Di fronte al riacutizzarsi del conflitto in Libia, si rende necessaria un’analisi geopolitica che superi la retorica (abbastanza approssimativa) dello scontro tra “l’isolata Italia” e la “potenza neocoloniale francese” desiderosa di usurparne la ricchezza petrolifera. Una narrazione che evidenzia l’incapacità di una concreta ed autonoma visione ed azione politica da parte del nuovo governo italiano. 

 

La recrudescenza dello scontro tra le diverse milizie della Tripolitania che negli ultimi giorni ha nuovamente destabilizzato la capitale libica e messo in discussione la già precaria sopravvivenza del governo di Fayez al-Sarraj ha stupito solo gli analisti di politica internazionale meno attenti.

L’accordo per la cessazione dei combattimenti nella zona meridionale della città, raggiunto venerdì 31 agosto sotto l’egida della Reconciliation Commission, ha visto l’importante defezione della Settima Brigata di Tarhuna guidata da Salah Badi[1], che si è dichiarata pronta a continuare la lotta fino alla definitiva eliminazione dei restanti gruppi guerriglieri dalla città[2]. Nei prossimi giorni il posizionamento di alcune importanti milizie (soprattutto quelle di Zintan e Misurata) potrà risultare fondamentale per determinare il successo o meno della Settima Brigata, che, al momento, non sembra ancora in grado di poter prendere Tripoli da sola[3].

Il nuovo inasprirsi del conflitto ha irrimediabilmente incrinato quel fragile equilibrio sul quale si era pensato di poter ricostruire e mantenere la Libia (almeno nel breve periodo) dopo il rovesciamento della Jamahiriyya (letteralmente “governo delle masse”)[4] guidata da Mu‘ammar Gheddafi a seguito dell’aggressione franco-anglo-americana del 2011. Questo equilibrio si fondava sul contenimento (più teorico che pratico) della conflittualità fra i tre diversi blocchi formatisi all’interno del paese, ognuno dei quali espressione di differenti interessi geopolitici: il sud (Fezzan) nelle mani della componente tuareg; la Cirenaica saldamente sotto il controllo dell’ex ufficiale di Gheddafi (in passato fuggito negli USA sotto l’egida della CIA) Khalifa Belqasim Haftar, appoggiato da Egitto ed Emirati Arabi Uniti e sotto certi aspetti dalla Francia e dalla Russia; la Tripolitania, agglomerato di milizie variamente collegabili alla galassia islamista in conflitto tra loro, con il governo internazionalmente riconosciuto di al-Sarraj incapace di predisporre un’azione politica che abbia effetto oltre i muri del suo stesso palazzo.

In questo complesso quadro geopolitico l’Italia, tralasciando l’opportunistica quanto disastrosa  partecipazione all’aggressione NATO del 2011, che portò l’Occidente intero ad esultare di fronte all’immagine del corpo martoriato del colonnello Gheddafi[5], è stata incapace di sviluppare un’azione decisiva in difesa dei propri interessi geostrategici.

Di fatto, l’aver a lungo ignorato la debolezza del governo di al-Sarraj si è dimostrato una scelta altamente controproducente. Se da un punto di vista del rispetto del diritto internazionale l’idea di voler dialogare solo ed esclusivamente con governi internazionalmente riconosciuti può sembrare corretta, è altrettanto vero che il governo di Tripoli risulta privo di qualsiasi potere e controllo sul territorio. Cosa di cui i ministri italiani Salvini e Moavero, nonostante i loro recenti viaggi diplomatici a Tripoli, non sembrano essersi accorti.

Una dinamica non dissimile da quella dello Yemen, dove la stessa “Comunità Internazionale” sostiene e riconosce il governo fantoccio di Abdrabbuh Mansur Hadi (privo di qualsiasi legittimità e capace di controllare solo alcuni quartieri della città di Aden) e tace sui reiterati massacri sauditi a danno della popolazione civile. 

