Nawaz Sharif, capo del partito d’opposizione pakistano, il Pakistan Muslim League (Nawaz), ha recentemente fatto visita al presidente turco Gül. Sembra che Sharif sia interessato ad emulare il primo ministro Erdogan per riconquistare il potere e tenere a freno l’apparato militare. Tenendo conto anche dell’emergere del partito di Imran Khan, così come dell’elevata frammentazione politica, è possibile un cambiamento governativo in Pakistan collegato alle rivolte arabe? Il ruolo degli Stati Uniti e degli attori regionali è fondamentale per comprendere i cambiamenti in corso in Asia Meridionale e Vicino Oriente.

 

Nello stesso momento in cui Nawaz Sharif, capo del maggior partito d’opposizione pakistano, il Pakistan Muslim League (Nawaz) (PML-N), si trovava ad Ankara per un incontro con il presidente turco Abdullah Gül, la capitale politica del Pakistan, Lahore, è stata teatro di una manifestazione di piazza del PML(N) contro il presidente Asif Ali Zardari e il Pakistan People Party (PPP). I giornali pakistani hanno parlato della visita di Sharif in Turchia come una sorta di viaggio d’istruzione affinché il PML(N) riesca ad emulare l’AKP turco e riconquisti il potere politico. Ufficialmente il partito di maggioranza è accusato di aver favorito l’imperante corruzione, la stagnazione economica e l’insicurezza del paese, ma è curioso il fatto che a conclusione dell’adunata di piazza il principale fautore della manifestazione, Shahbaz Sharif, governatore della provincia del Punjab nonché fratello di Nawaz, abbia sottolineato che il PPP nei prossimi mesi si troverà di fronte a una serie di “piazze Tahrir” in ogni grande città del Pakistan. Secondo gli analisti politici pakistani l’obiettivo del PML(N) è indirizzato alla creazione di un vasto sostegno popolare affinché Zardari rassegni le dimissioni nelle prossime settimane, in modo da tornare a elezioni generali il prossimo anno, prima della tornata elettorale per il Senato prevista per il mese di marzo 2012. Nawaz Sharif starebbe cercando l’appoggio dell’apparato militare e del generale Ashfaq Parvez Kayani, Capo di Stato Maggiore dell’esercito. In ogni caso la competizione politica è molto forte, così come il malcontento popolare verso il PPP e il PML(N). Infatti, le manifestazioni di quest’ultimo possono essere lette come una possibile risposta in termini elettorali al partito Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex campione di cricket Imran Khan. Figura apprezzata in Occidente, ma molto ciritico nei confronti dei bombardamenti statunitensi sulle FATA e dell’attuale strategia di Washington in Afghanistan, Khan ha chiesto la cacciata di Zardari mediante un’altra adunata di piazza a Lahore. Le due manifestazioni sono dunque collegate, mentre l’obiettivo del PML(N) è quello di evitare che il PTI assuma troppo potere nel tessuto urbano pakistano e soprattutto a Lahore. Il fatto è che Khan sembra maggiormente popolare rispetto a Sharif e Zardari; la sua ascesa politica è stata riconosciuta a livello internazionale e il primo paese che il capo del PTI ha visitato subito dopo la manifestazione è stata la Cina. I detrattori di Khan sostengono che il suo partito potrebbe avere successo solamente grazie al suo carisma poiché non esiste una solida struttura politica nel PTI.

E’ possibile un nuovo cambiamento di governo, naturalmente con tutte le peculiarità pakistane, collegato al sommovimento generato dalle rivolte arabe? Certamente bisognerà attendere le mosse future dei partiti, ma soprattutto del settore militare, dell’ISI e della Corte Suprema, i quali potrebbero spingere per nuove elezioni vista la difficile situazione del paese. In ogni caso è da mesi che si parla di possibili colpi di stato militari in funzione anti-statunitense, di complotti occidentali per facilitare l’esplodere di sommosse connesse alla “primavera araba” o manovre per l’instaurazione di un califfato guidato dall’organizzazione di stampo sunnita Hizb ut-Tahrir (Pakistan’s Chief of Army Fights to Keep His Job; Anti-American Coup in Pakistan?; Intelligence warning: Hizb ut-Tahrir planned ‘Arab spring’ in Pakistan). In questa fase sembra che il PML(N) abbia timore di un possibile colpo di stato militare anticostituzionale, vista la debolezza del governo e le continue pressioni provenienti dall’esterno.

