A partire dagli anni ’90 qualsiasi autore che prenda in esame le dinamiche socio-politiche degli egiziani cristiani, i copti, fa almeno un riferimento, alla “diaspora copta”, ricorrendo fondamentalmente agli stessi termini (1). Un’espressione che indica una dimensione della realtà copta sempre più imprescindibile per capirne le dinamiche. Un’espressione, inoltre, che si è progressivamente estesa e arricchita di informazioni e dati fino a divenire un soggetto autonomo di ricerca (2). Ciò è dovuto sia all’aumento dell’emigrazione egiziana, quindi dell’emigrazione copta, sia all’azione dei militanti copti all’estero, che rendono maggiormente visibile la presenza dei copti nei vari paesi ospitanti, conferendole una connotazione confessionale.
La ricostruzione storica del fenomeno migratorio egiziano dimostra come l’emigrazione dei copti segua le stesse dinamiche, a discapito di quanto venga delineato a proposito della “diaspora copta”. Gli autori la presentano come un fenomeno iniziato a partire dagli anni ’60 a seguito della rivoluzione degli Ufficiali Liberi e del governo di Nasser, che avrebbe avviato una progressiva e crescente esclusione dei copti dalla scena politica egiziana. Continuano parlando dell’aumento del fenomeno migratorio negli anni ’70 e ancor più negli ’80 e ’90, quando sarebbe stata l’islamizzazione della politica egiziana ad aggravare le difficili condizioni economiche. E ancora una spiegazione confessionale viene data alla scelta della destinazione: i paesi occidentali per i cristiani e paesi del Golfo per i musulmani. Infine, negli ultimi dieci anni si parla molto di “esodo” dei copti nell’ambito del più ampio “esodo” dei cristiani del Vicino Oriente (3), che si sarebbe rafforzato a seguito della rivoluzione del 25 gennaio del 2011.
Questa ricostruzione sommaria dell’emigrazione copta perde completamente il suo carattere confessionale se si prendono in considerazione le dinamiche migratorie degli egiziani in generale. Una pista da seguire per tracciare l’emigrazione copta all’interno di quella egiziana è la presenza, cronologicamente concomitante, della Chiesa Copta Ortodossa nei paesi di emigrazione egiziana. L’unica eccezione è rappresentata dall’Arabia Saudita, in cui l’assenza di chiese è dovuta alla proibizione di costruirne e non alla mancanza di copti tra gli immigrati egiziani.
Diverse fasi dell’emigrazione egiziana (1960-2012) e presenza della Chiesa Copta Ortodossa nei paesi di emigrazione.
Negli anni ’60 furono le riforme socialiste di Nasser a spingere molti egiziani della classe aristocratica, per lo più latifondisti, ad emigrare per aver perso i loro privilegi politici ed economici. Le principali destinazioni di questa prima ondata di emigrazione egiziana furono gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. L’Europa era ancora una meta secondaria, un passaggio verso queste destinazioni più lontane.
