Il 7 ottobre 2023: oltre la narrazione ufficiale degli eventi in Israele e Gaza

Le recenti dichiarazioni dell’ex ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant[1], offrono un’occasione preziosa per far luce su quanto accaduto il 7 ottobre 2023. In un’intervista rilasciata al Canale 12 israeliano, Gallant ha riconosciuto che, in alcune aree, fu impartito l’ordine di applicare la controversa Direttiva Hannibal. «Credo che, tatticamente, in certi luoghi sia stata applicata, mentre in altri no, e questo rappresenta un problema», ha affermato, evidenziando così l’esistenza di una strategia militare che ha messo in pericolo la vita di civili e ostaggi israeliani.

La Direttiva Hannibal, pur essendo stata ufficialmente abrogata nel 2016, sembra quindi essere rimasta una pratica implicita nelle operazioni militari israeliane. La dichiarazione di Gallant non solo conferma l’applicazione di questa controversa strategia, ma getta anche un’ombra sulle azioni delle forze armate durante l’attacco del 7 ottobre. Questo solleva interrogativi fondamentali sull’etica delle decisioni militari prese in quel giorno cruciale e sul prezzo pagato non solo dai palestinesi, ma anche dagli stessi civili israeliani coinvolti.

Gallant, insieme al primo ministro Benjamin Netanyahu, è ora oggetto di un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra, il che aggiunge un peso significativo alle sue dichiarazioni. Questo mandato rappresenta un passaggio cruciale nella richiesta di responsabilità internazionale per le azioni intraprese durante e dopo l’attacco, sottolineando la gravità delle accuse rivolte non solo ai combattenti di Ḥamās, ma anche alle autorità israeliane.

Il 7 ottobre 2023 ha segnato una data cruciale nel conflitto israelo-palestinese. L’attacco lanciato da Ḥamās e da altre fazioni della Resistenza palestinese[2] contro il territorio israeliano ha rappresentato un momento di svolta, evidenziando non solo la capacità di resistenza del popolo palestinese, ma anche l’estrema fragilità delle difese israeliane. Per il popolo palestinese, questo attacco ha significato una risposta disperata e inevitabile a decenni di occupazione, espropriazione e violenza sistematica perpetrata da Israele.

Le ricostruzioni ufficiali degli eventi, dominate dalle accuse di crimini di guerra rivolte ai combattenti palestinesi, celano una realtà ben più complessa. L’applicazione della Direttiva Hannibal ha infatti aggravato la situazione, trasformando un conflitto già brutale in una tragedia umanitaria che ha coinvolto indistintamente combattenti, civili palestinesi e israeliani. L’uso indiscriminato della forza da parte di Israele ha dimostrato un totale disprezzo per la vita umana, sia palestinese che israeliana, confermando una strategia che privilegia la repressione violenta rispetto alla ricerca di una soluzione pacifica.

L’attacco ha esposto non solo le contraddizioni interne di una politica militare israeliana che, nel tentativo di evitare il rapimento dei propri soldati, ha messo in pericolo la vita dei propri cittadini, ma ha anche evidenziato l’ipocrisia di uno Stato che si presenta come vittima mentre perpetua da decenni l’oppressione di un intero popolo. Questo episodio ha infranto il mito dell’invincibilità israeliana, minando la fiducia della popolazione nel proprio esercito e nei leader politici. La narrazione ufficiale, costruita per giustificare l’uso della forza e la repressione a Gaza, non può più nascondere le crepe profonde nel sistema di sicurezza e nella moralità delle decisioni militari israeliane.

 

La Direttiva Hannibal: una strategia di fuoco a qualunque costo

Formulata nel 1986 dai vertici delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), la Direttiva Hannibal rappresenta una delle politiche militari più controverse e disumane nella storia di Israele. Questa direttiva sanciva l’uso della massima potenza di fuoco per impedire il rapimento di soldati israeliani da parte di forze nemiche, anche a costo della loro stessa vita[3]. Tale approccio estremo rifletteva una mentalità che considerava la vita dei propri soldati sacrificabile pur di evitare l’umiliazione politica di uno scambio di prigionieri con il nemico. Ma più grave ancora è il modo in cui, nel tempo, questa direttiva è stata applicata anche ai civili israeliani e palestinesi, rivelando un totale disprezzo per la vita umana.

Il nome “Hannibal”, originariamente assegnato in modo casuale da un sistema informatico delle IDF, ha finito per assumere un significato emblematico, evocando un’idea di risposta immediata e spietata. Sebbene possa suggerire un richiamo al celebre condottiero cartaginese Annibale, noto per la sua astuzia e abilità strategica, il nome sembra evocare con ancora maggiore forza la figura inquietante di Hannibal Lecter, il personaggio interpretato da Anthony Hopkins nel film Il silenzio degli innocenti. La natura dell’ordine impartito nelle ore immediatamente successive all’attacco di Ḥamās in Israele lascia poco spazio ai dubbi: il nome richiama una risposta tanto brutale quanto implacabile, riflettendo una ferocia quasi psicopatica, degna del celebre cannibale cinematografico.

