Nelle ultime settimane c’è stata una serie di eventi che potrebbero produrre un deciso cambiamento nella politica portata avanti fino ad adesso dalle potenze occidentali. In Polonia, in parte per ragioni interne e in parte per via del forte abbassamento dei prezzi del grano dovuto alla concorrenza ucraina, il Primo Ministro Mateusz Mazowiecki ha annunciato che non fornirà ulteriori armamenti all’Ucraina. In Slovacchia la coalizione governativa di centrodestra, favorevole al sostegno all’Ucraina, è stata sconfitta dall’ex Primo Ministro Robert Fico, oggi alla guida di una compagine governativa di partiti di centrosinistra e di destra decisamente contrari al coinvolgimento nella guerra del Paese. E negli States, complice un Partito Repubblicano sempre più spostato sulle posizioni trumpiane, il Congresso ha detto no a un nuovo pacchetto di aiuti per l’Ucraina. L’emergenza della guerra tra Israele e Hamas ha spostato verso il Levante l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale e non, sia per la forte valenza delle cause coinvolte, sia per il rischio che lo stesso degeneri in una grande guerra regionale, e questo porterà inevitabilmente l’Occidente a riflettere sulle sue priorità, anche in previsione di un probabile scontro con la Cina su Taiwan.

Quello che si sta verificando è uno scenario tutt’altro che inconsueto nelle guerre di civiltà, e che è stato appropriatamente descritto da Huntington nel suo sempre attuale Scontro di Civiltà. Questo tipo di conflitti, nel cui novero quello in Ucraina rientra in toto, si caratterizza per la presenza di partecipanti di primo grado, direttamente coinvolti nel conflitto, e di partecipanti di secondo e terzo grado, che se da un lato sostengono attivamente una delle due parti, dall’altro cercano nei limiti del possibile di evitare un coinvolgimento diretto. Sono i partecipanti di secondo e terzo grado, non quelli di primo, che muovono le redini del gioco, sia ponendo a freno le ambizioni dei partecipanti di primo grado o al contrario aizzandole quando ciò rientra nei loro interessi, sia negoziando tra loro al fine di trovare una soluzione pacifica al conflitto.

Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante in quanto, nella prassi, è molto difficile trovare un conflitto di civiltà risolto direttamente dai partecipanti di primo grado, se non tramite pulizie etniche, genocidi e assimilazioni forzate. Il conflitto nordirlandese, ad esempio, è stato risolto prima tramite negoziazioni tra il Regno Unito e la Repubblica d’Irlanda (partecipanti di secondo grado) e poi attraverso l’intervento di una potenza terza, gli USA, che forti dei loro legami con entrambi i Paesi e della presenza di una massiccia comunità ibernoamericana riuscirono a strappare concessioni a tutte le parti del conflitto. E la Pace di Dayton, che ha posto fine alla Guerra in Bosnia, è stata il risultato di una serie di negoziazioni tra un gruppo di contatto che includeva Francia, Russia, USA, Regno Unito e Germania (tutti partecipanti di terzo grado). I conflitti congelati, invece, non sono tanto il frutto di disaccordi tra i partecipanti di primo grado, quanto dell’incapacità o dell’assenza di volontà da parte dei partecipanti di secondo e terzo grado di stipulare compromessi in qualche modo accettabili e di imporre rinunce alle parti da loro sostenute: i casi di Kosovo, Cipro Nord e Nagorno-Karabach sono in questo indicativi.

Nella Guerra in Ucraina i partecipanti di primo grado sono da un lato il governo ucraino e le componenti nazionaliste e filoccidentali della società ucraina, dall’altro i suoi elementi filorussi e in particolare i separatisti di Crimea e Donbass. La contesa tra le due anime dello spazio ucraino[1], che va avanti dall’indipendenza e le cui radici risalgono alla frantumazione della Rus’ di Kiev, aveva inizialmente come oggetto la Bankova, che per vent’anni ha visto alternarsi Presidenti filorussi e filoccidentali, e poi il controllo delle regioni filorusse una volta che questi ultimi si sono insediati al governo ucraino in modo permanente. Ad un livello superiore troviamo invece alcune potenze occidentali, quali gli USA, il Regno Unito e alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale (in primis la Polonia) e dalla parte opposta la Russia. La cronistoria degli eventi che hanno portato alla guerra in corso è piuttosto nota e non rientra tra i fini di quest’articolo. Ciò che conta è che, ancor più che in Nordirlanda e nella Bosnia-Erzegovina, ogni tentativo di mediazione tra le rispettive parti dovrà inevitabilmente passare attraverso un qualche accordo tra i partecipanti di secondo grado. Le contese tra questi ultimi, come è noto, hanno svolto un ruolo fondamentale nell’infiammare il conflitto, e non è un segreto che il controllo che questi esercitano sui partecipanti di primo grado è tale da mandare al macero ogni iniziativa autonoma da parte di questi ultimi, come dimostra il fallimento delle trattative di pace dell’aprile del 2022.

