(Pubblicato su “Eurasia”, a. XI, n. 2 – Aprile-Giugno 2014)
Fin dall’epoca della guerra del Peloponneso, le sanzioni rientrano nella categoria di quelle armi economiche alle quali viene assegnato l’obiettivo di indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi le applica. Nella fattispecie delle sanzioni “chirurgiche” contro la Russia, decretate dagli Stati Uniti e adottate sia pur con una certa renitenza dall’Unione Europea, la strategia è dichiaratamente geopolitica. La talassocrazia statunitense persegue infatti lo scopo di estendere, attraverso un’Ucraina risucchiata nell’orbita occidentale, il raggio dell’influenza atlantica, rinsaldando così quella che Zbigniew Brzezinski ha definita “la testa di ponte democratica dell’America” nel continente eurasiatico.
Megara e l’Italia
Nel 1991, gli Atti di un colloquio di storici e politologi europei ed americani avente per tema “la rivalità egemonica fra Atene e Sparta e fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica” furono pubblicati sotto il titolo From Thucydides to the Nuclear Age. Tucidide, lo storico di quella “guerra mondiale dell’antichità” che fu la guerra del Peloponneso, è un autore particolarmente apprezzato in certi ambienti politico-intellettuali atlantisti, che hanno cercato di farne il testimone del bipolarismo e del confronto fra due blocchi militari.
La filologia classica, a partire da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff[1], ha rimproverato a Tucidide il fatto che, volendo attribuire a Sparta le cause del conflitto, ha lasciato in ombra il blocco commerciale imposto a Megara dalla talassocrazia ateniese. Eppure la guerra del Peloponneso ebbe inizio col decreto contro i Megaresi del 432 a. C. (il Megaréon pséphisma), una serie di sanzioni economiche che interdicevano ai Megaresi, alleati di Sparta, l’accesso ai porti, agli scali ed ai mercati della Lega di Delo, l’alleanza egemonizzata da Atene.
Per gli storici è evidente che le sanzioni contro Megara non erano semplicemente un mezzo con cui Atene intendeva estendere la propria influenza indebolendo i rivali. Helmut Berve, per esempio, ha affermato che con l’embargo, che coinvolgeva anche gli alleati di Megara, Atene “puntava il coltello alla gola dei Peloponnesii”[2] . Infatti lo pséphisma era una sfida, una provocazione che doveva procurare agli Ateniesi il casus belli necessario per giustificare la guerra contro Sparta e i suoi alleati. Tuttavia, come è noto, trent’anni più tardi il conflitto si risolse con la sconfitta di Atene e l’abbattimento del suo regime democratico.
Un altro episodio esemplare nella storia delle sanzioni: il 18 novembre 1935, per la prima volta, la Società delle Nazioni decretò le sanzioni economiche contro un paese membro, l’Italia, come risposta alla campagna d’Etiopia. La Gran Bretagna, capofila mondiale dell’anticolonialismo, inviò la Home Fleet a pattugliare il Mediterraneo per far rispettare l’embargo.
Qualche anno dopo, Carl Schmitt commentava: “Le potenze societarie non facevano la guerra, ma imponevano delle sanzioni. La famosa arte inglese dei ‘metodi indiretti’ celebrò un nuovo trionfo. La tipica distinzione fra operazioni militari e operazioni non militari, azioni belliche e azioni pacifiche, perse ogni significato, perché le operazioni non militari potevano essere ostili in un modo più efficace, immediato ed intenso”[3].
D’altronde era stato lo stesso fondatore della Società delle Nazioni, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, a teorizzare: “Una nazione boicottata finisce per cedere. Applicando questo rimedio economico-pacifico, silenzioso ma mortale, si evita di fare ricorso alla forza”[4].
Quanto all’Inghilterra, evidentemente essa aveva ben imparato la lezione sintetizzata nel celebre assioma di Sir Walter Raleigh: “Chi domina il mare domina il commercio mondiale; e a chi domina il commercio mondiale appartengono tutti i tesori del mondo e il mondo stesso”.
A quanto pare, le potenze talassocratiche privilegiano le sanzioni come forma speciale di guerra e le utilizzano nel quadro di una concezione della guerra e del nemico che è molto diversa da quella che sta alla base dello jus publicum Europaeum, poiché ignora la distinzione tra combattenti e non combattenti.