Una conferma dell’applicazione su vasta scala di questa direttiva giunge dal colonnello riservista dell’aeronautica Nof Erez, che ha definito gli eventi del 7 ottobre come «una Hannibal di massa»[4]. Erez ha dichiarato che, nella confusione dei veicoli in movimento tra gli insediamenti israeliani e Gaza, era quasi impossibile per gli equipaggi degli elicotteri distinguere tra palestinesi e ostaggi israeliani. Anche le abitazioni nei kibbutzim sono state colpite dal fuoco degli elicotteri, con i piloti costretti a coordinarsi con le squadre di sicurezza privata dei kibbutzim per indicare quali residenze colpire, pur consapevoli del rischio che vi fossero ostaggi israeliani all’interno.

Un episodio emblematico è quello di Yasmin Porat, una donna israeliana che, dopo essere stata liberata dal suo sequestratore palestinese nel kibbutz di Be’eri, ha assistito al bombardamento dell’abitazione in cui erano rimasti 14 ostaggi. Il carro armato israeliano ha aperto il fuoco, lasciando solo un sopravvissuto. Un video, filmato da un elicottero, ha confermato l’evento, ulteriormente avvalorato dal generale di brigata Barak Hiram[5].

Anche Tuval Escapa, membro della sicurezza di Be’eri, ha testimoniato che i comandanti sul campo hanno dovuto prendere decisioni difficili, tra cui bombardare le residenze con i loro occupanti per «eliminare i terroristi insieme agli ostaggi»[6]. Due veterani dell’Unità 669, operativi il 7 ottobre come soccorritori volontari, hanno confermato di aver visto elicotteri Apache e carri armati sparare ripetutamente all’interno del kibbutz di Be’eri[7]. Il tenente colonnello Golan Vach ha ammesso che, nel kibbutz di Kfar Aza, le abitazioni “occupate da Hamas” sono state distrutte dai carri armati, anche in presenza di ostaggi, perché era considerato necessario riconquistare l’insediamento[8].

Le conseguenze di questi bombardamenti sono state devastanti. A Be’eri, molte abitazioni sono state completamente distrutte; secondo il quotidiano Haaretz, la metà dei danni è stata causata da munizioni pesanti, mentre l’altra metà dagli incendi[9]. La maggior parte delle 200 abitazioni destinate alla demolizione dopo l’attacco si trova a Be’eri, a dimostrazione della violenza indiscriminata delle operazioni militari israeliane. Al contrario, nel kibbutz di Nir Oz, dove i miliziani palestinesi non sono stati affrontati dalle IDF, i danni sono stati principalmente causati dagli incendi, segno di una distruzione meno sistematica[10].

Questa applicazione brutale della Direttiva Hannibal non solo ha causato la morte di ostaggi israeliani, ma ha anche esacerbato la sofferenza della popolazione palestinese, vittima di una politica di punizione collettiva. Le operazioni militari su larga scala hanno colpito infrastrutture civili, scuole, ospedali e abitazioni, alimentando il ciclo di violenza e sofferenza che da decenni affligge la regione. Le testimonianze raccolte rivelano non solo l’efficacia distruttiva di questa strategia, ma anche la sua totale indifferenza per i principi fondamentali del diritto internazionale e dei diritti umani.

Le prove sul campo mostrano chiaramente come l’esercito israeliano abbia preferito sacrificare la vita dei propri cittadini e ostaggi pur di eliminare i combattenti palestinesi. Questo approccio non solo ha provocato una tragedia umanitaria, ma ha anche sollevato serie domande sul rispetto delle leggi internazionali e dei diritti umani da parte di Israele. La brutalità indiscriminata delle operazioni militari evidenziano un modello di condotta che va oltre la semplice difesa, rivelando un intento punitivo e repressivo che ha colpito duramente non solo il popolo palestinese, ma anche gli stessi cittadini israeliani.

Nonostante queste evidenze schiaccianti, i media tradizionali persistono nel sostenere la narrativa secondo cui sarebbe stata la Resistenza palestinese a colpire i civili, ignorando o minimizzando le informazioni che attestano il coinvolgimento diretto dell’esercito israeliano in molte delle stragi avvenute. Questo costante rovesciamento della verità alimenta la disinformazione e legittima la repressione e l’oppressione del popolo palestinese, mentre le responsabilità delle forze armate israeliane vengono sistematicamente celate.

 

Manipolazione mediatica e propaganda: la costruzione della narrazione

Parallelamente alle operazioni militari, Israele ha lanciato una massiccia campagna mediatica per giustificare l’offensiva su Gaza. Le immagini diffuse, selezionate accuratamente, hanno mostrato gli episodi più cruenti e scioccanti dell’attacco palestinese, costruendo una narrazione che enfatizzava la brutalità dei combattenti di Ḥamās. Tuttavia, questi materiali sono stati presentati in modo altamente selettivo, omettendo qualsiasi prova che potesse mettere in discussione la narrativa ufficiale o evidenziare le responsabilità israeliane.