Ciò, tuttavia, non esclude che anche in questo caso i partecipanti di primo e di secondo grado possano avere obiettivi divergenti. La NATO e quindi gli USA sostengono l’Ucraina sia per ragioni ideali, sia perché la stessa è funzionale ai loro obiettivi strategici: tenere separate la Russia e l’Europa occidentale, costringere la Russia ad accettare un ruolo di semplice potenza regionale circondandola di Paesi ostili e dare una lezione esemplare a tutti coloro che in futuro avrebbero voluto sfidare la primazia statunitense, in primis la Cina. Non per questo, però, intendono entrare in guerra contro la principale potenza nucleare del pianeta, e la cosa vale anche per Paesi come la Polonia, diviso dalla Russia da cinquecento anni di rivalità: la gestione dell’Incidente di Przewodów, potenzialmente sfruttabile come casus belli per entrare in guerra contro la Russia, ne è la riprova. L’Ucraina, in quell’occasione, ha cercato di spingere la NATO all’intervento diretto, l’unica cosa che – forse – avrebbe potuto consentirle di riprendere la Crimea; ma la gestione dell’incidente è stata tale da mettere in chiaro che, al di là delle responsabilità dello stesso, nessuno sul fronte occidentale era alla ricerca di un casus belli.

Allo stesso modo, per i separatisti del Donbass, l’obiettivo iniziale non era l’autonomia ma l’indipendenza. Certamente, tra il 2014 e il 2022, le Repubbliche separatiste di Doneck e Lugansk sono state di fatto degli Stati indipendenti, sostenuti da Mosca che di questa indipendenza era il garante; ma per il Cremlino il fine non era una nuova Crimea – l’importanza strategica del Donbass è risibile – o una nuova Transnistria, ma un’equivalente ucraina della Repubblica Serba di Bosnia, in grado di garantire autonomia culturale ai suoi abitanti e di prevenire che l’Ucraina diventasse una testa di ponte contro la Russia. Gli stessi referendum dell’11 maggio 2014 non sono mai stati riconosciuti da Mosca, che li ha usati invece per lanciare un monito a Kiev affinché iniziasse un dialogo con quelli che il governo ucraino si ostinava a definire terroristi. Per la Russia, fino al 2022, il punto di partenza erano gli Accordi di Minsk, in barba all’indipendentismo e all’irredentismo della popolazione del Donbass, e tanto l’invasione del 24 febbraio 2022, quanto l’annessione della regione nel settembre successivo sono state delle mosse estreme, prese quando tutte le altre opzioni erano ormai impraticabili.

Lo spazio ucraino si sta avviando alla pace? Sì e no. Negli ultimi mesi, certamente, una serie di eventi ha messo a nudo la natura illusoria degli obiettivi di globalisti e neoconservatori. La tanto preannunciata controffensiva di primavera (nella prassi un’offensiva in piena regola) si è rivelata un fallimento totale, conclusosi con la conquista di alcuni piccoli territori nei pressi della linea del fronte, peraltro al prezzo di enormi perdite umane e materiali. Tokmak, uno degli obiettivi principali della controffensiva, resta saldamente in mano russa, per non parlare di Melitopol’ e di Berdjansk, e secondo il New York Times, che peraltro ha fatto i suoi calcoli prima dell’inizio dell’offensiva russa su Avdeevka, dal 1 gennaio 2023 le conquiste territoriali russe sono state superiori alle perdite[2]. L’industria bellica occidentale, specializzata nella produzione di pochi mezzi ad elevato contenuto tecnologico, è del tutto impreparata per una guerra ad alta intensità con una potenza di pari grado, e non solo quasi tutti i Paesi europei, ma anche gli stessi Stati Uniti, stanno affrontando dei seri problemi nelle scorte di alcuni armamenti. L’industria bellica russa, dal canto suo, non solo è rimasta praticamente indenne, ma ha anzi visto incrementare il suo potenziale produttivo ed è uscita finora complessivamente rafforzata dal conflitto, come dimostra la forte crescita di un settore in passato complessivamente trascurato come la fabbricazione dei droni.