Passando alla seconda ondata migratoria, quella degli anni ’70, ’80 e ’90, l’intensificarsi dell’emigrazione copta è dovuta, di nuovo, alle politiche nazionali: è proprio in quegli anni che l’emigrazione egiziana si afferma in quanto fenomeno stabile a seguito di precise politiche del governo. Resosi conto dell’enorme potenziale economico che rappresentano gli egiziani emigrati per risolvere problemi di carattere demografico e attirare investimenti esterni, in concomitanza con l’aumento della richiesta di manodopera nei paesi del Golfo a seguito dell’aumento del prezzo del petrolio, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, il governo di Nasser e ancor più quello di Sadat cominció ad emanare una serie di leggi volte a facilitare e promuovere l’emigrazione, anteriormente soggetta a numerose restrizioni (4). Nel 1971 la Costituzione egiziana riconosce per la prima volta nelle storia dell’Egitto il diritto dei cittadini di emigrare; nel 1981 il decreto presidenziale n. 574 stabilisce il Ministero di Stato per gli Affari dell’Emigrazione, con lo scopo di prestare servizio agli egiziani che desiderano emigrare all’estero da un lato e sviluppare strategie per incrementare lo sviluppo economico dell’Egitto dall’altro. Inoltre, nel 1983 viene elaborata la prima legge completa sull’emigrazione che prevede, art.4, la creazione di un Comitato Supremo per l’Emigrazione sotto la direzione del ministro degli affari dell’emigrazione. La Costituzione del 1971 sancisce anche la differenza tra «emigrazione permanente» quella verso l’Occidente e «emigrazione temporanea» quella verso i paesi del Golfo. Realtà ben diversa da quella presentata, ad esempio, da Cannuyer che distingue tra l’emigrazione dei musulmani che «emigrano per tornare» e quella dei copti che se vanno per rimanere all’estero, adducendo al fattore religioso la spiegazione di tale dinamica.(5) Infine, l’ultima ondata migratoria egiziana è quella degli ultimi venti anni, in cui si dimostra una tendenza a scegliere l’Europa tra le mete privilegiate per una popolazione sempre più travagliata da problemi di ordine socio-economico in buona parte derivati dalla sempre maggior esclusione dell’Egitto dall’economia mondiale. Ragioni di prossimità geografica giocano a favore della scelta europea tanto tra gli egiziani istruiti che desiderano perfezionare la loro formazione o trovare un lavoro consono alla loro preparazione, che tra quelli meno agiati che puntano alla via illegale per emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Con la temporanea, ma significativa, chiusura all’emigrazione egiziana da parte degli Emirati Arabi Uniti (6) e il contesto di instabilità della Libia (7), la scelta europea potrebbe uteriormente canalizzare il nuovo flusso di migrazione da parte della popolazione egiziana preoccuapata per la mancanza di stabilità e sicurezza all’interno di un paese in piena rivoluzione. Questo elemento si è aggiunto al fattore principale che spinge gli egiziani a lasciare il proprio paese, ossia la mancanza di possibilità lavorative e realizzazione professionale corrispondente alla formazione effettuata; uno dei fattori chiavi delle rivoluzioni stesse. Il nuovo scenario di instabilità e mancanza di sicurezza non ha fatto che rafforzare tale sentimento di frustazione. Un sondaggio condotto dall’ International Organization of Migration (IOM), uno dei primi ad essere stati effettuati dopo il 25 gennaio 2011 per valutare in che maniera la rivoluzione affettasse l’emigrazione, dimostra che la mancanza di opportunità lavorative continua ad essere la causa principale che spinge i 750 egiziani interpellati ad emigrare, con un 60% di questi che vi affiancano la mancanza di sicurezza. I ragazzi egiziani con cui ho avuto modi di parlare confermano questo desiderio crescente di lasciare un paese che non offre loro le condizioni per realizzarsi professionalmente e umanamente.
L’emigrazione dei cristiani egiziani non è dovuta, pertanto, a fattori legati ad uno
«sradicamento particolarmente potente (al di là della ricerca di migliori condizioni di vita che sta alla base della maggioranza delle migrazioni)» (8), una delle condizioni necessarie, secondo Yves Lacoste, affinché si possa parlare di “diaspora”. Il geografo francese restringe ulteriormente il campo sostenendo che «la parte della popolazione dispersa tra diversi stati, deve essere maggiore rispetto a quella che resta nel paese (9)». Ora, stabilire il numero di copti emigrati risulta estremamente difficile per la mancanza di statistiche ufficiali e la discrepanza tra quelle a disposizione, come del resto per quanto riguarda le cifre relative ai copti presenti in Egitto. Tuttavia il numero dei copti emigrati non supera quello dei copti in Egitto.