Un elemento chiave di questa strategia è stato il controllo rigoroso dell’accesso ai luoghi dell’attacco da parte di organizzazioni indipendenti e media stranieri. Le autorità israeliane hanno limitato l’ingresso a giornalisti e investigatori internazionali, impedendo verifiche imparziali e mantenendo un controllo totale sulla narrazione diffusa a livello globale. Questo isolamento informativo ha permesso di rafforzare una versione degli eventi che giustificava l’uso indiscriminato della forza e le gravi perdite civili come inevitabili conseguenze dell’aggressione palestinese.

Episodi come la presunta decapitazione di quaranta bambini nel kibbutz di Kfar Aza, inizialmente rilanciata dal canale i24NEWS e amplificata dai media internazionali, rappresentano uno degli esempi più evidenti di disinformazione legata agli eventi del 7 ottobre. La notizia si è rapidamente diffusa, rilanciata dal portavoce del primo ministro Benjamin Netanyahu e ripetuta persino dall’ex presidente americano Joe Biden, il quale dichiarò: «Non avrei mai immaginato di vedere e avere immagini verificate di terroristi che decapitano bambini»[11]. Tuttavia, indagini indipendenti e verifiche sul campo hanno rivelato la totale assenza di prove a sostegno di questa accusa. Sotto crescente pressione mediatica e internazionale, lo stesso governo israeliano ha dovuto ammettere ufficialmente di non avere alcuna prova a supporto di questa notizia[12]. Nessun’altra fonte è riuscita a corroborare l’informazione, ma la storia ha continuato a circolare su molti media occidentali, contribuendo a rafforzare l’immagine demonizzante della Resistenza palestinese.

Il tenente colonnello Yaron Buskila, della Divisione Gaza delle IDF, aveva parlato di bambini uccisi trovati appesi ai fili del bucato, ma anche questa affermazione è stata successivamente ritrattata, come confermato dal quotidiano Haaretz[13]. Il giornale ha specificato che, sebbene possano essersi verificati episodi di profanazione o decapitazione di cadaveri da parte dei combattenti di Ḥamās, in particolare sui corpi dei soldati israeliani uccisi, non vi sono prove concrete che attestino l’uccisione sistematica di bambini appartenenti a diverse famiglie. Questa smentita contraddice direttamente le dichiarazioni fatte da Netanyahu a Biden, secondo cui i miliziani palestinesi «hanno preso decine di bambini, li hanno legati, bruciati e giustiziati»[14].

Altre atrocità, come quella della donna incinta a cui sarebbe stato squarciato il ventre nel kibbutz di Be’eri o quella di un bambino ucciso e messo in un forno acceso, non sono mai state confermate. Le autorità del kibbutz e la polizia hanno dichiarato di non avere alcuna conoscenza del primo episodio, mentre la seconda diceria è stata apertamente smentita[15]. Nonostante la smentita ufficiale di queste affermazioni, tali falsi episodi sono stati ripetutamente riportati dalla stampa locale e internazionale e, nella maggior parte dei casi, non sono stati ritrattati.

Nonostante l’assenza di prove concrete, queste accuse hanno continuato a essere diffuse con insistenza dai principali canali mediatici, contribuendo a radicare nell’immaginario collettivo l’immagine distorta e disumanizzante dei combattenti palestinesi come barbari privi di umanità. Questa narrazione faziosa ha avuto l’effetto di demonizzare la Resistenza palestinese, oscurando il contesto di oppressione e occupazione in cui essa opera. Così facendo, è stato creato un clima emotivo che non solo ha giustificato azioni militari sproporzionate, ma ha anche legittimato la repressione sistematica del popolo palestinese e il perpetuarsi di politiche di occupazione brutali.

Altre accuse, come quella dell’uso sistematico dello stupro come arma di guerra da parte di Ḥamās, sono state diffuse con grande enfasi dal governo israeliano e dai media occidentali. Tuttavia, rapporti successivi, inclusi quelli delle Nazioni Unite, hanno evidenziato la scarsità di prove concrete a supporto di tali affermazioni. La manipolazione delle testimonianze e l’uso di fonti poco affidabili hanno ulteriormente messo in dubbio la veridicità di molte delle accuse mosse contro i combattenti palestinesi.

Questa costruzione narrativa ha avuto un impatto significativo sull’opinione pubblica internazionale, influenzando il modo in cui gli eventi sono stati percepiti e giustificando la brutalità della risposta israeliana. La capacità di controllare la narrazione mediatica ha permesso a Israele di presentare l’offensiva su Gaza non come un atto di aggressione sproporzionata, ma come una necessaria misura di difesa contro una minaccia rappresentata da un nemico disumanizzato.

In questo modo, la propaganda ha svolto un ruolo cruciale nel consolidare il consenso interno e internazionale per le azioni militari, oscurando le responsabilità delle forze israeliane e riducendo la complessità del conflitto a una semplice dicotomia tra vittime innocenti e terroristi spietati. Questo approccio ha impedito una comprensione più profonda delle radici storiche e politiche del conflitto, alimentando una spirale di violenza e disinformazione che continua a influenzare le dinamiche della regione.

