Durante un incontro del Joint Expeditionary Force (iniziativa interna alla NATO guidata dal Regno Unito che unisce Stati scandinavi e baltici) il Presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyi, dopo aver insistito su un maggiore sostegno da parte dell’Europa (le sue dichiarazioni si mostrano sempre in linea perfetta con i desideri di Washington), ha ammesso candidamente che il suo Paese non potrà entrare nell’Alleanza Atlantica[1].
Queste affermazioni, ed il contesto nel quale sono state rilasciate, possono essere interpretate in diversi modi. In primo luogo, lascia piuttosto perplessi il fatto che i vertici politici ucraini si siano resi conto, a tre settimane dall’inizio del conflitto, che il loro ingresso nella NATO è fuori discussione. In secondo luogo, non si comprende esattamente cosa il Presidente ucraino intende quando chiede all’Europa di fare di più. L’Unione Europea, infatti, ha già garantito una fornitura di armamenti all’Ucraina per l’ammontare di 450 milioni di euro. Gli Stati Uniti hanno garantito 350 milioni di dollari che sono andati ad aggiungersi ai 650 milioni forniti nel 2021 insieme a 90 tonnellate di materiale bellico. Stati Uniti e NATO, nello specifico, hanno fornito all’Ucraina 17.000 missili anticarro Javelin (prodotti dalla Lockheed Martin Corp) e 2000 Stinger (prodotti dalla Raytheon). Proprio il Direttore Esecutivo di Raytheon Gregory J. Hayes, il 25 gennaio di quest’anno, aveva dichiarato: “Dobbiamo solo guardare alle ultime settimane: l’attacco di droni negli Emirati Arabi Uniti, le tensioni in Europa Orientale e nel Mare Cinese Meridionale. Tutte queste cose stanno mettendo pressioni sulla spesa militare in queste regioni. Dunque, mi aspetto di vedere per noi enormi benefici”[2].
Di fatto, al momento, l’unico reale vincitore del conflitto sembra essere l’industria bellica occidentale. Questa ha già guadagnato oltre un trilione di dollari con la guerra. Cosa che fa riflettere, e pone nuovi quesiti, su un altro aspetto ricollegabile alla dichiarazione di Zelensk’yi: si è fatto qualcosa per evitare questo conflitto? La risposta è no. Perché non si è fatto nulla? La risposta, in questo caso, non può prescindere dal dato geopolitico.
Il giornalista italiano Manlio Dinucci ha dato le sue dimissioni dal “quotidiano comunista” Il Manifesto dopo che questo ha rapidamente eliminato dal sito informatico un suo articolo nel quale svelava il piano della Rand Corporation (organizzazione presunta no profit finanziata dal Pentagono) per piegare la Russia. L’organizzazione, tra le altre cose, si vanta di aver elaborato la strategia che ha piegato l’URSS alla fine del Novecento. Questa, secondo l’analista Peter Schweizer, si sarebbe fondata su cinque passaggi fondamentali: a) attirare Mosca nella corsa agli armamenti sostenendo spese enormi per le cosiddette “guerre stellari”; b) mantenere bassi i prezzi del petrolio; c) favorire il blocco occidentale degli investimenti verso l’URSS; d) sostenere la lotta di Solidarnosc in Polonia; e) sostenere la ribellione in Afghanistan[3].
Il nuovo piano della Rand Corp, pubblicato nel 2019, ricalca (con le dovute differenze) quello degli anni ’80 del secolo scorso. Esso prevede un attacco alla Russia sul suo lato più vulnerabile, quello dell’esportazione di idrocarburi, per fare in modo che l’Europa diminuisca la sua importazione di gas russo in favore del GNL nordamericano. Sul piano interno, prevede il continuo foraggiamento delle proteste antigovernative sfruttando un’ampia quinta colonna. Mentre, sul piano militare, prevede l’ulteriore accrescimento del ruolo della NATO in Europa. Gli Stati Uniti, infatti, grazie a questa strategia, possono avere alte probabilità di successo con rischi minimi. Inoltre, “fornire aiuti letali all’Ucraina sfrutterebbe il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia, ma qualsiasi aumento delle armi e della fornitura militare fornite dagli USA all’Ucraina dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, otterrebbe vantaggi significativi”[4].