 

Il modello turco per le rivolte arabe e il contesto geopolitico del Vicino-Oriente

 

I diversi attori regionali e globali, Turchia, Arabia Saudita, Iràn, Stati Uniti e Cina, cercheranno nei prossimi mesi di trarre vantaggio dalle conseguenze delle rivolte arabe, appoggiando, a seconda delle circostanze, determinati gruppi politici o religiosi. In ogni caso, le sommosse hanno diverse cause ed è improbabile che il malcontento sia stato solamente generato dall’esterno, data la complessità del fenomeno (vedi il libro di Daniele Scalea e Pietro Longo Capire le rivolte arabe).

La Turchia ha favorito indirettamente le rivolte arabe e, osservando il caso tunisino ed egiziano, può essere considerata un interessante modello per gli Stati che s’apprestano a ricostruire la propria amministrazione in seguito alle sommosse, così come un efficace esempio per quei paesi che si trovano in una difficile congiuntura economica e politica, vedi il caso pakistano. La Turchia odierna guidata dall’AKP appare un conglomerato efficace di secolarismo, religione, nazionalismo, globalismo, autonomia in politica estera e crescita economica, al quale i partiti islamisti dell’area potrebbero fare riferimento. Questa opzione sarebbe vista favorevolmente dagli stessi Stati Uniti: nonostante Ankara abbia optato per una maggiore autonomia in politica estera e aumentato la competizione regionale con Israele, Washington ha comunque mantenuto un proficuo rapporto con la Turchia, uno dei principali paesi della NATO. L’esempio turco, inoltre, nell’ottica occidentale, sarebbe favorito a discapito di quello saudita, ma soprattutto del modello iraniano.

Non a caso, infatti, anche l’Arabia Saudita e l’Iràn potrebbero trarre vantaggi dalle rivolte. I gruppi islamisti radicali in Tunisia, Egitto e Libia potrebbero optare per un miglior rapporto con l’Iràn, visti gli accenti anti-israeliani e gli interessi manifestati da Tehran per una maggiore collaborazione (Iran ready for defense cooperation with Egypt, Libya).

In ogni caso, malgrado Ankara abbia sostanzialmente un sistema statale opposto, mantiene nella regione vicino-orientale un rapporto strategico di primo livello con l’Arabia Saudita, asse collegato strettamente a Washington. Sebbene tra Riyad e Ankara esista una sostanziale competizione nell’area, i due paesi hanno in comune diversi obiettivi e le loro politiche possono apparire per certi aspetti complementari. Una strategia comune è, ad esempio, il contenimento dell’Iràn, nonostante la Turchia appaia maggiormente cauta. Malgrado Ankara e Tehran siano alleate su alcune questioni fondamentali per la propria sicurezza, ad esempio per quanto riguarda l’indipendentismo curdo, e negli ultimi anni il rapporto sia migliorato, i due paesi competono fortemente in numerosi ambiti di politica regionale. Senza dimenticare che nelle ultime settimane è aumentato il livore iraniano contro la Turchia per la questione siriana (Iran tells Turkey to change tack or face trouble). Ankara ha accelerato le pressioni nei confronti della Siria, in vista di un potenziale intervento contro Assad, colpendo indirettamente gli interessi di Tehran.