 

Le accuse di violenza sessuale: tra propaganda e verità

Tra le accuse più gravi e infamanti rivolte alla Resistenza palestinese vi sono quelle di aver utilizzato lo stupro come arma di guerra. Il governo israeliano e i media occidentali hanno diffuso con grande enfasi racconti di presunte violenze sessuali, descrivendo scenari di «stupri di gruppo» e «mutilazioni». Tuttavia, la scarsità di «prove concrete» e la mancanza di «riscontri forensi» mettono seriamente in discussione la veridicità di queste affermazioni. Rapporti successivi, inclusi quelli delle Nazioni Unite, hanno evidenziato l’«assenza di documentazione fotografica» e la «mancata esecuzione di autopsie», elementi fondamentali per confermare tali crimini.

A seguito delle pressioni internazionali, Pramila Patten, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti, ha presentato un rapporto il 4 marzo 2024, basato su una visita in Israele dal 29 gennaio al 14 febbraio. Il rapporto ha concluso che «vi sono ragionevoli motivi per ritenere che si sia verificata violenza sessuale legata al conflitto durante gli attacchi del 7 ottobre, in diverse località limitrofe a Gaza, compresi stupri e stupri di gruppo, in almeno tre località». Tuttavia, Patten ha chiarito che il suo team «non aveva un mandato investigativo formale» e si è basato «principalmente su materiale fornito dalle autorità israeliane»[16]. Inoltre, ha ammesso che «non è stato possibile intervistare direttamente le vittime o i sopravvissuti».

Durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto, a Patten è stato chiesto se vi fossero «prove di una strategia sistematica di stupro» da parte di Ḥamās. La sua risposta è stata negativa: il rapporto «non ha potuto stabilire l’entità complessiva, la portata e l’attribuzione delle violenze» a gruppi specifici, come Ḥamās o altri gruppi armati[17]. Patten ha inoltre sottolineato che «la prima lettera ricevuta dal governo israeliano parlava di centinaia, se non migliaia, di casi di brutale violenza sessuale perpetrata contro uomini, donne e bambini. Non ho trovato niente, niente del genere»[18]. Questa dichiarazione mette ulteriormente in dubbio la narrazione ampiamente propagandata dalle autorità israeliane.

Pur ammettendo la possibilità che episodi isolati di violenza sessuale possano essersi verificati, la tesi secondo cui Ḥamās avrebbe sistematicamente impiegato lo stupro come strumento di guerra risulta priva di un adeguato supporto probatorio. Al contrario, emergono numerosi indizi che suggeriscono un tentativo deliberato di manipolare informazioni e fabbricare prove a sostegno di questa narrazione.

Un esempio emblematico di questa dinamica è il reportage pubblicato il 28 dicembre 2023 dal New York Times, che ha concluso che i combattenti di Ḥamās avrebbero perpetrato stupri e violenze sessuali in modo sistematico[19]. Tuttavia, un’analisi approfondita del contenuto dell’articolo rivela significative incongruenze. Circa un terzo del reportage si concentra sulla presunta aggressione sessuale di una donna, Gal Abdush. Pochi giorni dopo la pubblicazione, il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha intervistato la madre di Gal, Etti Brakha, che ha dichiarato di non aver mai avuto notizia dello stupro prima della diffusione dell’articolo[20]. Le sorelle di Gal hanno successivamente smentito l’accaduto, mentre Nissim Abdush, cognato della vittima, ha precisato che, durante una telefonata con il marito della donna, Nagi, non era mai stato fatto alcun riferimento ad abusi sessuali[21]. Né la polizia né gli esperti forensi, inoltre, avevano mai sollevato questa ipotesi durante le indagini.

Un’altra testimonianza chiave del reportage è quella di Sapir, una giovane contabile di 26 anni che partecipava al Nova Festival. Sapir ha raccontato di aver assistito a numerosi stupri e a decapitazioni di donne, fornendo descrizioni raccapriccianti. Tuttavia, nonostante la gravità delle sue dichiarazioni, non è stata trovata alcuna traccia di donne decapitate nei registri ufficiali del 7 ottobre, né le autorità sono riuscite a identificare le presunte vittime degli stupri[22].

Raz Cohen, veterano delle forze speciali israeliane, è stato un altro testimone citato dal New York Times. Tuttavia, le sue dichiarazioni sono risultate contraddittorie: inizialmente ha riferito di un solo episodio di stupro, perpetrato da cinque uomini in abiti civili, che dunque non sembravano appartenere a Ḥamās.

Le polemiche si sono ulteriormente intensificate quando si è scoperto che Anat Schwartz, una degli autori del reportage, non era una giornalista, bensì una regista israeliana senza esperienza nel campo dell’informazione[23]. Adam Sella, coautore dell’articolo, era suo nipote. Solo Jeffrey Gettleman era un giornalista veterano del New York Times, ma le indagini sul campo sono state condotte da Schwartz e Sella. In un articolo successivo volto a difendere l’inchiesta originale, il testimone Raz Cohen ha rifiutato ulteriori interviste, aumentando i dubbi sull’affidabilità del reportage[24].