Copti in Egitto
Copti emigrati
Censimento ufficiale governo egiziano: 3.340.000 (1996)
Ibn Khaldun Center (Cairo): 2 milioni
Chiesa Copta Ortodossa: 15/20.000.000
Samir Mustafa (direttore al-Ahram
Center – Canada): 70 mila in Canada
Governo statunitense/stampa internazionale: 8.000.000
Nader Guirguis
(finanziere copto nel Quebec): 6
milioni e mezzo tra Canada e Stati Uniti
Alla luce di quanto detto, resta da capire perchè si sia affermata tale espressione e a quali rappresentazioni geopolitiche sia legata. Gli attori chiamati in causa sono il governo egiziano da una parte, gli Stati Uniti e i paesi d’accoglienza dall’altra, con in mezzo i copti militanti emigrati, che fungono da anello di congiunzione. Questi sono una parte dei copti emigrati, in particolare gli aristocratici che emigrarono negli anni ’60 e ‘70 negli Stati Uniti, che si organizzarono in associazioni per la difesa dei loro correligionari in Egitto, riuscendo a raggiungere una certa notorietà e influenza all’interno del sistema lobbystico politico americano. Loro referenti politici sono i membri repubblicani del Congresso, nonchè associazioni sioniste e di estrema destra. Il loro principale obiettivo, non a caso, era ed è tutt’ora quello di far pressione sui governi dei paesi ospitanti affinchè intervengano nella politica interna dell’Egitto per porre fine alle discriminazioni di cui i loro connazionali sarebbero quotidianamente oggetto a causa di un governo complice degli islamisti. Il loro messaggio estremista ben si sposa con la politica statunitense della protezione delle minoranze religiose nel mondo: nei rapporti annuali della Commissione appositamente costituita, i copti ortodossi rivestono un ruolo centrale del dossier Egitto.
La politica di protezione delle minoranze religiose nel Levante non è fatto nuovo, ma risale alla alla metà del XVI secolo con il sistema delle Capitolazioni inaugurato da Francesco I di Francia e si intensifica nel XVIII e XIX secolo quando, con la caduta dell’impero ottomano, Inghilterra, Francia e Russia si spartirono la protezione delle varie comunità cristiane, la cui autonomia divenne uno strumento privilegiato per la loro influenza nella regione (10). La politica statunitense, applicando vere e proprie sanzioni a quei paesi che non rispettano le minoranze religiose, segue la stessa logica. L’Egitto è tra i primi a ricevere queste attenzioni, considerata l’importanza strategica che riveste nella regione per gli Stati Uniti: scelto simbolicamente come paese in cui tenere lo storico discorso del presidente Obama ai paesi arabo-musulmani, l’Egitto è divenuto, per la sua posizione geografica, per il suo peso demografico, politico e culturale, «un elemento fondamentale nella politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente per aver contribuito a stabilizzare la pace tra gli arabi e Israele, considerata come uno degli obiettivi più importanti nella regione, soprattutto dopo gli accordi di pace nel 1979 (11)». Tale accordo, primo tra i paesi arabi, gli è valso un aiuto economico annuo pari a un miliardo di dollari (12). Un aiuto economico in gran parte militare e che continua tutt’ora: per l’anno finanziario 2014, il Congresso ha destinato per l’Egitto 1,3 bilioni in finanziamenti militari e 250 milioni in Fondi di supporto economico (13).
In cambio l’Egitto si impegna a combattere il terrorismo e mantenere sicura la penisola del Sinai, ossia uno dei fronti dello Stato di Israele, nonché a fornire a quest’ultimo gas naturale. Non è un caso che l’Egitto sia stato inserito tra i paesi sotto controllo proprio dal 2011 quando gli accordi sul gas sono stati messi in discussione (14).
In tale contesto, l’espressione “diaspora copta” rafforza la rappresentazione di discriminazione e persecuzione, funzionale alla politica intervenzionista statunitense. Sebbene, infatti, il termine diaspora abbia conosciuto negli ultimi 40 anni una notevole liberalizzazione che lo ha portato ad essere ampiamente utilizzato nei più svariati casi, affrancandosi dal referente ebraico a cui era indissolubilmente legato (15), il termine non è del tutto neutrale. Si è già illustrato quale accezione assuma in geopolitica.
