È noto che per un sistema sociale complesso come quello liberal-capitalista attuale è essenziale tener sotto controllo tutti quegli eventi che potrebbero determinare una crisi di tipo strutturale. Vale a dire che le alternative in base alle quali si articola il conflitto politico devono essere compatibili con il “normale” funzionamento del sistema medesimo[1]. Praticamente, le alternative non selezionate dal sistema non devono essere conosciute o esplicitamente tematizzate dalla stragrande maggioranza dei cittadini. La scelta deve avvenire tra alternative che il sistema ha già selezionato, ossia tali da non danneggiare gli interessi politici ed economici dei gruppi dominanti. Pertanto, l’ordine istituzionale si fonda non tanto sul consenso effettivamente esistente quanto piuttosto sulla sopravvalutazione del consenso effettivo e soprattutto sul fatto che tale sopravvalutazione riesca ad avere successo. In altri termini, il meccanismo mediante il quale si “pro-duce” il consenso in una moderna “democrazia” liberale è una finzione istituzionale, non la ricerca di un effettivo consenso, ma una formula rituale di giustificazione ideologica della politica, benché essenziale per il funzionamento del sistema sociale.

In sostanza, questo significa che la tecnologia sociale e la manipolazione del consenso devono far sì che non vengano mai messi seriamente in discussione quei procedimenti che permettono di prendere decisioni collettivamente vincolanti, “assorbendo” incertezza ed eliminando alternative pericolose per il sistema. Attraverso tali meccanismi si può allora avere la ragionevole certezza che prevalga ciò che il sistema seleziona, accrescendone la capacità di autoregolazione e sottraendo l’esperienza al rischio di una problematizzazione consapevole. Tuttavia, è palese che il sistema liberal-capitalistico non si sviluppa automaticamente, sia perché genera delle “aspettative” (crescenti) che deve necessariamente soddisfare – alimentando di conseguenza un conflitto che non può essere sempre risolto grazie ai meccanismi che regolano il sistema –sia perché la stessa formazione sociale liberal-capitalistica egemone (che di fatto è il “gendarme” che deve garantire il “normale” funzionamento del sistema liberal-capitalistico) deve “competere” con altre formazioni sociali. Il sistema sociale liberal-capitalistico si configura dunque come un sistema relativamente aperto sia sotto il profilo endogeno che sotto il profilo esogeno, ovverosia deve far fronte a due tipi di sfide, quelle che provengono dall’interno e quelle che provengono dall’esterno.

Logico allora che gli strateghi del polo atlantico dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica abbiano agito su due piani contemporaneamente per consolidare l’egemonia degli Stati Uniti: sul piano economico e finanziario promuovendo la gigantesca espansione del capitalismo finanziario (in particolare con l’abolizione della legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act, durante l’amministrazione Clinton) che avrebbe portato alla crisi finanziaria del 2007-08; sul piano geopolitico intervenendo militarmente in Afghanistan e in Iraq, e ristrutturando la Nato al fine di saldare all’Atlantico il continente europeo e soprattutto la Germania ora nuovamente unita. Nondimeno, già negli anni Ottanta del secolo scorso era chiaro, nonostante che fossero evidenti i segni della crisi irreversibile del sistema sovietico, che la base produttiva degli Stati Uniti non era in grado di “sostenere” un progetto di egemonia globale[2]. Del resto, lo storico francese Fernand Braudel vedeva nella prevalenza del capitalismo finanziario sull’economia “reale” il tipico “segnale dell’autunno” per il potere dello Stato capitalistico egemone[3]. Infatti, allorquando la crescita della produzione e dello scambio di merci, che contraddistingue un ciclo di accumulazione del capitale, si imbatte nei propri limiti, si è in presenza non solo di una crisi economica ma anche di una crisi della potenza capitalistica egemone, a cui i gruppi dominanti cercano di rimediare con una forte espansione del capitale finanziario. Ma la prevalenza del capitalismo finanziario è soltanto un rimedio temporaneo che non può evitare il “terremoto geopolitico” che si origina dal declino relativo della potenza egemone. Un declino accentuato dal “contraccolpo” derivante dall’avere scatenato gli “spiriti animali” del capitalismo a livello mondiale e che ha visto nel giro di qualche lustro la Cina diventare la prima potenza industriale, favorita proprio da quella globalizzazione che doveva invece “suggellare” il dominio del sistema liberal-capitalistico imperniato sull’egemonia degli Stati Uniti.