Durante le sue ricerche, Schwartz ha contattato numerosi ospedali israeliani specializzati nel trattamento delle vittime di violenza sessuale, senza tuttavia trovare alcun caso legato agli eventi del 7 ottobre. Anche la linea telefonica dedicata alle aggressioni sessuali nel sud del Paese non ha registrato chiamate pertinenti[25]. La convinzione della presenza di stupri di massa si è rafforzata nelle dichiarazioni di Schwartz solo dopo aver ascoltato le interviste di Shari Mendes, un’architetta americana che prestava servizio nell’unità rabbinica delle IDF. Nonostante la sua costante presenza nella narrazione ufficiale, Mendes non possedeva alcuna qualifica medica o forense per determinare i casi di stupro, e molte delle sue affermazioni sono state successivamente smentite[26].

Un altro testimone citato dal New York Times è Yossi Landau, volontario dell’organizzazione ultraortodossa ZAKA, specializzata nel recupero dei resti delle vittime di disastri. Landau e ZAKA avevano già fornito dichiarazioni poi rivelatesi false, comprese quelle sui bambini decapitati e sulla donna incinta brutalmente mutilata[27]. Nonostante la manifesta inaffidabilità di tali testimonianze, numerosi media occidentali, tra cui CNN, BBC e The Guardian, hanno continuato a intervistare membri dell’organizzazione.

ZAKA, sin dalla sua fondazione, è stata al centro di numerose controversie. Il fondatore, Yehuda Meshi-Zahav, precedentemente attivo nel gruppo radicale Keshet, è stato accusato di decine di episodi di violenza e abusi sessuali. L’organizzazione è stata coinvolta anche in casi di corruzione finanziaria e intimidazione delle vittime del suo fondatore[28].

Dopo il 7 ottobre, l’esercito israeliano ha scelto di non impiegare i propri soldati addestrati nel recupero e identificazione dei resti umani, affidando invece questo compito ai volontari di ZAKA e ai membri del Rabbinato Militare. Secondo Yedioth Ahronoth, ZAKA è stata integrata nelle campagne di “pubbliche relazioni” (hasbara) del governo israeliano, e i suoi membri hanno fornito interviste coordinate dall’Ufficio stampa governativo[29].

Questa campagna mediatica aveva, tra i suoi principali obiettivi, quello di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la violentissima campagna di bombardamenti che Israele ha scatenato sulla Striscia di Gaza poche ore dopo l’attacco di Ḥamās, seguita dall’invasione di terra avviata venti giorni dopo. Le accuse di stupri di massa, condite da dettagli macabri e spesso privi di fondamento, hanno contribuito a creare una narrazione che legittimasse l’intensificazione delle operazioni militari, oscurando la devastante crisi umanitaria che nel frattempo si stava consumando a Gaza.

 

Le conseguenze e il contesto storico

Le conseguenze degli eventi del 7 ottobre 2023 e delle successive operazioni militari israeliane si inseriscono in un contesto storico complesso, segnato da decenni di occupazione, resistenza e cicli di violenza. La brutale risposta israeliana all’attacco ha avuto un impatto devastante sulla popolazione civile palestinese, aggravando una crisi umanitaria già esistente nella Striscia di Gaza, una delle aree più densamente popolate e impoverite del mondo.

Sin dalla sua fondazione nel 1948, lo Stato di Israele ha adottato politiche che hanno sistematicamente marginalizzato e oppresso il popolo palestinese. L’occupazione dei territori palestinesi iniziata nel 1967, con la guerra dei Sei Giorni, ha portato a una crescente colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, accompagnata da una serie di misure repressive, come demolizioni di case, arresti arbitrari e restrizioni alla libertà di movimento. Negli anni successivi agli Accordi di Oslo, invece di vedere la nascita di uno Stato palestinese sovrano, abbiamo assistito a un’escalation di violenze, all’aumento vertiginoso del numero di coloni e alla creazione di un sistema di apartheid che ha reso impossibile qualsiasi idea di coesistenza basata sull’uguaglianza. Oggi, con oltre 700.000 coloni israeliani insediati illegalmente in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e con la completa distruzione della Striscia di Gaza, non esiste più alcuna possibilità concreta di realizzare uno Stato palestinese indipendente, territorialmente contiguo e dotato di vera sovranità.

Il modello dei due Stati, di fatto, non è mai stato un vero progetto di pace, ma una strategia per perpetuare la dominazione israeliana e mantenere il popolo palestinese in una condizione di subalternità permanente. Anche nei momenti in cui sembrava essere stato rilanciato da nuovi negoziati, la realtà sul terreno raccontava una storia ben diversa: il rafforzamento del controllo israeliano, la frammentazione del territorio palestinese attraverso insediamenti, checkpoint e il Muro dell’Apartheid, e l’inasprimento della repressione contro ogni forma di resistenza. Di fronte a questa situazione, l’unica risposta possibile rimane la resistenza armata, vista come l’unico strumento efficace per contrastare l’occupazione e rivendicare i diritti del popolo palestinese.