Ragion per cui, in Egitto vi è sempre stata un’unanime e categorica ostilità nei confronti degli attivisti copti emigrati, accusati da un lato di “accrescere il loro potere attraverso il supporto straniero” (16), dall’altro, di favorire così l’intrusione delle stesse potenze straniere negli affari interni dell’Egitto. Il termine diaspora viene rifiutato e ci si riferisce a loro come al-aqbāṭ al-mahğr, letteralmente “copti nelle terre d’emigrazione”. È lo stesso patriarca Shenuda III a specificarlo:
«L’espressione šattāt (diyasbūra) è un’espressione molto utilizzata tra le chiese che si trovano nel mahğr, ma noi non li chiamiamo assolutamente così, quanto copti nei paesi dell’emigrazione (aqbāṭ fī balād al-mahğr)… Diyasbura non è un termine appropriato perché non pacifico. […](17)»
Il patriarca copto ha due ragioni fondamentali per denunciare la militanza dei copti emigrati: innanzitutto, la loro azione è rivolta anche contro il ruolo politico del papa (18); secondariamente ribadisce il suo allineamento con il governo di Mubarak. Il loro messaggio estremista di persecuzione dei cristiani nuoce all’immagine positiva del governo egiziano nei confronti del’alleato statunitense e va contro l’ideologia dell’unità nazionale (wahda wataniyya) professata dal regime militare dal 1952 in accordo con le massime autorità religiose, il patriarca da un lato e lo sheykh di al-Azhar dall’altro. Entrambe condannano ufficialmente il rapporto annuale sulla libertà religiosa internazionale del Dipartimento di Stato statunitense ribadendo che i problemi interni all’Egitto, qualsiasi essi siano, vadano risolti all’interno dei confini nazionali, senza intromissioni esterne (19). Il Ministro degli Esteri egiziano fa loro eco affermando che Washington non ha il diritto di valutare la libertà religiosa nel paese (20). Nel 1998, ad esempio, il presidente Moubarak invita una delegazione del Consiglio delle Chiese di New York (21) dopo che questa si era posta il problema delle relazione tra cristiani e musulmani in Egitto per vedere se vi erano effettivamente le persecuzioni e discriminazioni dei cristiani di cui parlava l’American Coptic Union di Jersey City. Il breve viaggio, passato tra incontri con autorità religiose e politiche e classiche visite turistiche, diede come risultato che il governo egiziano non permette alcun atto di discriminazione contro i cristiani in Egitto e attua con «un genuino desiderio» col fine di creare una società «sicura e giusta» in cui «musulmani e cristiani possano vivere uno affianco all’altro in tranquillità», eliminando le discriminazioni laddove queste esistano. Un ruolo attivo, quindi, contro l’azione degli «estremisti fondamentalisti» che periodicamente compiono atti terroristi contro i cristiani (22).
Posizione speculare quella di giornalisti e intellettuali tanto musulmani che copti, contrari a qualsiasi forma di intrusione tanto diretta che indiretta. Per quanto riguarda i copti laici egiziani, sebbene condividano la maggioranza delle rivendicazioni dei copti emigrati (23), ne condannano i toni estremizzanti e non veritieri attraverso cui richiamano l’attenzione internazionale. Questi si trovano, pertanto, da una parte in linea con la posizione dell’autorità (l’ex-governo di Mubarak) e della Chiesa, nell’opporsi all’attività dei copti espatriati, dall’altra in linea con questi ultimi nelle rivendicazioni e soprattutto nell’opposizione alla politica del Patriarca. Essi inoltre, ritengono che l’attività dei militanti all’estero, pur essendo in difesa dei copti, abbia in realtà degli effetti negativi dal momento che i loro toni screditano gli stessi copti e attirano su di loro l’ostilità del resto della popolazione egiziana musulmana.
Per concludere, l’espressione “diaspora copta” è sintomatica delle rappresentazioni geopolitiche degli attori implicati: per i copti militanti emigrati è funzionale per rivendicare un contatto con l’Egitto, da cui sono ormai lontani da anni o che non hanno mai conosciuto nel caso delle seconde generazioni, con la rappresentazione implicita di essere stati cacciati. Per la politica intervenzionista statunitense giustifica la necessità di intervento nella politica interna egiziana per proteggere i cristiani. Il suo rifiuto da parte del governo egiziano e degli egiziani in generale, è emblematico dell’opposizione all’intrusione negli affari interni all’Egitto da parte degli Stati Uniti, da cui il paese dipende economicamente e politicamente.
Resta il fatto che l’espressione “diaspora copta” non è congrua con la realtà egiziana e utile solo a conferire maggiore visibilità a una componente minoritaria (i militanti) dell’emigrazione egiziana, che assume, in tal modo, connotazioni confessionali.
