, “Avanti!”, 26 febbraio 1949; Banda terroristica di ebrei scoperta dalla polizia italiana, “Il Tempo”, 2 marzo 1949; ecc.

[38] E. Salerno, op. cit., p. 94.

[39] Tiziano Franzi, Varazze attentato ai cantieri Baglietto. Quel mistero lungo 74 anni che coinvolse anche i servizi segreti, “Trucioli. Blog della Liguria e Basso Piemonte”, a. XI, n. 46, 13 luglio 2023, https://trucioli.it/

[40] E. Salerno, op. cit., p. 96.

[41] C. Mutti, Chi ha voluto la morte di Mattei, “L’Umanità”, 6-7 marzo 1994.

[42] Gianfranco Peroncini, Veni, vidi, Eni… Enrico Mattei e il sovranismo energetico, Volume 2 L’attentato di Bascapè. Sette mandanti per sette sorelle: un delitto “abissale”…, Byoblu, Milano 2023, p. 335.

[43] G. Peroncini, op. cit., pp. 332-333.

[44] Claudio Moffa, Il “caso Mattei” e il conflitto arabo-israeliano (1961-1962), “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 4/2007, p. 255.

[45] Paolo Morando, Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri, Laterza, Bari 2021.

[46] C. Moffa, Dalla guerra di Suez all’attentato di Bascapè. L’ombra di Israele sul ‘caso Mattei’, in: C. Moffa (a cura di), Enrico Mattei, il coraggio e la storia, Roma 2006, pp. 109-110.

[47] C. Moffa, Il “caso Mattei” e il conflitto arabo-israeliano (1961-1962), cit., p. 265.

[48] C. Moffa, Il “caso Mattei” e il conflitto arabo-israeliano (1961-1962), cit., ibidem.

[49] Enrico Gregori, 17 giugno 1982 Il Mossad uccide a Roma i palestinesi Youssef Kamal e Nazeyk Matar, “Il Messaggero”, 17 giugno 2018, https://www.ilmessaggero.it


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