Quali sarebbero questi “vantaggi significativi”? Il noto stratega Zbigniew Brzezinski, nella sua opera più famosa, The Grand Chessboard, temeva che la Russia potesse tornare in possesso della fascia costiera del Mar Nero. Ciò, secondo il teorico dell’“arco di crisi” e della balcanizzazione dell’Asia centrale, avrebbe consentito alla Russia di ritrovare il modo per essere ed esistere come “Stato imperiale” esteso sull’Europa e sull’Asia[5].
Ora, dando un rapido sguardo alla carta geografica dell’Ucraina alla luce dell’Operazione Speciale delle forze militari russe, appare evidente che l’obiettivo è proprio quello di ottenere il controllo sulla fascia costiera che da Odessa arriva fino a Mariupol (non sorprende che i combattimenti siano stati più pesanti proprio in questa regione), mentre all’accerchiamento di Kiev è riservato il mero ruolo di pressione in ambito negoziale. Ad oggi, inoltre, l’esercito ucraino (difficilmente inquadrabile come struttura unitaria) non sembra avere alcuna possibilità di controffensiva a prescindere dal continuo flusso di aiuti militari da Occidente. Inutile dire che ciò comporterebbe un danno di non poco rilievo alla strategia della NATO, che pensava di utilizzare l’Ucraina come ponte per raggiungere la regione transcaucasica[6]. E questo lascia alcuni dubbi sul fatto che gli Stati Uniti volessero realmente spingere la crisi fino a determinare quel “conflitto” dal quale la Russia avrebbe ottenuto i suddetti “vantaggi significativi”.
Dunque, se è vero che nel breve periodo la crisi geopolitica sta giovando alla strategia nordamericana di indebolimento della ripresa economica europea postpandemica in modo da convogliare i flussi di capitale negli Stati Uniti, è altrettanto vero che, nel lungo periodo, gli effetti dell’operazione militare russa potrebbero essere assai più complessi di quanto si immagina attualmente.
In ottica occidentale, infatti, rimane la speranza che il prolungamento ad oltranza del conflitto ed il pesante regime sanzionatorio imposto a Mosca possano portare ad una intensificazione delle divisioni interne, ad un “cambio di regime” e ad un governo russo più disponibile al dialogo con Washington e, di conseguenza, alla costruzione di un eventuale fronte comune contro la minaccia reale all’egemonia globale nordamericana: la Cina. Tuttavia, sembra anche che l’attuale conflitto stia imponendo una poderosa accelerazione ad alcune dinamiche storiche che si erano già manifestate negli anni precedenti, ulteriormente evidenziate dalla crisi pandemica, e non tutte in conformità con i desideri degli Stati Uniti.
Infatti, in “Occidente”, gli ultimi anni sono stati contraddistinti da una continua riduzione dello spazio di manovra della guida politica con uno spostamento del potere decisionale verso il cosiddetto “stato maggiore informativo”: l’intreccio tra i servizi segreti di Stato e quelli legati a grandi corporazioni industriali e finanziarie. Ciò ha comportato un rafforzamento di quel “capitalismo della sorveglianza”, già manifestatosi nei due anni di pandemia e preceduto nei primi anni 2000 dal Patriot Act dell’amministrazione Bush, che sta rapidamente trasformando lo spazio egemonizzato dagli Stati Uniti in una sorta di weberiana “gabbia d’acciaio” del pensiero unico liberale. La geopolitica vaccinale ed il commissariamento dello Stato a vantaggio delle multinazionali, in questo senso, sono state semplicemente un’anticipazione di ciò che sarà il futuro dell’Occidente. Attraverso lo “stato d’emergenza” permanente, ad esempio, si sta nascondendo la volontà dell’attuale governo italiano di svendere quel poco rimasto del patrimonio nazionale a vantaggio di corporazioni e fondi di investimento d’Oltreoceano: non ultima, la cessione del 49% di Enipower a Sixth Street: compagnia creata da ex dirigenti della banca d’affari Goldman Sachs[7].
Il conflitto ucraino, tuttavia, pone anche dei problemi in termini di sostenibilità del sistema globale egemonizzato dagli Stati Uniti. Nel momento in cui si scrive, al di là dei Paesi tradizionalmente inseriti nel contesto “occidentale”, la vulgata sanzionatoria nei confronti della Russia non sembra aver fatto breccia nel resto del mondo.
