“Permettere alla Turchia di penetrare nella Siria settentrionale è una delle misure più destabilizzanti che possiamo intraprendere”, ha affermato un parlamentare democratico dell’Arizona, Ruben Gallego.
Forse, anzi molto probabilmente, la finalità cinicamente assegnata ad Ankara da Washington è proprio quella di tenere viva la destabilizzazione dell’area, dando fuoco a polveri esplosive: scatenando perciò un nuovo conflitto fra Turchia e Siria che finisca fatalmente per coinvolgere Iran, Russia e magari altri attori regionali.
Strumento consolidato del progetto è la fazione terrorista curda dell’YPG (operante in Siria), che – in base a inoppugnabile e molteplice documentazione probatoria – è intimamente e funzionalmente connesso al PKK, movimento terrorista e narcotrafficante operante in territorio turco; ed inoltre è sostenuto, operativamente e militarmente, oltre che politicamente, dagli Stati Uniti d’America.
Favorito anche dalla rozza retorica prevalente in Occidente – quella che, comunque vadano le cose, racconta la fiaba del Turco cattivo e del Curdo buono, del Turco retrogrado e del Curdo “progredito” – il terrorismo curdo (da non confondere con i Curdi in generale, spesso loro stessi vittime dei gruppi armati) ha svolto e svolge anche in Siria la sua funzione distruttiva.
Si tratta insomma, nel caso dell’YPG, di un’altra “polpetta avvelenata” – dopo quella di Daesh, non del tutto scomparsa perché ancora presente sotto altri e diversi nomi dell’estremismo wahabita – depositata nella martoriata area siriana, nelle vicinanze immediate della Turchia e dell’Iraq e non lontano nemmeno dall’Iran.
Il supposto e ambiguo “via libera” all’attacco turco dato da Trump o da chi per lui, accompagnato dalla – fino a questo momento – falsa notizia del disimpegno statunitense dalla Siria ha come scopo verosimile quello di incrinare i rapporti fra Turchia, Russia e Iran, favorendo appunto la destabilizzazione – politica oltre che militare – dell’area.
Per sfuggire alla trappola occorre tenere ben presente che l’accordo trilaterale fra Mosca, Ankara e Tehran va difeso e incoraggiato: è questo accordo, e non la follia bellicista dell’Amministrazione USA, che ha riportato un po’ di stabilità e di sicurezza in Siria.
Le esigenze indifferibili sono al momento due: garantire la sovranità piena e assoluta dello Stato siriano sul suo territorio e garantire la sicurezza degli altri Stati dell’area rispetto alle ripetute azioni terroristiche ai propri confini e dentro i propri confini; l’accordo di Adana del 1998 fra Siria e Turchia – che le due parti hanno recentemente confermato di voler rispettare – è in questo senso una buona base per la soluzione dei problemi. L’intesa riconosceva la piena sovranità dei due Stati all’interno dei rispettivi territori e la vigilanza antiterroristica di entrambi nel comune interesse.
Ci sembra che il monito lanciato dal portavoce del Presidente russo Putin, Dmitri Peskov, a proposito dell’intervento turco, riassuma bene in questo momento le aspettative in tal senso: “È importante astenersi da qualsiasi azione che possa creare ostacoli sul percorso di stabilità siriano. Sappiamo che alcune prospettive si stanno aprendo e comprendiamo che sarà un percorso lungo e spinoso. E ora che è stato istituito il Comitato costituzionale siriano, è essenziale astenersi da qualsiasi passo che possa danneggiarne la stabilità”.
È evidente pertanto che chirurgiche operazioni compiute dall’esercito di Ankara in territorio siriano non dovranno essere finalizzate a stabili conquiste territoriali ma – analogamente a quanto già successo in Iraq – dovranno qualificarsi strumentalmente soltanto come efficaci misure di protezione e di salvaguardia del proprio territorio. Se così sarà, il quadro generale pazientemente costruito da Mosca, Tehran e Ankara reggerà alla prova dei fatti e saprà fronteggiare la sfida insidiosa cui si trova di fronte.
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