Nello stesso momento l’amministrazione Obama è indotta ad adottare una politica più aggressiva nei confronti di Tehran; azione operata non solo dalla lobby filo-israeliana nel paese e dal governo Netanyahu, preoccupati per gli esiti negativi delle rivolte arabe per la sicurezza regionale d’Israele, ma anche dal gruppo neocons, dai repubblicani, da alcuni settori liberal e parte del Pentagono. Inoltre, questi gruppi, unitamente a Israele e Arabia Saudita, sono molto critici nei confronti dell’amministrazione Obama per l’annunciato ritiro dall’Iràq, paventando un possibile aumento dell’influenza iraniana. A questo proposito l’Ayatollah Ali Khamenei ha definito il ritiro statunitense una “vittoria d’oro” per l’Iran (U.S. exit from Iraq “golden” victory: Iran).

Nonostante appaia altamente improbabile che Washington agisca militarmente nell’immediato, è da registrare una sorta di preparazione in vista di un possibile conflitto futuro. Come osserva un editorale del New York Times, in seguito al ritiro statunitense dall’Iràq, le truppe saranno spostate in altri territori del Golfo Persico, in Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Omàn per rispondere ad un eventuale collasso della sicurezza in Iràq o per una guerra contro l’Iràn (U.S. Planning Troop Buildup in Gulf After Exit From Iraq).

 

La situazione in Pakistan e il contesto geopolitico dell’Asia Meridionale

 

Islamabad si trova attualmente in una difficile congiuntura a livello economico e politico. Quotidianamente si registrano accuse contro accuse e riavvicinamenti tra Stati Uniti e Pakistan, collegati al dialogo aperto con i talebani e la rete Haqqani, nonché al contemporaneo bombardamento dei droni statunitensi sulle FATA. Il nocciolo della questione ruota essenzialmente attorno al futuro dell’Afghanistan con l’obiettivo dichiarato statunitense di mantenere una base militare permanente dopo il 2014 (L’Afpak tra dilemmi e incertezze). Il Pakistan ha una posizione ambigua, ma sembra contrario a una simile prospettiva senza il mantenimento della propria influenza sul paese. E’ evidente che un dialogo principalmente con Islamabad potrebbe sbloccare la situazione, anche perché i progetti statunitensi della “nuova via della seta”, includendo Uzbekistan, Tagikistan, Afghanistan e India, non possono fare a meno del Pakistan. Nella prospettiva statunitense, Islamabad deve cambiare la propria strategia in politica interna ed estera, entrando a far parte di un sistema economico globale fonte di sviluppo e prosperità per il paese.

Nelle ultime settimane si è parlato di un possibile avvicinamento tra Islamabad e Washington. Gli Stati Uniti potrebbero garantire al Pakistan l’influenza su Kabul, accordandosi sul mantenimento di una presenza militare statunitense e includendo nel discorso sull’Afghanistan la questione kashmira. Quest’ultima dovrebbe essere risolta a vantaggio dell’India, a patto che Nuova Delhi abbandoni la strategia volta all’aumentare il proprio ascendente su Kabul, con evidenti ripercussioni per i suoi progetti in Asia Centrale. Questa prospettiva, oltre a vedere gli Stati Uniti potenziali garanti della stabilità regionale, potrebbe includere la Cina, la quale favorirebbe il dialogo tra Pakistan e India (Afghanistan, Pakistan and Kashmir: A grand bargain?).

Questa opzione include però l’accettazione di una base statunitense in Afghanistan, prospettiva non gradita a Pechino e Mosca. Inoltre, non tiene conto del ruolo dell’Iràn.

Un fattore emblematico di quest’ultima considerazione è il fatto che Tehran sembra aver migliorato le proprie relazioni con il Pakistan, visto l’apprezzamento iraniano nei confronti di Islamabad per la considerevole diminuzione delle operazioni terroristiche del gruppo Jandullah che opera da anni nel Belucistan iraniano. Un simile avvicinamento, oltre a mettere in forse la politica di contenimento statunitense nei confronti dell’Iràn, è vista negativamente dall’Arabia Saudita.