Ora, questa politica di sostegno incondizionato a Tripoli, dovuta anche alla non sorprendente scarsa volontà di dialogo di Khalifa Haftar con le autorità italiane, è iniziata sotto il governo Gentiloni. Ed il nuovo governo Conte, incapace di andare oltre la dottrina dell’ex ministro dell’interno Marco Minniti attualizzandola rispetto al mutato scenario geopolitico, l’ha portata a compimento consegnando al governo libico ed alla sua controversa guardia costiera (spesso accusata di complicità in traffici illeciti) di 12 motovedette per il pattugliamento delle coste ed il blocco del traffico di esseri umani. Un’attività criminale che sembra essersi concentrata esclusivamente nell’area di Sabratha e nella zona tra Misurata e Gasr Garabulli[6], città fondata in epoca coloniale italiana col nome di Castelverde. Un traffico, trasformatosi in vera e propria industria, al quale le milizie libiche difficilmente rinunceranno prima di una definitiva stabilizzazione economica di lungo periodo. Obiettivo al momento difficilmente raggiungibile, se si considera la scarsa disponibilità delle milizie stesse a trasformarsi da attori pseudomilitari in attori politici.

A determinare questa erronea scelta strategica è stata l’illusione circa un presunto ruolo dell’Italia come “paese guida” della ricostruzione libica, che le amministrazioni statunitensi (prima Obama ed oggi Trump) hanno prodotta nei governi italiani succedutisi in questi anni: non ultima, la quanto meno aleatoria promessa trumpiana di una “cabina di regia” congiunta USA-Italia per la risoluzione del conflitto libico, fatta al primo ministro Giuseppe Conte durante l’incontro a Washington.

L’Italia non sta perdendo “geopoliticamente” Tripoli in questi giorni. L’ha perduta nel 2011, e tutto ciò che è venuto dopo è stato semplicemente un persistere nell’errore a cui i governi succedutisi in questi sette anni non sono riusciti a porre rimedio.

Dunque, ancora una volta, il fallimento italiano in politica estera è stato determinato dal totale asservimento al volere nordamericano e dall’incapacità di opporsi ad esso: unico ostacolo reale, a prescindere dall’attuale retorica governativa, alla riappropriazione di una reale sovranità nazionale.

Di conseguenza, la lettura che viene data dell’attuale situazione libica risulta profondamente influenzata dalla già citata impostazione da “campagna elettorale permanente”. Questa lettura, incentrata sullo scontro fra le aspirazioni neocoloniali della Francia “europeista” di Emmanuel Macron (che avrebbe in Haftar il suo uomo forte in Libia) e l’Italia “sovranista” per il controllo delle ricchezze del sottosuolo libico, risulta estremamente riduttiva (per non dire fallace). In primo luogo perché non tiene conto del fatto che lo stesso Haftar ha goduto a lungo anche della protezione degli Stati Uniti. Ed in secondo luogo perché non tiene in considerazione un fattore di non poco rilievo: il ruolo della Russia nel Mediterraneo orientale.

È evidente che la Francia, con l’allora presidente Nicolas Sarkozy (intenzionato anche ad insabbiare la questione dei finanziamenti ricevuti da fondi libici), ha avuto un ruolo determinante nella sciagurata aggressione che ha portato alla distruzione di un paese che risultava essere il principale partner commerciale italiano nella sponda sud del Mediterraneo. Ed appare evidente che dietro l’aggressione vi fosse anche l’intenzione francese di acquisire una posizione di rilievo nel mercato petrolifero libico. Ma appare altresì evidente che la Francia di Macron, cercando di imporsi come guida dell’UE scalzando la Germania e, paradossalmente, dimostrando l’invalidità di un’altra costruzione propagandistica del cosiddetto “fronte sovranista”, quella dell’asse franco-tedesco, si presta facilmente a svolgere il ruolo del “nemico” per il nuovo governo italiano, totalmente allineato a Washington nell’obiettivo di decostruire il sistema euro (creazione in parte statunitense che però non soddisfa più gli schemi egemonici USA) sostituendolo con un’istituzione politico-economica che meglio assecondi i rinnovati interessi strategici statunitensi.

Dunque, interpretare lo scontro in atto in Libia come uno scontro tra ENI e Total, con la seconda intenzionata ad usurpare la posizione egemonica della prima sul mercato petrolifero, appare quanto meno una forzatura. Anche e soprattutto se si considera che la situazione attuale è l’inevitabile risultato dell’incapacità italiana di pensare e proiettare la propria politica estera in modo autonomo: globalista sotto l’amministrazione Obama, sovranista sotto Trump.