“La guerra marittima – ha scritto altrove Carl Schmitt – non è una guerra di combattenti; essa si basa su una concezione totale del nemico, la quale considera nemici non solo tutti i cittadini dello Stato nemico, ma anche tutti coloro che commerciano col nemico e ne sostengono l’economia. In questo genere di guerra è permesso, senza contestazione possibile, che la proprietà privata nel nemico sia sottoposta al diritto di preda; il blocco, mezzo che appartiene specificamente al diritto marittimo riconosciuto dal diritto internazionale, colpirà senza eccezione l’insieme della popolazione delle regioni coinvolte. Grazie ad un altro mezzo parimenti riconosciuto dal diritto internazionale e parimenti appartenente al diritto marittimo, il diritto di saccheggio, anche la proprietà privata dei neutrali potrà essere presa”[5].
Nel 1946, per esempio, gli Stati Uniti pretesero che la Confederazione Elvetica consegnasse i beni dei cittadini tedeschi depositati nelle banche svizzere, pretesa contraria all’ordine giuridico privato internazionale[6], ma conforme al diritto di preda specifico del diritto marittimo.
Le sanzioni secondo la dottrina delle relazioni internazionali
Secondo la dottrina delle relazioni internazionali, le sanzioni economiche sono disposizioni adottate da uno Stato, o da una coalizione di Stati, o da un’organizzazione internazionale, allo scopo di costringere un altro Stato a rispettare le regole della coesistenza internazionale, senza fare ricorso alle armi.
Nel testo di Martin I. Glassner sulle relazioni internazionali si può leggere che “sanzioni specifiche, imposte in circostanze particolari e fatte rispettare efficacemente, possono modificare il comportamento dello Stato a cui sono rivolte, rafforzando nel contempo il prestigio della parte che le impone. Esistono comunque poche prove che le sanzioni da sole possano spaventare Stati che non siano molto piccoli e deboli”[7].
Le sanzioni economiche più comuni sono le seguenti:
1) l’embargo
2) il boicottaggio
3) il congelamento dei beni e dei capitali che lo Stato sottoposto a sanzioni o i suoi cittadini possiedono all’estero
4) il divieto di concedere crediti
5) il divieto di transazione finanziaria
6) il divieto di fare scalo per le imbarcazioni e gli aerei dello Stato sottoposto a sanzioni.
7) la revoca dell’assistenza finanziaria e tecnica.
L’embargo, in particolare, è il divieto, rivolto ad un’imbarcazione mercantile, di levare l’ancora dal porto in cui si trova o di accostarsi ad un porto. In un’accezione più ampia, l’embargo è il blocco degli scambi commerciali decretato da un paese o da più paesi contro un paese terzo.
Il boicottaggio, come pure il blocco, è un insieme di misure che mirano a bloccare il commercio estero e le comunicazioni di un paese nemico. In particolare, il boicottaggio consiste nel divieto di acquistare i beni provenienti dal paese che è sottoposto a sanzioni.
Embargo e boicottaggio sono considerati dall’ONU sanzioni pacifiche applicabili nei confronti degli Stati che violano il diritto internazionale o non rispettano i diritti umani.
In realtà, come affermano i colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro libro sulla “guerra senza limiti”, “l’imposizione di embarghi sulle esportazioni di tecnologie fondamentali (…) può avere un effetto distruttivo pari a quello di un’operazione militare. Al riguardo, l’embargo totale (…) contro l’Iraq, iniziato dagli Stati Uniti, è l’esempio classico da libro di testo”[8].
La “guerra economica” e i suoi obiettivi
Un altro militare, il generale Carlo Jean, già diciott’anni fa preannunciava l’intensificarsi di un uso delle armi economiche – quali l’embargo e le altre sanzioni – finalizzato a conseguire gli stessi obiettivi perseguiti dalla guerra tradizionale. Infatti la “guerra economica” è pur sempre una guerra, poiché il suo obiettivo strategico consiste nello sconfiggere il nemico per assoggettarlo alla volontà del vincitore, così come nella guerra propriamente detta. D’altronde il generale Jean osserva che in questo contesto i mezzi d’ordine economico non vengono impiegati per la produzione o per il commercio, bensì, come se fossero vere e proprie armi, per ottenere risultati analoghi a quelli perseguiti tramite la forza militare, vale a dire “per distruggere la volontà di resistenza dell’avversario (ad esempio, privandolo delle proprie capacità militari, provocando gravi danni alla sua base produttiva, carestie, epidemie, rivolte, cambio di classe dirigente o di governo, colpi di Stato, secessioni, e così via)”[9].