Lo scoppio della Crisi di Gaza, sotto questo punto di vista, ha costituito un ulteriore toccasana per la Russia. Joe Biden, in un recente discorso, ha lanciato un nuovo pacchetto a sostegno dell’Ucraina – peraltro più cospicuo di quello bocciato dal Congresso – e di Israele, ma le sorti dello stesso sono tutt’altro che scontate, sia in virtù dell’ostilità dell’ala trumpiana del Partito Repubblicano nei confronti degli aiuti a Kiev, sia delle ormai non troppo lontane elezioni presidenziali. La Russia non è crollata, malgrado le previsioni, e l’iniziale indignazione per l’invasione russa dell’Ucraina sta cedendo sempre più posto al timore di un’ennesima “guerra infinita”. Anche qualora il pacchetto di aiuti dovesse passare, inoltre, così come il sostegno statunitense all’Ucraina ha indebolito Israele (nell’agosto scorso, ad esempio, una fornitura di proiettili statunitensi per Israele è stata dirottata verso Kiev), allo stesso modo il sostegno congiunto di Ucraina e Israele implicherà inevitabilmente dei sacrifici per almeno una delle parti, specie in un contesto in cui lo scontro tra Israele e Hamas rischia di diventare una grande guerra regionale in cui quest’ultima godrà del sostegno più o meno implicito dei Paesi musulmani e di quello decisamente più esplicito della loro popolazione. La natura di scontro di civiltà della guerra per Gaza potrebbe accelerare il processo di allontanamento dagli USA di molti Paesi islamici tradizionalmente filoccidentali, e la cosa è visibile già oggi per la Turchia, che per bocca del suo Sultano ha definito i guerriglieri di Hamas “liberatori e non terroristi”. Infine, ma non in ultima analisi, i doppi standard occidentali nei confronti di Russia e Israele costituiscono un fortissimo argomento di propaganda contro gli Stati Uniti nei confronti del Terzo Mondo, in particolare dei circa 1,9 miliardi di Musulmani sparsi per il globo.

Ciò, tuttavia, non implica che la pace sia dietro l’angolo. Il mandato di cattura contro Putin da parte della Corte Penale Internazionale è sì una decisione prettamente politica, che con ogni probabilità non verrà mai attuata, ma non per questo è una decisione trascurabile, visto che il fine è lanciare un messaggio molto chiaro a quei leader occidentali che potrebbero essere “tentati” dall’avviare un vero processo di pace con la Russia: Putin è un interlocutore indegno per ogni trattativa di pace. E il fatto che a guidare il processo sia l’avvocato britannico Karim Khan, fratello dell’ex Parlamentare conservatore Imran Ahmad, non è propriamente un dettaglio: il Regno Unito, come abbiamo visto, è uno dei Paesi più attivi in questa crociata antirussa. D’altro canto, non solo la Russia – non Putin, ma la Russia – non può permettersi di perdere la Guerra in Ucraina, visto che ciò implicherebbe l’accettazione di un piano di pace che nella prassi costituirebbe una Versailles, ma il Paese può contare su risorse umane e materiali non ancora utilizzate, che, con ogni probabilità, saranno sufficienti a far sì che le prossime generazioni di Russi non vedranno lo Zar come il loro Hitler, ma come il loro Atatürk. Le trattative, seppur sotto traccia, sono già in corso; ma, sebbene l’Occidente possa permettersi una sconfitta in Ucraina senza che la stessa assuma un carattere strategico, gli ostacoli politici sono ancora numerosi, cosicché nella prassi le stesse potrebbero richiedere diversi anni e un cambio di classe dirigente prima di dare risultati concreti.

Un ulteriore ostacolo è costituito dall’assenza di possibili mediatori. Come diceva Huntington, e come abbiamo visto anche nel Nordirlanda, “i conflitti tra Paesi o gruppi di cultura comune possono a volte essere risolti attraverso la mediazione di una terza parte disinteressata appartenente anch’essa a quella cultura e che le parti belligeranti ritengono in grado di trovare una soluzione coerente coi propri valori”[3]. A differenza dei Cattolici e dei Protestanti dell’Irlanda del Nord, però, le due componenti dello spazio ucraino e i rispettivi sostenitori appartengono a civiltà diverse, e questo limita notevolmente il numero dei possibili mediatori. Israele, che in virtù della sua posizione equidistante tra Russia e Ucraina – sebbene con una leggera propensione verso quest’ultima dovuta alla sua ostilità verso l’Iran, alleato di Mosca –, del credito di cui gode negli States e del fatto di essere l’unico Paese occidentale che non ha imposto sanzioni alla Russia né inviato armi a Kiev, era forse il Paese più adatto a mediare tra le due parti. Il “modello israeliano” per la difesa dell’Ucraina prevede sostegni occidentali in termini di formazione militare e forniture di armamenti come alternativa ad un’alleanza difensiva o all’adesione alla NATO, ed è il prodotto delle discussioni tra Zelenskij e l’ex Primo Ministro israeliano Naftali Bennett. Paralleli colloqui tra Mosca e l’ex Primo Ministro israeliano prospettavano garanzie di Putin sulla vita del Presidente e la rinuncia al progetto di “denazificare” il Paese, limitandosi a chiedere un’Ucraina neutrale e non trasformabile in una testa di ponte contro la Russia. Ma, come dichiarato malinconicamente dallo stesso Bennett, le trattative sono state sabotate da Stati Uniti e Regno Unito[4].