Alessandra Fani, dottoranda in geopolitica all’ Institut Français de Géopolitique (IFG) -Paris 8 e in Storia Contemporanea all’Università Rovira i Virgili (URV), Spagna. Ricercatrice presso la Cattedra UNESCO per il Dialogo interculturale nel Mediterraneo, Università Rovira i Virgili, Spagna.
NOTE
1) A mo’ di esempio : « Dans les années 60, une émigration de nature politique et religieuse voit le jour et s’accélère à partir des années 70-80 en raison des difficiles conditions de vie de la communauté et de la montée de l’intégrisme » […] « Il existe aujourd’hui une petite diaspora installée essentiellement aux États-Unis, au Canada et en Australie, et dans une moindre mesure en Europe ». Cfr. Albert L., Les Coptes. La foi du désert, Editions de Vecchi, Paris, 1998, p. 126. « La situation difficile des coptes- cercan social, discrimination, peur de la monte de l’islamisme, difficultés économiques, nourrit une émigration massive : en trente ans, plus de 2 million d’entre eux auraient quitté le pays pour gonfler une importante diaspora. » Cfr., Pommier S., Égypte, l’envers du décor, La Découverte, Parigi, p. 135.
2) Ziad Abdelnour., Le rôle politique de la diaspora copte d’Amérique du Nord, Scienze Politiche IEP, Paris, 1993; Ibrahim Fouad., The Egyptian Coptic Diaspora in Germany: A Study in Local Cultural Vitality, « Bayreuth African Studies Series », no. 75, (2005), pp. 301-316 ; Grégoire Delhaye, Les racines du dynamisme de la diaspora copte, « EchoGéo », on line, URL : http://echogeo.revues.org/6963 ; DOI : 10.4000/echogeo.6963; Zaki Y. N., Coptic Political Activism in the diaspora, the U.S., and the Egyptian Polity, The George Washington University: Imes CapstonePaper Series, 2010. Oltre alle ricerche e pubblicazioni sul tema, in cui la parola diaspora copta non appare nel titolo ma all’interno dell’opera, quali ad esempio Magued Shaimaa, Les migrations coptes aux Etats-Unis. Du militantisme transnational à l’internationalisation de la question copte, Éditions Universitaires Européennes, Sarrebruck, 2010 ; Ayad C., La communauté copte à Paris. Compte-rendu d’enquête, Institut d’Etudes Politique, Parigi, 1989; Albrieux Laure., La communauté copte en France, tesi diretta da M.me Picaudou, sostenuta all’Université Pantheon-Sorbonne nel 2007.
3) Per dare un’ idea dei toni con cui si parla dei cristiani in Medio Oriente nella stampa : Le long calvaire des chrétiens d’Orient, Le Point – 07/05/2009; Le douloureux exode des chrétiens d’Orient, Libération – 26/03/2011 ; Les chrétiens vont-ils disparaître du Moyen-Orient?, Le Monde – 04/11/2010.
4) Dessouki delinea tre fasi della política egiziana a propósito dell’emigrazione: la prima, dagli anni ’50 al 1967, in cui vigeva il divieto di emigrare; la seconda a fine anni ’60 in cui non vi era alcuna restrizione e la terza, negli anni ’70 e ’80, ovvero sotto Sadat, in cui l’emigrazione veniva ampiamente promossa, attraverso veri e proprio incentivi finanziari. Cfr. Gil Feiler, Economic Relations between Egypt and the Gulf Oil States, 1967-2000, Sussex Academic Press, Brighton, 2003, pp. 105-106.
5) Cfr. Christian Cannuyer, Chrétiens du Proche-Orient en diaspora, Solidarité-Oriente, Bulletin 241, Bruxelles, Gennaio-Febbraio-Marzo, 2007, p.10.
6) Decisione dovuta alla decisione di processare l’ex-presidente Moubarak, considerati i rapporti collaborativi tra questi e il re degli Emirati Arabi Uniti. Tale veto è stato revocato a seguito della visita del Primo Ministro Issam Sharaf. Cfr. Dina Abdelfattah, Impact of Arab Revolt on Migration, CARIM-AS 2011/68, p. 10.