Il medesimo autore definisce l’”arma economica” come il mezzo che gli Stati o le coalizioni di Stati “possono lecitamente impiegare per il controllo dell’economia nazionale o internazionale, qualora tale impiego sia teso a conseguire obiettivi analoghi a quelli conseguibili con l’impiego della forza militare e, in particolare, la vittoria su uno Stato o una coalizione nemica”[10]. Parimenti egli osserva che “questo principio tutela nell’ordinamento internazionale le potenze economicamente dominanti, favorendo il mantenimento dello statu quo”[11], sicché gli è possibile concludere affermando: “Ovvio dunque che esso sia stato sostenuto e imposto dall’Occidente, che nell’attuale fase storica gode di una schiacciante supremazia economica sul resto del mondo”[12].
È stato anche detto che il concetto di “guerra economica” è ambiguo e multiforme, in quanto si tratta di una guerra che può perseguire obiettivi differenti: economici, strategici o politici[13].
La guerra economica ha obiettivi economici, quando lo scopo principale dello Stato che la intraprende non consiste nel danneggiamento dell’avversario, ma nell’aumento del benessere dei propri cittadini o nella crescita della propria ricchezza.
La guerra economica si propone invece degli scopi strategici allorché, in un conflitto militare, essa mira a privare il nemico dei rifornimenti necessari alle Forze Armate ed alla popolazione mediante blocchi navali, aerei o terrestri. Ma si persegue uno scopo strategico anche quando, in assenza di un conflitto militare diretto, vogliono interdire a uno Stato avversario tecnologie e prodotti considerati “critici”.
Infine, la guerra economica si pone degli obiettivi politici quando l’arma economica viene usata per indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi la usa, sicché essa si manifesta esattamente come è definita dalle note formule clausewitziane: “continuazione della politica dello Stato con altri mezzi”, “atto di violenza finalizzato a costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”, “atto ispirato da un disegno politico”.
Nel caso della Repubblica Islamica dell’Iran, lo scopo della guerra economica è sicuramente strategico, poiché l’obiettivo dichiarato delle sanzioni è quello di bloccare l’acquisizione di uranio e di tecnologie utili al programma nucleare.
Ma, per quanto concerne le sanzioni unilaterali imposte dagli Stati Uniti d’America, lo scopo è anche e soprattutto politico, anzi, geopolitico, considerata la necessità della talassocrazia statunitense di controllare lo spykmaniano Rimland, del quale l’Iran costituisce un segmento centrale.
Infatti, se Sir Halford Mackinder aveva formulato la dottrina secondo cui chi controlla lo Heartland governa il mondo, Nicholas J. Spykman ha enunciato la tesi complementare, con una formula che non sarà mai ripetuta abbastanza: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world”.
NOTE
[1] Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Curae Thucydideae, 1885, p. 17.
[2] Helmut Berve, Griechische Geschichte, II 1952, p. 11.
[3] Carl Schmitt, Inter pacem et bellum nihil medium, “Zeitschrift der Akademie für Deutsches Recht”, VI, 1939, pp. 594-595.
[4] Citato da Gallois, Le sang du pétrole – Irak, L’Age d’Homme, Lausanne 1966, p. 31.
[5] Carl Schmitt, Souveraineté de l’Etat et liberté des mers, in Du Politique, Pardès, 1990, pp. 150-151; cfr. Idem, Terra e mare, Adelphi, Milano p. 90.
[6] “Neue Zürcher Zeitung”, 14 Sept. 1996.
[7] M. I. Glassner, Manuale di geografia politica II. Geografia delle relazioni tra gli Stati, Franco Angeli, Milano 1995, p. 36.
[8] Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG, Pordenone 2001, p. 81.
[9] Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Bari 1995, p. 140.
[10] Carlo Jean, Geopolitica, cit., p. 141.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Claude Lachaux, La guerre économique: un concept ambigu, “Problèmes Economiques”, 14 oct. 1992, pp. 28-31.
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