Si riporta di seguito, in anteprima, l’introduzione a La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010) di Daniele Scalea, che tra pochi giorni sarà disponibile al pubblico (vedi i punti vendita).
Il libro consta di 188 pagine (formato 14×20,6cm), con alcune cartografie all’interno, il prezzo di copertina è 15€.
Introduzione
Passata l’ubriacatura ottimistica del post-Guerra Fredda, quando si arrivò a teorizzare la “fine della storia” ed una realtà non più dialettica ma hegelianamente “speculativa” (auto-referenziale, specchiata in se stessa ma incapace di concepire “l’altro da sé”), nell’ultimo decennio gli esperti ed il grande pubblico hanno riscoperto la dimensione conflittuale del presente. Ne è risultata la formulazione d’una serie di schemi dialettici che vorrebbero descrivere l’attuale scenario internazionale.
Dopo l’11 settembre 2001 ha avuto grande fortuna la dicotomia comunità/terrorismo internazionali, con la sua appendice rappresentata dallo scontro tra Stati “buoni”, che animano la “comunità internazionale”, e Stati “canaglia” che sostengono il “terrorismo”. Il problema è che l’espressione “comunità internazionale”, ancora molto (troppo) in voga, ha perduto oggi qualsiasi significato, posto che mai l’abbia avuto. La stampa di casa nostra è solita chiamare “comunità internazionale” i 28 paesi del Patto Atlantico, anche quando magari tutti gli altri 150 (e passa) paesi del mondo la vedono diversamente: e così il tale capo di Stato, si dice, “è isolato” se i delegati di 5 o 6 paesi lasciano la sala quando parla all’Assemblea Generale dell’ONU, scordandosi che sono rimasti ad ascoltarlo in 185 e che, magari, l’hanno pure applaudito al termine del discorso. Allo stesso modo anche il concetto di “terrorismo internazionale” è sviante: è possibile mettere nello stesso calderone al-Qaeda, i gruppi armati salafiti, movimenti popolari come Hamas e Hezbollah, le guerriglie comuniste, i vari indipendentismi del mondo?
Ovviamente no. Persino la categoria ristretta di “terrorismo islamico” è imperfetta, perché come affermato da un numero sempre crescente d’esperti – compreso il capo della Polizia italiana – quello di al-Qaeda è fondamentalmente un “brand”, un logo cui si ricorre senza licenza per acquisire visibilità.
Dal 2003 è stata proposta una nuova suddivisione del mondo, neppure tanto originale (riecheggiando la propaganda della Guerra Fredda): le “democrazie” contro le “dittature”. Se questa chiave interpretativa ha il pregio di non considerare più monolitica la “comunità internazionale”, abbonda però di altri difetti. Il principale e più grave è, molto semplicemente, quello d’essere falsa: molte democrazie sono alleate con dittature e rivali di altre democrazie. Nel Vicino Oriente, ad esempio, gli USA democratici sostengono numerose dittature contro la Repubblica Islamica d’Iràn che, al di là di tutte le possibili considerazioni e critiche sulla scarsa libertà dei costumi, è a sua volta una democrazia. Il concetto stesso di “democrazia” è opinabile: da noi si tende a considerare tali solo le democrazie liberali e parlamentariste modellate su quelle occidentali, che sono però diverse dalle democrazie antiche o dalle democrazie “popolari” socialiste – che nei paesi capitalisti sono considerate dittature, ma in quelli comunisti sono viste come la vera democrazia opposta alle dittature “borghesi”.
La scuola politologica élitista all’inizio del Novecento contestò radicalmente il concetto stesso di “democrazia”, affermando che ogni regime politico d’ogni tempo è sempre oligarchico nel profondo. La questione, insomma, è istituzionale più che ideologica. Ma anche le democrazie parlamentariste e liberali con istituzioni e meccanismi di tipo
“occidentale” non sono tutte alleate tra loro e talvolta capita persino che si scontrino.
Particolarmente celebre è la tesi dello “scontro di civiltà” avanzata da Samuel Huntington. Il politologo statunitense ha ricordato allo “smemorato” Occidente quanto grande e diversificata sia la varietà di culture e Weltanschauungen, “visioni del mondo”.