Queste politiche hanno alimentato un clima di tensione e disperazione, rendendo inevitabile l’emergere di movimenti di resistenza come Ḥamās, che il 7 ottobre ha infranto il mito dell’invincibilità di Israele, riaccendendo nel popolo palestinese la speranza e la convinzione che la lotta per la liberazione sia ancora possibile.

L’operazione militare israeliana seguita agli eventi del 7 ottobre ha comportato una distruzione senza precedenti di infrastrutture civili a Gaza. Ospedali, scuole, edifici residenziali e persino strutture delle Nazioni Unite sono stati bersaglio dei bombardamenti. La devastazione non ha risparmiato nemmeno i luoghi di cura: gli ospedali sono stati distrutti e le forniture mediche esaurite. La CNN ha documentato scene di orrore, inclusi neonati palestinesi abbandonati in stato di decomposizione negli ospedali bombardati, con immagini che hanno scosso l’opinione pubblica internazionale. La carenza di risorse è così grave che il medico britannico-palestinese Abu Sittah ha dichiarato di aver dovuto amputare arti di bambini senza anestesia[30].

Secondo una ricerca pubblicata dalla prestigiosa rivista medica The Lancet, il numero reale delle vittime palestinesi è molto più alto di quanto dichiarato: non 45.000 morti, come riportato inizialmente, ma almeno 70.000, con un numero imprecisato di feriti e dispersi[31]. La popolazione sopravvissuta è intrappolata in un ciclo continuo di fame, sete e traumi, senza accesso a cure mediche adeguate. Migliaia di civili, tra cui donne e bambini, hanno perso la vita, mentre centinaia di migliaia sono stati sfollati, costretti a vivere in condizioni disumane. Le già limitate risorse idriche ed energetiche della Striscia sono state ulteriormente compromesse, lasciando la popolazione senza accesso a beni di prima necessità.

Il contesto internazionale ha contribuito a esacerbare la situazione. Nonostante le evidenze di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, gran parte della comunità internazionale ha continuato a offrire un sostegno incondizionato a Israele, giustificando le sue azioni come «diritto alla difesa». Tuttavia, organizzazioni per i diritti umani e numerosi esperti di diritto internazionale hanno denunciato l’uso sproporzionato della forza da parte delle forze armate israeliane, evidenziando la necessità di un’indagine indipendente sulle violazioni commesse.

Nonostante la distruzione e il tentativo israeliano di annientarlo, Ḥamās non solo è sopravvissuto, ma è riuscito a ricostruire le proprie forze. Il gruppo ha reclutato 15.000 nuovi combattenti, ristabilendo parte della propria infrastruttura militare e amministrativa e mantenendo un saldo controllo su Gaza. Mohammed Sinwar, figura chiave della leadership di Ḥamās, ha guidato il processo di riorganizzazione, consolidando il potere del movimento islamista in un contesto di persistente resistenza popolare. Questo rafforzamento ha dimostrato che la strategia israeliana di distruzione totale non ha prodotto il risultato sperato, anzi, ha alimentato ulteriormente il sostegno alla resistenza palestinese.

Nonostante l’uccisione di Yaḥyā Sinwar e Mohammed Dēif, rispettivamente leader politico e comandante militare di Ḥamās, il gruppo ha mantenuto una struttura operativa stabile e funzionante. Le Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām, il braccio armato del gruppo, si sono ripresentate in grande stile, come dimostrano i video che circolano dalla Striscia, dove centinaia di miliziani in uniforme sono stati accolti calorosamente dalla popolazione locale.

Un ruolo cruciale nella riorganizzazione del gruppo è stato giocato da Mohammed Sinwar, fratello minore di Yaḥyā Sinwar. Sotto la sua guida, Ḥamās ha intensificato l’attività di reclutamento, attirando migliaia di nuovi combattenti e ripristinando le proprie forze armate nella Striscia[32]. Secondo il Wall Street Journal,[33] Mohammed Sinwar si è imposto come una figura di spicco all’interno del movimento, coordinando la ricostruzione delle infrastrutture militari e il rafforzamento del controllo del gruppo sulla popolazione locale. Questo processo di rigenerazione militare e amministrativa ha dimostrato la capacità del gruppo di adattarsi rapidamente, nonostante le pesanti perdite inflitte da Israele.

Parallelamente, l’apparato civile di Ḥamās ha continuato a funzionare: i suoi amministratori hanno coordinato lo sgombero delle macerie, supervisionato i convogli di aiuti e ripristinato, seppur parzialmente, servizi di base come acqua e sicurezza. Secondo il portavoce del gruppo, Ismāʿīl al-Thawabta, circa 700 poliziotti sono stati impegnati nella protezione dei convogli umanitari, garantendo ordine in un territorio devastato.

