Non sono passati neanche due anni dacché, l’11 maggio 2010, si verificò l’incidente della Freedom Flotilla, ovvero l’attacco, in acque internazionali, da parte della marina militare israeliana contro la flottiglia di attivisti filo-palestinesi diretta a Gaza, con un carico di aiuti umanitari di vario genere. Com’è noto, l’intervento israeliano causò la morte di nove attivisti, tutti a bordo della nave turca Mavi Marmara, e sembrò aver compromesso definitivamente le relazioni tra Ankara e Tel Aviv.

Inoltre, con il venir meno della tradizionale “amicizia” tra Israele e Turchia pareva perfino che la mappa geopolitica del Medio e Vicino Oriente stesse per cambiare in senso tutt’altro che favorevole non solo per i sionisti, ma anche per i circoli atlantisti. Infatti, fallito il disegno americano di controllare direttamente l’Heartland, i buoni rapporti tra Turchia, Siria ed Iran potevano evolversi in modo tale da rendere assai più difficile per gli Usa accerchiare la Russia, contrastare efficacemente l’influenza cinese in Asia e al tempo stesso sostenere le monarchie petrolifere e la politica di potenza sionista.

Vi è poco da stupirsi allora che né gli Usa, né Israele né le monarchie petrolifere siano rimasti ad assistere passivamente al nuovo corso della politica turca, ma abbiano reagito tenendo conto di tutta la complessa, multiforme e, sotto certi aspetti, contraddittoria galassia musulmana, allo scopo di difendere le proprie posizioni e di non perdere l’iniziativa strategica in un’area ancora di vitale importanza per l’America e, in generale, per l’oligarchia occidentale. Naturalmente questo non significa che la cosiddetta “primavera araba” sia stata pianificata a tavolino dagli americani e dai loro alleati, ma è indubbio che la situazione creatasi in Africa Settentrionale sia stata sfruttata per distruggere la Giamahiria e destabilizzare la Siria, facendo leva proprio su quei movimenti islamisti, come la stessa “fratellanza musulmana” (che in realtà ha sempre avuto rapporti niente affatto chiari con i servizi occidentali), che fino a pochi anni fa, secondo il “circo mediatico” a stelle e strisce, si dovevano addirittura considerare i più temibili nemici della “civiltà occidentale”.

Del resto, la liquidazione in perfetto “stile hollywoodiano” di Bin Laden, aveva indotto non pochi analisti a interpretarla come una svolta radicale nella politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Islam, all’insegna del divide et impera, sbarazzandosi pure di “vecchi amici” che ormai avevano fatto il loro tempo ed erano diventati “oggettivamente” inutili, se non addirittura dannosi, per gli interessi occidentali. Una svolta che ha portato anche a “ricucire”, in qualche modo, le relazioni tra Ankara e Tel Aviv, sebbene la politica di Erdogan rimanga ancora in larga misura indecifrabile e sia quasi del tutto “coperta” l’azione diplomatica volta ad ancorare saldamente alla Nato la Turchia, “separandola” definitivamente dalla Siria e dall’Iran.

In questo contesto, anche la presa di posizione della Russia e della Cina a favore di Assad non pare decisiva, pur avendo per ora evitato che si ripetesse quanto già accaduto in Libia, dato che le pressioni per un “intervento umanitario” in Siria sono ancora fortissime. D’altronde, ove ciò avesse a verificarsi, la situazione potrebbe facilmente sfuggire di mano, non solo perché il regime siriano è assai più strutturato di quello libico, ma perché è una “partita” in cui si confrontano pressoché tutti i “soggetti geopolitici” che veramente contano. E che non vede nemmeno una “semplice” contrapposizione degli amici di Damasco ai nemici di Damasco, ché non è nemmeno un mistero che vi sia chi ritiene che Damasco sia solo una tappa sulla via che porta a Teheran.