La Turchia, secondo esercito della NATO, non sembra affatto intenzionata a seguire il regime sanzionatorio, preferendo un ruolo di mediazione tra Ucraina e Russia. Lo stesso discorso vale per la Cina, poco propensa a rovinare la sua vantaggiosa cooperazione commerciale con la Russia, e per l’India, che sta studiando con Mosca forme alternative all’utilizzo del dollaro nelle reciproche transazioni commerciali. A ciò si aggiunga che Repubblica Popolare Cinese ed Arabia Saudita stanno vagliando la possibilità di utilizzare lo yuan come valuta di riferimento nel commercio petrolifero (la Cina importa il 25% del suo fabbisogno di greggio dall’Arabia Saudita)[8]. Ciò comprometterebbe non di poco il fondamento della globalizzazione americana: ovvero, quella globalizzazione del dollaro sorta nel momento in cui, in accordo con l’OPEC, gli Stati Uniti ancorarono la loro moneta al commercio internazionale del petrolio. Un atto che permise loro di imporre al mondo il principio secondo il quale per comprare petrolio servono dollari e per ottenere dollari bisogna sottostare ai voleri del produttore di dollari.
Questa è anche la ragione dei continui attacchi degli Stati Uniti all’unica moneta che, per ora, ha messo timidamente a rischio l’egemonia del dollaro: l’euro. E questo è il principale motivo dell’ossessione nordamericana per il controllo egemonico sull’Europa e per contenere il suo potenziale rafforzamento politico attraverso la costante espansione verso est (non sorprendono le spinte verso l’allargamento dell’Unione a Moldavia, Georgia ed alla stessa Ucraina).
Tornando al caso saudita, risulta utile capire da cosa sia stata determinata la scelta di Riyad di negare l’aumento della produzione petrolifera per sopperire al calo delle esportazioni russe. Oltre al dato meramente economico (il prezzo alto del petrolio è un toccasana per le casse saudite messe alla prova dalla spesa militare dovuta da sette anni di infruttuosa aggressione allo Yemen), entrano in gioco altri fattori. Dopo le più che accondiscendenti amministrazioni Obama e Trump, Biden ha puntato in primo luogo per una riduzione del supporto logistico USA alla citata guerra allo Yemen. L’obiettivo, in questo caso, era quello di riaprire uno spiraglio nei confronti dell’Iran (sostenitore di Ansarullah) e del negoziato per l’accordo sul nucleare. Cosa che, nei piani di Washington, avrebbe dovuto limitare l’eccessivo sviluppo della cooperazione tra Teheran, Pechino e Mosca (da non dimenticare che lo stesso Brzezinski sosteneva la tesi secondo cui la comunione di intenti tra queste tre forze avrebbe messo in grossa difficoltà la strategia egemonica globale USA). Un negoziato che, ad onor del vero, non sembra destinato ad un radioso futuro. Gli Stati Uniti non sono in grado di garantire (o più probabilmente non vogliono) che un eventuale cambio di amministrazione nel 2022 possa comportare un nuovo ritiro unilaterale. La parte iraniana, al contempo, sembra ricercare una strategia estera scollegata dal successo o meno dell’accordo (strategia nella quale rientra anche la dura risposta agli attacchi in Siria del sionismo attraverso il recente bombardamento delle strutture del Mossad nel Kurdistan iracheno). Dunque, la reazione saudita non può essere riconducibile al solo tentativo degli USA di stabilire nuovi canali negoziali con l’Iran o al rinnovato interesse dei mezzi di informazione occidentali per il caso Khashoggi. Questa sembra essere più facilmente collegabile al fatto che gli Stati Uniti, negli ultimi anni, hanno ridotto drasticamente l’importazione di petrolio dall’Arabia Saudita trasformandosi in competitore di rilievo del Regno e dal fatto che Riyad ha iniziato a nutrire non pochi dubbi sull’effettivo ruolo di Washington nella regione. Questa, infatti, parafrasando il celebre moto di Henry Kissinger, sembra ben più interessata a proteggere i propri interessi che i propri alleati (veri o presunti).