Nel frattempo, in Cisgiordania, la situazione è degenerata con una violenta repressione da parte delle forze israeliane. L’assedio di Jenin, in particolare, ha rappresentato un altro capitolo drammatico di questa escalation. L’operazione “Muro di Ferro”, lanciata dalle IDF contro il campo profughi di Jenin, ha visto l’impiego massiccio di raid aerei, carri armati e incursioni di truppe di terra. Le forze israeliane hanno devastato il campo, distruggendo case, infrastrutture e ospedali, e causando decine di vittime civili.

Parallelamente, Israele si è trovato in una crisi politica e strategica sempre più profonda. Il governo Netanyahu, già sotto pressione per l’accusa di crimini di guerra e genocidio, è diventato sempre più isolato a livello internazionale e contestato anche all’interno del paese. L’idea, sostenuta dagli Stati Uniti, di riaffidare la gestione della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha incontrato resistenze sia tra i palestinesi che all’interno dello stesso establishment israeliano. Ḥamās, forte del sostegno popolare e della sua capacità di mantenere un’infrastruttura funzionante nonostante le distruzioni, ha continuato ad opporsi fermamente a qualsiasi ritorno dell’ANP, vista da molti palestinesi come un’entità collaborazionista.

Di fronte a questa realtà, la tregua è apparsa più come una pausa tattica che una vera prospettiva di pace. La resistenza palestinese, attraverso le sue varie componenti, ha dimostrato che la lotta per l’autodeterminazione non può essere cancellata con la forza bruta. Se Israele e i suoi alleati continueranno a ignorare le aspirazioni legittime del popolo palestinese, il conflitto rimarrà irrisolto e pronto a riesplodere. L’unica via per una pace duratura non passa attraverso il dominio militare, ma attraverso il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e la fine dell’occupazione.

L’operazione Ṭūfān al-Aqṣā (Diluvio di al-Aqṣā) ha segnato una svolta nella lotta di liberazione palestinese. Non solo ha dimostrato che l’esercito israeliano non è invincibile, ma ha anche ispirato una nuova generazione di palestinesi a credere che la resistenza possa ancora infliggere colpi all’occupante. Ḥamās ha dimostrato che, nonostante il blocco e l’assedio, la determinazione e l’ingegno possono portare a risultati inaspettati. Non solo ha dimostrato che l’esercito israeliano non è invincibile, ma ha anche ispirato una nuova generazione di palestinesi a credere che la resistenza possa ancora infliggere colpi all’occupante. Ḥamās ha dimostrato che, nonostante il blocco e l’assedio, la determinazione e l’ingegno possono portare a risultati inaspettati. La resistenza palestinese, attraverso le sue varie componenti, ha dimostrato che la lotta per l’autodeterminazione non può essere cancellata con la forza bruta. Se Israele e i suoi alleati continueranno a ignorare le aspirazioni legittime del popolo palestinese, il conflitto rimarrà irrisolto e pronto a riesplodere.

L’unica via per una pace duratura non passa attraverso il dominio militare, ma attraverso il riconoscimento pieno e incondizionato dei diritti del popolo palestinese e la fine dell’occupazione. Questo implica il ritorno dei rifugiati palestinesi alle loro terre, l’attuazione di una giusta redistribuzione delle risorse, il risarcimento per le terre confiscate e la ricostruzione delle abitazioni distrutte. Solo ponendo fine al sionismo come progetto politico e ideologico, che ha sostenuto l’espansione coloniale e l’oppressione del popolo palestinese, sarà possibile gettare le basi per una convivenza autentica, fondata sull’uguaglianza, la giustizia e il rispetto reciproco. Senza questi cambiamenti fondamentali, ogni tentativo di costruire la pace sarà destinato a fallire, lasciando la regione intrappolata in un ciclo perpetuo di violenza e repressione.


NOTE

[1] Eliana Riva, “La tregua resiste ma i palestinesi continuano a morire”, in «il manifesto», 8 febbraio 2025.

[2] Pur avendo Ḥamās il comando dell’operazione, tutte le fazioni della resistenza palestinese presenti nella Striscia di Gaza vi hanno preso parte. Tra queste figuravano il Jihād Islamico Palestinese e due formazioni laiche di orientamento marxista: il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP).

[3] Sara Leibovich-Dar, “The Hannibal Procedure”, in «Haaretz», 21 maggio 2003.

[4] Lior Kodner, “Ha-sqarim lo’ mitparsemim ’aval ha-kivun barur – rov ba-tzibur ’omer le-netanyahu “lekh””, in «Haaretz», 9 novembre 2023, https://www.haaretz.co.il/digital/podcast/weekly/2023-11-09/ty-article-podcast/0000018b-b3a5-d3c1-a39b-bfe55acb0000.

[5] Ibidem.

[6] Nir Hasson, “Be-kibutzei ha-‘otef menasim lehistakel qadima: “ha-matara mul ‘enayi – laḥtzor habayita””, in «Haaretz», 20 ottobre 2023.

[7] Dan Cohen, “Israeli volunteer: Apache helicopter fired into Kibbutz Be’eri”, in Uncaptured Media, 14 dicembre 2023.

[8] Esra Tekin, “Role of Israeli tanks in deaths of Israeli civilians back in spotlight”, Anadolu Agency, 6 dicembre 2023.