Comunque sia, si deve soprattutto tener conto del ruolo estremamente importante svolto dalla Siria di Assad per quanto concerne il delicato assetto geopolitico della regione, dato che la repubblica siriana, se ha sempre appoggiato la causa palestinese ed anche Hamas (un’organizzazione che è nata dall’azione dei Fratelli musulmani nei campi profughi palestinesi e che anche per questo motivo ha voltato le spalle ad Assad), non ha mai avuto neanche particolari pregiudizi nei confronti degli sciiti, al punto da fungere da tramite tra Hezbollah e l’Iran. Non a caso la Siria è forse stato il Paese che con maggiore coerenza si è opposto alla prepotenza sionista, tanto che a giudizio di Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita libanese filo-iraniano Hezbollah, il fondamento del regime siriano è la lotta contro Israele, nonché il sostegno alla resistenza in Libano e in Iraq contro gli Stati Uniti

D’altra parte, si potrebbe osservare che neppure gli sciiti sono stati particolarmente lungimiranti sostenendo la rivolta contro Gheddafi, mentre gli aerei della Nato riducevano la Giamahiria ad un cumulo di macerie, aprendo così la strada per Tripoli ai “tagliagole bengasini”- alcuni dei quali adesso combattono contro le forze governative siriane, con lo stesso entusiasmo con cui hanno combattuto contro le forze governative libiche sventolando la bandiera americana accanto a quella che era la bandiera della Libia quando questo Paese era un protettorato angloamericano. Che è probabilmente, mutatis mutandis, quel che diventerebbe la Siria se Assad dovesse cadere, dato che il nuovo regime non potrebbe fare a meno dell’aiuto americano. Nondimeno, in questo caso, sia Hezbollah che l’Iran sono perfettamente consapevoli che l’Occidente sta cercando di stabilire un nuovo (dis)ordine nella regione, fondato sulla divisione etnica e religiosa.

Di questo tuttavia sono consapevoli non solo i dirigenti politici sciiti, ma pure quelli russi e cinesi; mentre per gran parte degli europei in Siria si starebbe combattendo un’altra guerra tra buoni e cattivi, tra pacifici manifestanti (anche se armati con missili anticarro Milan), che vogliono la libertà e la democrazia, e feroci militari fedeli al “tiranno” di Damasco. Di fatto, è palese che l’opera di (dis)informazione dei media mainstream non solo non aiuti a comprendere come il conflitto geopolitico possa articolare le relazioni internazionali e perfino la vita politica ed economica dei singoli Paesi, ma riesca a far sì che l’opinione pubblica non si domandi seriamente come e perché nel giro di poco meno di due anni si sia potuti giungere ad un mutamento così radicale della strategia atlantista.

Pertanto, se da un lato non si possono escludere altri “capovolgimenti di fronte”, fino a quando gli equilibri geopolitici mondiali continueranno ad essere così “fluidi”, dall’altro si deve riconoscere che la battaglia che si combatte sul fronte della (dis)informazione è essenziale anche per giustificare tali capovolgimenti. Vale a dire che probabilmente i gruppi dominanti (filo)occidentali non avrebbero rischiato di interpretare la parte dell’apprendista stregone giocando la “carta islamista”, se non fossero sicuri di poter in ogni caso contare sulla passività e acquiescenza dell’opinione pubblica internazionale (e in particolare di quella europea). Di questo sembra essersi reso conto lo stesso Assad affermando: «Sul terreno siamo noi i più forti […] C’è un attacco dei media contro di noi e loro possono essere più forti nella blogosfera, ma noi vogliamo vincere […] sul terreno e nella blogosfera» (evidentemente Assad ha usato il termine “blogosfera” come una sineddoche, ossia per denotare il mondo dell’informazione nel suo complesso).

Si tratta appunto di due piani che non sono separati, bensì “congiunti”. Ed è questa “congiunzione” che si deve prendere in esame per decifrare, senza la presunzione di capire tutto o di non poter errare, un “di-segno” geopolitico che non è affatto frutto di un complotto, ma che “risulta” dall’azione di diversi centri di potere (sovente anche in competizione tra di loro) capaci di combattere una guerra di movimento, tanto sul “terreno” quanto nella “blogosfera”. Una guerra scatenata dalla stessa macchina bellica occidentale di cui i media mainstream sono parte costitutiva e che ha generato lo tsunami finanziario che sta facendo vacillare il “modello sociale europeo”. Una guerra che ben difficilmente i popoli dell’Eurasia potranno vincere, finché la retorica della libertà e della democrazia impedirà di comprendere che la “geopolitica del caos” (sia politico che economico) è conseguenza necessaria della volontà di potenza dell’Occidente, cioè di una determinata “struttura di potere”, delle cui reali finalità, peraltro, solo raramente sono del tutto consapevoli gli stessi “soggetti geopolitici.”

* Fabio Falchi è redattore di Eurasia


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.