Non dissimile dalla risposta saudita è stata la reazione di Emirati Arabi Uniti e Venezuela. Caracas, dopo decenni di sanzioni e reiterati tentativi di destabilizzazione interna, ha posto come condizione all’esportazione del suo greggio verso l’Europa, la rimozione del regime sanzionatorio ed il riconoscimento della legittimità del governo Maduro: dunque, una “perdita della faccia” che un Occidente impegnato nell’ennesima ipocrita “crociata democratica” contro quello che Carl Schmitt definiva il ritorno del “machiavellismo politico” non può permettersi. (Non sorprende che lo stesso Nicolas Maduro abbia parlato di un conflitto globale già in corso, sebbene limitato al campo economico-finanziario.)
Più propensi ad accontentare le richieste dell’Occidente sembrano essere il Qatar (dove si trova la più grande base USA dell’Asia occidentale) ed il Bahrein (monarchia sunnita in un piccolo Paese a maggioranza sciita dalla dubbia legittimità e già protagonista degli “Accordi di Abramo”).
Ad oggi, osservando il quadro generale delle mutevoli relazioni internazionali (e di fronte alla constatazione che l’Occidente non produce materie prime ed il suo settore manifatturiero è stato drasticamente ridotto nei decenni precedenti in nome dell’economia virtuale e di una globalizzazione che si presupponeva immutabile), appare evidente che a soffrire di isolamento, nel medio lungo periodo, non sarà la Russia ma la parte di mondo inserita all’interno della “gabbia d’acciaio” del totalitarismo liberale.
Ed oggi, l’unica via per stringere ulteriormente le maglie di questa gabbia è prolungare il più a lungo possibile quel conflitto in Ucraina che consente anche di dare fiato al complesso bellico-industriale. Tale via è percorribile attraverso il costante flusso di armi e mercenari sul suolo del Paese dell’Europa orientale.
A questo proposito, un breve approfondimento lo merita il ruolo della tristemente nota compagnia di contractors Blackwater (Xe Services dal 2009, Academi dal 2011) e del suo fondatore Erik Prince.
Noto alle cronache per aver cercato di scalzare alcune compagnie russe nel sostegno a Khalifa Haftar in Libia, Prince, tra il 1997 ed il 2010, ha ottenuto 2 miliardi di dollari in contratti governativi da parte di Washington per sostenere lo sforzo bellico in Iraq e Afghanistan, più altri 600 milioni di dollari ottenuti dalla CIA per contratti classificati come segreti[9]. I suoi uomini sono stati banditi dall’Iraq a seguito della strage di Piazza Nisour a Baghdad (settembre 2007) nel corso della quale morirono 17 civili iracheni ed altri 20 rimasero gravemente feriti. E lui stesso è entrato a vario titolo in vicende inerenti traffico di armi, petrolio e minerali preziosi. Cosa che la dice ben lunga sul ruolo che i gruppi privati esercitano sui territori nel quale operano.
Il suo legame con l’Ucraina è altrettanto problematico. Già nel febbraio 2020, Prince avrebbe manifestato al consigliere di Volodymyr Zelensk’yi Igor Novikov il suo interesse a creare una compagnia militare privata formata da ex veterani della guerra nel Donbass. Inoltre, avrebbe sostenuto l’idea di costruire una società per produrre munizioni e mettere sotto un unico marchio le principali compagnie aeronautiche del Paese. L’obiettivo, infatti, sarebbe stato quello di creare un “consorzio di difesa aerea verticalmente integrato”[10] capace di competere con giganti come Boeing ed Airbus attraverso l’acquisizione della Antonov e della compagnia Motor Sich (principale società ucraina produttrice di motori per aerei). L’operazione avrebbe dovuto essere sostenuta dalle pressioni nordamericane per fare in modo che la stessa Motor Sich non venisse acquistata da compagnie cinesi (pratica largamente utilizzata anche in Italia).
All’inizio dell’estate 2020, l’Ucraina avrebbe mosso i primi passi per trasformare in realtà il progetto dell’“imprenditore” nordamericano. Nel giugno del medesimo anno, Prince è entrato in contatto diretto con l’ufficio presidenziale ucraino tramite l’ex produttore televisivo ed amico personale di Zelensk’yi Andriy Yermak (noto anche per il ruolo di interlocutore diretto di Kurt Volker e Rudy Giuliani nella realizzazione di dossier anti-Biden in cambio dello sblocco degli aiuti militari USA all’Ucraina durante l’amministrazione Trump).