[9] Kim Legziel, “$83M to Restore One Kibbutz: Measuring the Scope of Devastation Caused by Hamas”, in «Haaretz», 24 dicembre 2023.

[10] Amitai Gazit, “Reconstruction of 1,700 destroyed homes in Gaza periphery to cost NIS 2 billion”, in «Calcalist Tech», 7 gennaio 2024; Anderson Cooper, “Video shows harrowing images from Nir Oz kibbutz after Hamas attack”, CNN, 21 ottobre 2023

[11] Jeremy Scahill, “Joe Biden Keeps Repeating His False Claim that He Saw Pictures of Beheaded Babies”, in «The Intercept», 14 dicembre 2023.

[12] Hamza Ali Shah, “‘Beheaded Babies’ – How UK Media Reported Israel’s Fake News as Fact”, in «Declassified UK», 4 gennaio 2024.

[13] Nir Hasson – Liza Rozovsky, “Hamas Committed Documented Atrocities. But a Few False Stories Feed the Deniers”, in «Haaretz», 4 dicembre 2023.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Cfr. “Mission report. Official visit of the Office of the SRSG-SVC to Israel and the occupied West Bank 29 January – 14 February 2024”, Office of the Special Representative of the Secretary-General on Sexual Violence in conflict, 4 marzo 2024, https://www.un.org/sexualviolenceinconflict/wp-content/uploads/2024/03/report/mission-report-official-visit-of-the-office-of-the-srsg-svc-to-israel-and-the-occupied-west-bank-29-january-14-february-2024/20240304-Israel-oWB-CRSV-report.pdf.

[17] “Press Conference: Pramila Patten, SRSG on Sexual Violence in Conflict & Chloe Marnay-Baszanger, Team Leader of the Team of Experts on the Rule of Law and Sexual Violence in Conflict on Ms. Patten recent visit to Israel and the occupied West Bank”, UN Web TV, minuti 00:51-00:54, https://webtv.un.org/en/asset/k1w/k1wee1dcdl.

[18] “Press Conference: Pramila Patten, SRSG on Sexual Violence…”, cit., minuti 01:03-01:04.

[19] Jeffrey Gettleman – Anat Schwartz – Adam Sella, “‘Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7”, in «The New York Times», 28 dicembre 2023.

[20] Meir Turgeman, “’ima shel “ha-’isha be-simla ha-shḥura”: “be-hatḥala lo’ iad‘anu ‘al ha-’ones. Ḥilelu ’et neshamta””, in «Yedioth Ahronoth», 31 dicembre 2024.

[21] Amnon Levy, “Gisa shel gal abdush z.l. ‘al ha-ḥashad she-ne’ensa be-7.10: “’af ’eḥad lo’ yodea‘ ’im ze qara””, Channel 13, 1° gennaio 2024; “Family of key case in New York Times October 7 sexual violence report renounces story, says reporters manipulated them”, in Mondoweiss, 3 gennaio 2024.

[22] Liza Rozovsky – Josh Breiner, “art. cit.”.

[23] James North, “Extraordinary charges of bias emerge against NYTimes reporter Anat Schwartz”, in Mondoweiss, 25 febbraio 2024.

[24] Jeremy Scahill – Ryan Grim-Daniel Boguslaw, “‘Between the Hammer and the Anvil.’ The Story Behind the New York Times October 7 Exposé”, in «The Intercept», 28 febbraio 2024.

[25] Ibidem.

[26] Max Blumenthal, “New Israeli report alleging ‘systematic and intentional rape’ by Hamas relies on debunked Western media reports”, in «The Grayzone», 22 febbraio 2024.

[27] Nir Hasson – Liza Rozovsky, “art. cit.”

[28]  Aaron Rabinowitz, “Zaka Founder Meshi-Zahav, Implicated in Decades of Sexual Abuse, Dies”, in «Haaretz», 29 giugno 2022; “ZAKA officials suspected of financial fraud, misdirecting funds – report”, in «The Times of Israel», 18 marzo 2021; “Police said to suspect ZAKA officials hushed reports of founder’s alleged crimes”, in «The Times of Israel», 16 marzo 2021.

[29] Nitzi Yakov, “’anshei zaqa’ she-hitgayesu le-tovat ha-hasbara ha-isra’elit: “’asur she-ha-‘olam yetayeaḥ””, in «Yedioth Ahronoth», 12 novembre 2023.

[30] Redazione La Stampa, “Bambini a Gaza amputati senza anestesia: il racconto del medico palestinese-britannico Abu Sittah,” in La Stampa, 24 settembre 2024.

[31] ANSA, “A Gaza morti sottostimate, sarebbero già più di 70.000,” in ANSA, 10 gennaio 2025.

[32] Nidal al-Mughrabi, “Hamas Has Added Up to 15,000 Fighters Since Start of War, US Figures Show,” in Reuters, 24 gennaio 2025.

[33] Jared Malsin, “Hamas Has Another Sinwar, and He’s Rebuilding,” in The Wall Street Journal, 26 gennaio 2025.


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