La Total è presente in Libia già dal 1954; cinque anni prima dell’ENI, arrivata nel 1959. E la Total mira ad ampliare i suoi investimenti in Nordafrica e soprattutto in Libia, dove punta, nei prossimi dieci anni, ad arrivare ad una produzione giornaliera di 400.000 barili di petrolio al giorno. Un livello simile a quello dell’ENI, che nel 2017 si è attestata sui 384.000 barili al giorno: il risultato storicamente più alto registrato dall’ENI nel paese[7].

Ora, la compagnia nazionale libica NOC (National Oil Company), unica istituzione statale che ha saputo reggere l’onda d’urto della guerra, dopo il picco negativo del 2013, ha progettato di accrescere la produzione fino 2,2 milioni di barili al giorno entro il 2023. Un progetto messo a rischio dai ripetuti attacchi ai terminali petroliferi, che mirano ad indebolire ulteriormente il governo di Tripoli e che recentemente hanno portato alla chiusura dei porti di Ras Lanuf e di Es Sider.

Nonostante l’attuale instabilità e le conseguenti difficoltà di trasporto, il progetto libico di aumento della produzione dagli 1,28 milioni di barili al giorno del 2017 (erano 1,6 prima dell’aggressione NATO) a 2,2 milioni di barili nei prossimi anni, dimostra come il presunto scontro ENI-Total possa facilmente risolversi in una semplice spartizione del mercato libico in una condizione di stabilità politica che potrebbe giovare ad entrambe le compagnie. Non è da dimenticare infatti che le attività ENI in Libia sono regolate da contratti EPSA (esplorazione e condivisione della produzione) che hanno durata fino al 2042 per la produzione a olio ed al 2047 per quella a gas.

Il sostegno francese a Khalifa Haftar, più che un’operazione antitaliana, è una diretta conseguenza dell’appoggio al progetto ONU per la realizzazione di elezioni presidenziali entro il 2018. Elezioni che, considerata l’attuale situazione di instabilità, difficilmente potranno svolgersi fuori dall’area controllata dall’ex comandante del contingente libico in Ciad negli anni Ottanta. 

In questo contesto sta agendo, al momento sotto traccia, anche un altro attore: la controllata statale russa Rosneft, gigante petrolifero guidato da Igor Sechin, che insieme con Gazprom ha rappresentato negli ultimi anni uno degli strumenti più utili per le penetrazione geopolitica di Mosca nella regione.

L’obiettivo del Cremlino è chiaro e spiega l’appoggio russo a Haftar ed i cospicui investimenti della Rosneft in Libia[8]: la costruzione di uno stabile “triangolo russo” nel Mediterraneo orientale tra Cirenaica, Egitto e Siria. Attraverso la Rosneft, la pragmatica e duttile politica estera di Mosca nella regione mira a contrastare il duopolio USA-Arabia Saudita nel mercato del greggio e la sua capacità di incidere in modo determinate sul suo prezzo. E l’ingresso russo in Egitto, dove Rosneft è partner dell’ENI per ciò che concerne lo sfruttamento del megagiacimento di gas Zohr, mira a scardinare il legame che vincola al-Sisi con i Saud, considerati alla stregua di suoi protettori. Di fatto, Russia ed Egitto hanno già ratificato l’accordo per la costruzione della prima centrale nucleare egiziana (con soldi e tecnologia russa) ad el-Dabaah. Inoltre, hanno stipulato importanti accordi militari per l’utilizzo da parte russa di alcune basi egiziane sulla costa mediterranea. Accordi mirati a garantire anche il sostegno a Haftar, che, grazie al suo esercito, ha costruito una fascia di sicurezza contro la penetrazione jihadista in Egitto attraverso il confine occidentale.