Ecco perché l’opzione di un possibile cambio di governo pakistano non sembra impossibile. La storia del Pakistan ha registrato diverse cadute di governi o dittature militari, il più delle volte avvenuti mediante il concreto supporto esterno. Il paese è attualmente attraversato da diverse situazioni critiche interne. Le zone orientali sono strettamente connesse alla guerra in Afghanistan; il Belucistan e il Sindh sono caratterizzati da una grande instabilità; il Punjab ha registrato le ricordate manifestazioni antigovernative; se il cuore politico e militare del Pakistan sarà attraversato da un incremento della violenza la situazione interna sarà ancora più delicata. Senza dimenticare che il Pakistan sembra aver nuovamente perso l’unità e la concordia nazionale registratasi nelle giornate successive alle prime accuse statunitensi. Tutti i maggiori partiti hanno scelto la piazza per legittimare le proprie richieste: il PML(N) e il TPI hanno manifestato a Lahore; il Muttahida Quami Movement (MQM) è sceso in piazza a Karachi in difesa del governo e del PPP, il quale dovrebbe guidare un’altra manifestazione, prevista per il 13 novembre sempre a Karachi.

Gli Stati Uniti potrebbero favorire l’ascesa di un diverso governo a Islamabad in modo da garantire una transizione maggiormente collaborativa in Afghanistan e prevenire un massiccio intervento militare.

In questo quadro l’India potrebbe contribuire da oriente ai disegni statunitensi, ma non è chiaro se Nuova Delhi intenda seguire la strategia di Washington. Nonostante l’accordo commerciale con l’Afghanistan, letto dal Pakistan come una sorta d’accerchiamento, negli ultimi mesi l’India ha assunto un diverso approccio nei confronti di Islamabad e si è registrato un avvicinamento concreto tra India e Pakistan testimoniato da diverse circostanze. Il ministro degli esteri indiano S. M. Krishna ha pubblicamente affermato di non condividere un possibile attacco militare statunitense contro Islamabad, mentre la recente conquista di un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU come membro non permanente da parte del Pakistan è avvenuto mediante il decisivo appoggio indiano. Collaborazione testimoniata anche dal Pakistan, visto il possibile cambiamento della propria percezione dell’India, la quale potrebbe passare a un livello migliore nelle relazioni diplomatiche in base alla clausola della nazione più favorita. Il tutto è collegato ad alcune recenti descrizioni che possono danneggiare l’immagine internazionale di Nuova Delhi, come ad esempio la visione negativa dell’India pubblicizzata da alcuni enti turistici statunitensi, australiani e canadesi che sconsigliano viaggi nel paese. Inoltre, vengono accentuate a livello mediatico i possibili scontri con la Cina, altro potenziale garante della stabilità regionale. Lo stesso primo ministro Manmohan Singh ha criticato i media cinesi e indiani che presentano molto spesso l’India e la Cina in continua contrapposizione (Manmohan blames media in India, China). Il dibattito aperto in India a riguardo dell’eliminazione delle leggi d’emergenza in Kashmir è in realtà un elemento maggiormente propositivo per un dialogo diretto con Pechino e Islamabad. Il recente avvicinamento tra i due storici nemici potrebbe favorire la cooperazione regionale, senza dimenticare però che il Kashmir è un territorio che riguarda storicamente l’orgoglio nazionale di entrambi i paesi, i quali non accettano ingerenze esterne su questo problema.