7) Grandi flussi di egiziani e tunisini hanno lasciato la Libia in maniera massiva a seguito della degenerazione armata e dell’instabilità dello scenario libico. Cfr. Philippe Fargues, Fandrich, Christine Fandrick, Migration after the Arab Spring, Migration Policy Center – European University Institute, Firenze, 2012, p. 9.
8) Yves Lacoste, Géopolitique des diasporas, « Hérodote », Nª 53, (1989), pp. 5-6.
9) Ibid.
10) George Corm, Géopolitique des minorités au Proche-Orient, “Hommes & Migrations”, n 1172-1173, (Gen-Fev 1994), pp. 7-17.
11) Les relations égypto-américains, State Information Service.
http://www.sis.gov.eg/Fr/Templates/Articles/tmpArticles.aspx?CatID=165#.VA2OjGNKVvQ
12) Ibid.
13) Les relations égypto-américains, State Information Service.
http://www.sis.gov.eg/Fr/Templates/Articles/tmpArticles.aspx?CatID=165#.VA2OjGNKVvQ
14) Cfr., EgyptIndependent, 13/04/2011
15)Cfr., Stephane Dufoix, La dispersion. Une histoire des usages du mot diaspora, Ed. Amsterdam, Paris, 2011.
16) Mary Abdelmasih, Egyptian Government Attempts to Silence Coptic Diaspora, “Assyrian International News Agency”, 2-17-2010. URL: http://www.aina.org/news/20100217122155.htm
17) La domanda che gli era stata posta dall’autore del libro era: “Che ne pensi del fatto che gruppi di copti nella terra d’emigrazione affermano che i copti d’Egitto siano in uno stato di diaspora utilizzando continuamente questa espressione nelle loro pubblicazioni come per il caso degli armeni?”. Cfr. Rashid Al-Bannā, al- aqbāṭ fī maṣr wa-l-mahğr (I copti in Egitto e nelle terre d’emigrazione), Dar al-Muharif, Il Cairo, 2001, p. 65-66
18) I copti emigrati negli anni ’60/’70 appartengono all’elite laica copta al potere sotto la monarchia filo-britannica, spodestata dall’elite ecclesiastica con la rivoluzione del ’52 e di cui Shenuda III ne è il massimo rappresentante.
19) Cfr. al-Masry al-Youm, 26/11/2010.
20) Ibid.
21) Il consiglio, fondato nel 1815, rappresenta oltre 200 chiese di diverse confessioni e organizzazioni della città di New York. Nella delegazione che si recò 5 giorni in Egitto nel marzo del 1998, vi era: Mrs. Patricia R. Butts, prima dama della Chiesa Battista; Mardiros Chevian, prete della Chiesa Ortodossa Armena, il Reverendo Charlesworth Edwards della Chiesa Unita Morava, il Reverendo luterano Michele P. Ellison; Mr. Morris Gurley, Capo della Chiesa Unita Metodista di San Paul e San Andrew, il reverendo Carolyn Holloway della Chiesa Riformata DeWitt Reformed; Michael S. Kendall, Arcidiacono della Diocesi Episcopale di New York; il Reverendo N. J. L’Heureux, Direttore esecutivo della Queens Federation of Churches, e segretario del Concilio. Cfr. The Council of Churches of the City of New York, Report on the Persecution of Christians by the Council of Churches of the City of New York after its Visit to Egypt, Religious News Service from the Arab World, Marzo 1998.
22) Continua il reportage: “We commend the President of Egypt and his government for all steps taken to build a more equitable society. There is good evidence that this is already happening. The change in church building permit laws, the swift response given when there are acts of violence in the provinces and the provision of security in areas where terrorists are likely to operate are all good actions. Cfr. The Council of Churches of the City of New York, Report on the Persecution of Christians by the Council of Churches of the City of New York after its Visit to Egypt, cit.
23) Eliminazione del “Khatta Humayuni”, soppressione dell’articolo 2 della Costituzione, ruolo politico del papa, affermazione della piena cittadinanza per i copti e per gli egiziani in generale senza discriminazione di razza, etnia o religione.
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