Preso atto dell’ingresso russo nello scenario libico, la posizione dell’Italia diventa ancora più complicata. Il totale allineamento agli Stati Uniti, ulteriormente dimostrato con l’importazione di un livello record di petrolio nordamericano nel mese di giugno (circa 4,93 milioni di barili) a seguito della chiusura dei terminali libici[9], non è stata una mossa gradita dalla Russia (principale fornitore italiano di idrocarburi), la quale già aveva visto “momentaneamente” abbandonate le promesse elettorali della Lega circa la politica estera (rimozione delle sanzioni e restaurazione dei rapporti economici italo-russi).

Allo stesso tempo, insistere sull’aiuto nordamericano nel contesto libico in cambio di quote petrolifere ENI, garantendo così l’ingresso degli USA nel mercato libico del petrolio e dando ulteriore slancio alla dottrina trumpiana dell’Energy Dominance (volta ad assicurare il dominio statunitense nel mercato globale dell’energia), nel lungo periodo rappresenterebbe una minaccia ben più concreta di quella costituita dalla Total all’attuale egemonia dell’ENI in Libia.

Il recente inasprirsi del conflitto ed il rinnovato interesse russo, dunque, reinseriscono la Libia fra i teatri caldi di quel conflitto mondiale geostrategico a macchia di leopardo (circoscritto a limitate aree geografiche) che sta lentamente erodendo l’egemonia unipolare nordamericana sul globo.

Un processo di cui il trumpismo, con i suoi effimeri dati economici positivi dovuti alla continua vendita di armamenti sempre più sofisticati alle monarchie del Golfo (Arabia Saudita in primis), è solo un effetto e non la causa.

Ancorarsi geopoliticamente alla declinante potenza nordamericana nel momento in cui il sistema mondiale si sta rapidamente evolvendo verso il multipolarismo è un atteggiamento che, in termini filosofici, potrebbe essere tradotto col concetto di “esperienza del ritardo”: ovvero, l’incapacità dell’uomo di pensare un nuovo inizio vivendo perennemente in una obliante condizione di fine senza fine.

[1] Ex leader di Alba Libica, un raggruppamento di milizie islamiste che già in passato cercò di prendere possesso della capitale.

[2] S. Al-Harathy, Truce announced in Tripoli, 7th Brigade rejects, su www.libyaobserver.ly.

[3] ISPI Focus – Libia, crisi cronica, a cura di Osservatorio MENA, su www.ispionline.it.

[4]  Il progetto politico-sociale che il colonnello Gheddafi si proponeva di realizzare in Libia era fondato sull’idea che ciascuno potesse condividere le ricchezze e le attività produttive del Paese in misura eguale. Gheddafi, nel suo Libro Verde, affermò l’inadeguatezza tanto del principio marxista di proprietà statale quanto di quello capitalistico a base privata. La proprietà dei beni economici doveva appartenere al popolo nella sua totalità, in modo tale che nessun individuo dovesse dipendere economicamente da un altro. Per quanto imbevuto di slanci utopici, il sistema sociale pensato da Gheddafi e la sua effettiva realizzazione (non priva di difetti) rimangono un modello esemplare da rimpiangere se paragonato all’anarchia ed alla distruzione portati dall’Occidente in Libia. Si veda a tal proposito M. Gheddafi, Il Libro Verde, GOG Edizioni, Roma 2018; nonché D. Vandewalle, Storia della Libia contemporaneo, Salerno Editore, 2007.

[5] A tal proposito è importante ricordare anche il fatto che la coalizione franco-anglo-americana minacciò di bombardare “inavvertitamente” i terminali petroliferi ENI in caso di mancata partecipazione dell’Italia all’operazione contro la Libia. Senza considerare che gli aerei della suddetta coalizione, nel primo giorno di attacco, violarono ripetutamente e senza preavviso lo spazio aereo italiano.

[6] A. Negri, La polveriera Libia: rischiamo di perdere anche Tripoli. E il traffico di migranti è diventato un’industria, su www.notizie.tiscali.it.

[7] Le attività di ENI in Libia (Overview), su www.eni.com.

[8]  Russian Rosneft oil firm starting lifting oil from Libya, su www.libyanexpress.com.

[9] M. Bottarelli, Conte l’americanista: milioni di barili di petrolio in arrivo dagli USA. Come la prenderà Putin, il nostro principale fornitore?, su www.businessinsider.com.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).