Il mito del One World, dell’unica civiltà indistinta indifferenziata e globale, è stato abbattuto o quanto meno rimandato a data da destinarsi, ad un futuro ipotetico che – a seconda dei punti di vista – può apparirci come un sogno o come un incubo. Ma davvero la differenza tra civiltà implica necessariamente uno scontro? È, ad esempio, ineluttabile lo scontro in atto tra la civiltà euro-occidentale (ossia il mondo “americanizzato”) e quella musulmana? Oppure esso è stato cercato volutamente, da una o da entrambe le parti, per puro interesse pratico, senza che ve ne fosse l’effettiva necessità “ontologica”? Inoltre, appare riduttivo se non contraddittorio caratterizzare con lo “scontro di civiltà” un’epoca che sta vedendo l’integrazione tra i paesi europei da secoli rivali, o la riappacificazione tra nemici storici o recenti come Russia e Turchia, Russia e Cina, Cina e India, Cina e Giappone, Brasile e vicini ispanofoni.
L’iterazione tra civiltà si concretizza talvolta in scontro, talaltra in dialogo. E questo senza dimenticare la fondamentale critica di Edward Said, il quale ricordava come porre dei paletti troppo rigidi tra le civiltà fosse fuorviante, in quanto le società e culture attuali sono il prodotto di millenni d’interazione, contatti e influenze reciproche.
Forse il limite di queste interpretazioni è quello di fossilizzarsi esclusivamente sui fattori ideologici o culturali. Dagli anni ‘90 del secolo scorso si è rinnovato l’interesse per la geopolitica in molte parti del mondo. È il caso pure dell’Italia, in cui sono nate alcune riviste specializzate, tra cui “Eurasia” di cui chi scrive è redattore. Un numero crescente di appassionati – addetti ai lavori o semplici curiosi – si è avvicinato a questa disciplina. La riscoperta della geopolitica è coincisa con una riscoperta del fattore geografico nelle dinamiche internazionali.
Adottare un singolo punto di vista permette di osservare solo una faccia dell’oggetto in esame, e spesso ciò è insufficiente per comprenderlo appieno. Adottare molteplici punti di vista – geografico, culturale, ideologico, ma anche economico, strategico ecc. – consente di svelare le reali fattezze di ciò che si sta osservando.
Anche se mancano nuove teorie paradigmatiche in grado d’interpretare la somma delle dinamiche internazionali, l’osservazione e valutazione congiunta di ciascuna di esse ha permesso di produrre interessanti analisi e previsioni. Esse sono meno semplici ed attraenti degli schemi dialettici sopra descritti, ma almeno non sono (a differenza di quelli) totalmente infondate.
Pur senza arrivare a concepire un paradigma, una teoria astratta ed onnicomprensiva, si possono comunque sommare queste analisi parziali per forgiare un’interpretazione generale della dinamica internazionale odierna – o, se vogliamo dirla con altre parole forse non ineccepibili dal punto di vista terminologico: del panorama geopolitico attuale.
Recentemente ha avuto ampio successo un esperimento del genere: l’opera The Second World di Parag Khanna. Tuttavia, la sua tesi dei “tre imperi” e la disamina dei vari paesi del “secondo mondo” mi ha lasciato dubbioso. Inoltre in Khanna il fattore geopolitico è messo totalmente in ombra da quello economico, o persino da “note di colore” sui vari paesi esaminati.
L’insoddisfazione per le interpretazioni abitualmente propinate al grande ed al “piccolo” pubblico mi ha spinto a scriverne una mia. Questo libro non ha l’ambizione di rivelare fatti nuovi, ma solo di tessere quelli già noti nella trama di una nuova interpretazione. Non si tratta di un’opera d’approfondimento con tutti i crismi della metodologia scientifica, ma d’un commento dal vago sapore divulgativo, che ha anteposto la leggibilità al rigore delle dimostrazioni: con ciò ho cercato comunque di non venir meno alla debita argomentazione delle tesi presentate, che spero non appariranno peregrine ma sufficientemente fondate al lettore.Cannobio, 10 marzo 2010
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