Un altro fattore da non dimenticare, nel ricordato accordo commerciale indiano con l’Afghanistan, è la potenziale maggiore collaborazione anche con l’Iràn. Il ministro degli esteri pakistano Hina Rabbani Khar ha parlato a questo proposito della necessità di una maggiore cooperazione regionale per la stabilizzazione afghana. Un’ipotetica azione regionale comune tra Iràn, Pakistan, India e Cina non soddisfa però Washington. L’obiettivo prioritario è il contenimento dell’Iran, il quale è allo stesso tempo un importante partner commerciale di India e Cina. Contemporaneamente sono da registrare i tentativi di Mosca e Pechino di aumentare la propria influenza in Asia Centrale e Meridionale. L’obiettivo dell’allargamento della OCS a India e Pakistan, processo che la Russia intende accelerare, va in questa direzione, ma potrebbe scontrarsi con gli intenti di Stati Uniti, Unione Europea e NATO. La stessa politica di avvicinamento indo-pakistano potrebbe essere collegata, così come le pressioni esercitate da Occidente verso Nuova Delhi, ma soprattutto nei confronti di Islamabad, la quale osserva una tattica d’isolamento politico nei propri confronti. Washington ha come obiettivo la creazione di una “nuova via della seta” sotto la propria guida e un sistema di sicurezza regionale. Nello stesso momento, gli Stati Uniti tentano di indirizzare le diverse questioni scottanti dell’area (stabilizzazione dell’Afghanistan, linea Durand, rapporti afghano-pakistani, Kashmir, relazioni indo-pakistane, visione negativa dell’influenza indiana in Afghanistan) sotto il proprio “ombrello protettivo” al fine di favorire i propri interessi. In questo caso l’obiettivo è isolare l’Iràn e prevenire i disegni strategici russi e cinesi, nonché l’autonomia in politica estera dell’India. Appare però paradossale il fatto che Mosca e Pechino intendano allargare il discorso sulla OCS anche alla Turchia, attore regionale della NATO, la cui politica estera sembra indirizzata a soddisfare gli interessi degli Stati Uniti. In ogni caso i prossimi mesi saranno importanti per comprendere il nuovo corso “neo-ottomano” della Turchia e capire se effettivamente Ankara adotterà una politica estera maggiormente autonoma dalle volontà regionali di Washington.

La politica interna pakistana può essere dunque collegata a questo contesto geopolitico, favorendo l’ascesa di un governo islamista moderato legato alla Turchia e all’Arabia Saudita per evitare l’aumento dell’influenza sciita. Sia l’AKP turco sia il PML(N) pakistano hanno legami con l’oligarchia saudita. Un governo islamista di stampo sunnita ricalcante il modello turco potrebbe risultare maggiormente adatto per il dialogo che gli Stati Uniti stanno instaurando con talebani e rete Haqqani per la stabilizzazione dell’Afghanistan. Inoltre, eviterebbe un’azione militare contro il Pakistan, un’ipotesi dai costi e dalle conseguenze imprevedibili. Il modello turco sarebbe efficace per garantire, nonostante la forte componente religiosa, il sostegno delle forze secolari; così come potrebbe canalizzare il forte anti-americanismo degli ultimi mesi in un partito che, come l’omologo turco, lavora indirettamente anche per gli interessi strategici statunitensi. Bisognerà capire come agirà il settore militare e l’ISI. Infatti, l’ultimo governo di Nawaz Sharif venne abbattuto dal colpo di stato militare di Pervez Musharraf e il capo del PML(N) non ha dei buoni rapporti con il settore militare. Infine, a differenza di Erdogan, è un politico che ha già avuto due esperienze governative e nella fase attuale pakistana in cui esiste una forte avversione verso il mondo politico, riciclare una figura come Sharif appare una prospettiva dai risvolti poco concreti. Bisognerà comprendere anche il ruolo che verrà assunto da Imran Khan, visto che i quotidiani pakistani scrivono di una possibile alleanza tra PML(N) e PTI in vista delle elezioni.

L’area vicino-orientale e dell’Asia Meridionale appare dunque in una fase estremamente complessa e dalla lettura non semplice, in cui la competizione tra diversi attori regionali ed esterni è molto forte. Inoltre, è un periodo in cui gli Stati Uniti s’apprestano ad attraversare una lunga campagna elettorale in vista delle elezioni del prossimo anno. Le prossime settimane saranno pertanto indicative d’interessanti sviluppi.

*Francesco Brunello Zanitti, dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 


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