Non sorprende allora che il cosiddetto “unipolarismo statunitense” sia durato solo qualche lustro e che gli Usa da un lato, abbiano dovuto concedere sempre più spazio a pericolosi e “irresponsabili” (per usare un eufemismo) attori geopolitici “subdominanti” come le petromonarchie del Golfo, al fine di ridisegnare la cartina geopolitica del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale in funzione degli interessi del polo atlantico; dall’altro, abbiano cercato di rafforzare la loro posizione in Europa per contrastare la rinascita della potenza russa sotto Putin, favorendo un’espansione della Nato ai confini occidentali della Russia e innescando così una crisi internazionale che se non ci fossero le armi nucleari probabilmente sarebbe già sfociata in un’altra guerra mondiale. Com’era prevedibile questa “strategia del caos” ha creato le condizioni perché il terrorismo islamista si diffondesse a “macchia d’olio” non solo in Medio Oriente e in Africa ma anche nel Vecchio Continente, e al tempo stesso si generasse un’immigrazione massiva e incontrollata (che alcuni analisti considerano come una sorta di arma di distruzione di massa) verso l’Europa, stretta nella morsa di una crisi sociale ed economica che l’introduzione dell’euro e le politiche liberiste adottate dall’oligarchia euroatlantista hanno solo contribuito a rendere sempre più grave. In definitiva, la crisi dell’attuale sistema liberal-capitalistico e in particolare dell’Unione Europea si configura ormai come una vera e propria crisi di sistema, dato che gli effetti “perversi” della crisi dell’egemonia statunitense si sommano a quelli di una crisi non solo economica ma politico-sociale del sistema liberal-capitalistico che non solo non riesce più a soddisfare “aspettative” che esso stesso (inevitabilmente) genera, ma nemmeno è più in grado di eliminare o di “rimuovere” alternative che non sono “in linea” con gli interessi dell’oligarchia euroatlantista.

Il cosiddetto “populismo”, che sta mettendo radici ovunque in Occidente, è perciò la reazione comprensibile all’incapacità del sistema liberal-capitalistico di “autoregolarsi”. La vittoria di Ochi in Grecia (benché poi, in un certo senso, “tradita” dalle classe politica greca), la politica del governo ungherese, la Brexit, la crescita di movimenti populisti in diversi Paesi europei, lo stesso successo di Trump e last but not least la vittoria del No in Italia (che ha bocciato un riforma “pasticciata” della costituzione che prevedeva perfino che i parlamentari non fossero più i rappresentanti della Nazione e di fatto cedeva ulteriore sovranità nazionale agli eurocrati) sono tutti segnali che un nuovo “vento politico” sta facendo traballare le istituzioni politiche occidentali. Si badi però che il paragone, caro a molti analisti neoliberali, con gli anni Trenta, è del tutto privo di fondamento. Difatti, il nazionalismo aggressivo negli anni Trenta aveva di mira la ridefinizione degli equilibri mondiali attraverso un “regolamento bellico dei conti”, ritenuto peraltro inevitabile sia dalle potenze revisioniste (le cosiddette “have nots”) che dalla stessa Unione Sovietica. Viceversa, l’esigenza di difendere la sovranità nazionale (sia pure riconoscendo la necessità di incastonare i singoli Stati in “grandi spazi” geopolitici e geoeconomici) non è altro che l’esigenza di rimediare ai “guasti” e ai disastri causati dalle politiche liberiste e aggressive del polo atlantico e in specie dell’oligarchia euroatlantista, allo scopo di difendere i diritti sociali ed economici dei popoli europei (e non solo europei) contro lo “strapotere” e l’arroganza dei “mercati”.

È in questa prospettiva geopolitica quindi che è necessario interpretare la carenza di cultura politica e perfino le “contraddizioni” (alcune delle quali certamente preoccupanti) che caratterizzano i diversi movimenti politici che i media mainstream definiscono sprezzantemente populisti. D’altronde, è lecito ritenere che il populismo, benché in quanto tale non sia di per sé un’alternativa “credibile” al sistema liberal-capitalista, sia il necessario “brodo culturale” perché una tale alternativa possa davvero prendere forma, sebbene si possa essere sicuri che le élites occidentali vi si opporrebbero con ogni mezzo. Invero, nella presente fase storica, anziché sognare utopie anticapitalistiche, si dovrebbe considerare già un grande successo riuscire a favorire la cooperazione tra i popoli e mettere di nuovo il mercato “al servizio” del Politico, ovvero della giustizia sociale e dei bisogni “reali” degli individui. Comunque sia, non sarà la demonizzazione del populismo che potrà risolvere la crisi del sistema liberal-capitalistico, anche se non si può affatto escludere che quest’ultimo, pur di difendere gli interessi di un’oligarchia plutocratica e di una middle class (sedicente) cosmopolita, continui a generare conflitti e squilibri d’ogni sorta.

Note

[1] Fondamentale sotto questo aspetto è l’opera di Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979.

[2] A tale proposito si veda Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989.

[3] Ha approfondito questo tema (benché in un’ottica decisamente economicistica) Giovanni Arrighi nel saggio Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 2014.


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.