Il piano d’affari prevedeva, tra le altre cose, lo sviluppo di una serrata cooperazione con l’intelligence ucraina per la pianificazione strategica, per quella logistica e per l’addestramento delle forze di sicurezza ucraine.
Questi fatti non stonano più di tanto con le dichiarazioni del portavoce della milizia popolare della Repubblica di Donetsk Eduard Basurin, che aveva denunciato la presenza di addestratori militari americani nella regione di Sumy riconducibili ad Academi. Questi, nello specifico, avrebbero preparato le milizie del Battaglione Azov ad un imminente attacco su vasta scala nel Donbass[11].
Nel novembre 2021, inoltre, il Ministero della Difesa russo aveva lanciato l’allarme sulla presenza nell’Ucraina orientale di 120 mercenari occidentali il cui compito, oltre all’addestramento delle milizie ucraine, sarebbe stato quello di ammassare componenti chimici lungo la linea di confine con le Repubbliche separatiste da utilizzare come giustificazione per eventuali attacchi[12].
A questo punto, anche in virtù del fatto che la propaganda occidentale cerca di presentare come combattenti per la libertà i suddetti personaggi, si rende necessario distinguere tra i diversi livelli delle compagnie che agiscono sul suolo ucraino. In primo luogo, ci sono le compagnie militari private che partecipano direttamente alle attività (molti dei membri della cosiddetta “legione straniera” di Zelens’kyi sono ex militari arruolati tramite queste agenzie ed inviati in Ucraina col bene placito dei Paesi europei). In secondo luogo, ci sono le compagnie di sicurezza private che si sono occupate dell’addestramento delle milizie ucraine insieme agli uomini della NATO. In terzo luogo si trovano le compagnie che forniscono sostegno logistico e che si occupano del trasferimento di materiale bellico anche travestendolo da aiuto umanitario (come avvenuto all’aeroporto di Pisa)[13].
Sul lato russo, fonti occidentali hanno sostenuto la presenza del celeberrimo Gruppo Wagner sul fronte di Kiev. Il compito che ad esso sarebbe stato attribuito è quello dell’eliminazione diretta dei vertici politici ucraini nel momento in cui le forze russe procederanno con l’ingresso nella capitale.
Il Gruppo Wagner (ribattezzato Liga) avrebbe avuto anche il compito di infiltrare sul suolo ucraino volontari siriani e mercenari centrafricani. Al momento, tuttavia, i canali occidentali di Open Source Intelligence, sempre pronti a mostrare da più angolazioni immagini di blindati russi distrutti, abbandonati o catturati, non hanno ancora individuato alcun soldato caduto che abbia una pigmentazione della pelle differente da quella della regione.
NOTE
[1]Ukraine’s leader asks Europe to do more but admits NATO membership is not in the cards, www.washingtonpost.com.
[2]Ukraine: the world’s defense giants are quitly making billions from the war, www.theconversation.com.
[3]Si veda P. Schweizer, Victory: the Reagan Administration’s secret strategy that hastened the collapse of the Soviet Union, Atlantic Montly Press, New York 1994.
[4]Manlio Dinucci – Ucraina, era tutto scritto nel piano della Rand Corp, www.lantidiplomatico.it.
[5]Z. Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, p. 46.
[6]Si veda C. Mutti, Il limite della pazienza russa, www.eurasia-rivista.com.
[7]ENI sells 49% of Enipower to Sixth Street, www.eni.com.
[8]Saudi Arabia considers accepting yuan instead of dollars for Chinese oil sales, www.wsj.com.
[9]I contractors dell’intramontabile Erik Prince tra Libia, Afghanista e Ucraina, www.analisidifesa.it.
[10]Ibidem.
[11]Blackwater mercenaries training far-right militia in Ukraine. Dontesk military commander claims, www.morningstaronline.co.uk.
[12]Russia claims US military contractors amassing toxic chemicals, training Ukraine troops, www.newswek.com.
[13]Si veda Contractors e compagnie militari e di sicurezza nella guerra in Ucraina, www.analisidifesa.it.
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