Non molto diverso è il discorso per la mediazione del Papa, priva di appoggi sostanziali nell’Occidente che conta e vista con sospetto tanto in Russia quanto in Ucraina. Pur avendo in passato sostenuto gli sforzi di Putin per proteggere le comunità cristiane della Siria, il Papa è pur sempre il capo della Chiesa Cattolica, mentre la Russia è un Paese ortodosso. Le due Chiese, pur sostanzialmente uguali sul piano dottrinario, tendono a vedersi l’un l’altra come scismatiche; i loro rapporti, in virtù di questo, sono stati spesso tesi, e le querelles tra il Primato Petrino e la “Vera Fede” sono state forse il principale movente ideologico delle guerre tra la Russia e l’Occidente[5] prima di essere sostituito da questioni legate a democrazia, primazia dei mercati sugli Stati nazionali e dell’individuo sulla comunità e diritti LGBT. In Ucraina, d’altro canto, vengono rifiutati tanto il principio di equivalenza morale tra i due belligeranti, di fatto alla base di ogni trattativa di pace, quanto ogni minimo apprezzamento del Papa verso la cultura russa. Non va poi dimenticato che, sebbene in Ucraina il Papa possa contare su un discreto numero di fedeli, la Chiesa Greco-Cattolica Ucraina è la più nazionalista tra le istituzioni religiose presenti nel Paese, e che la culla del nazionalismo ucraino, nello specifico la Galizia, è anche l’unica regione in cui gli uniati sono maggioritari; senza contare che in questi contesti di faglia, come anche in Polonia, in Croazia e in Irlanda, il pur universalista cattolicesimo si mescola col nazionalismo. Paradossalmente, quindi, la componente cattolica dell’Ucraina è la più intrinsecamente ostile alla mediazione del Papa.

Infine resta lo scoglio del contenuto delle trattative di pace. Escludendo una Minsk 3 – reintegrazione nell’Ucraina dei territori annessi dalla Russia nel 2022 in cambio di uno statuto speciale – e una rimodulazione dei confini sulla base dell’attuale linea del fronte in cambio dell’adesione dell’Ucraina alla NATO, come proposto alcuni mesi fa da un alto ufficiale dell’Alleanza, nella prassi le opzioni praticabili sono due: il congelamento del conflitto e una soluzione politica che bypassi le questioni territoriali. Nel primo caso i due Paesi rimarrebbero formalmente in guerra, sulla falsariga delle due Coree, le sanzioni antirusse resterebbero in vigore, molte delle questioni dirimenti non verrebbero risolte e forse il conflitto continuerebbe, seppure a bassissima intensità. Nel secondo caso avremmo il ripristino di relazioni diplomatiche tra Russia e Ucraina, la soluzione di almeno una parte delle questioni in sospeso tra i due Paesi (ad esempio con una sorta di “scambio” tra l’abolizione o quantomeno la sospensione del processo di adesione dell’Ucraina alla NATO e l’attuazione di garanzie di sicurezza occidentali secondo il modello israeliano menzionato in precedenza), l’abolizione di almeno una parte delle sanzioni antirusse e la trasformazione della linea del fronte del momento in una linea di controllo sulla falsariga di quella che nel Kashmir separa i territori indiani da quelli pakistani. Altre questioni, come quelle sulla ricostruzione dell’Ucraina e sullo status dei cittadini dei territori filorussi dello spazio ucraino, potrebbero essere risolte a latere.

In entrambi i casi si tratterebbe di una “pace fredda”, sebbene la seconda opzione sia un po’ più tiepida e allontanerebbe il rischio di una nuova guerra. L’adozione di uno di questi due modelli, o magari di una soluzione intermedia, dipenderà tanto dalla situazione sul campo, quanto dall’evoluzione politica dei Paesi occidentali, nonché dalla situazione geopolitica globale. È probabile che, in caso di una netta vittoria di Trump alle prossime elezioni presidenziali americane, avremmo nel giro di qualche anno un accordo di pace più vicino alla seconda opzione, magari in cambio di una riduzione del sostegno russo all’Iran e a una sostanziale neutralità della Russia in caso di un conflitto tra gli USA e la Cina. In caso di vittoria di Biden, o qualora le componenti globaliste e neocon dovessero rimanere forti, potremmo invece assistere al massimo ad un congelamento del conflitto. Al momento, però, si tratta solo di ipotesi, e le uniche cose di cui si può essere abbastanza certi sono da un lato un futuro aumento della spinta al dialogo con la Russia e dall’altro una prosecuzione del conflitto per almeno altri 1-2 anni.


NOTE

[1] Per evitare confusioni su contese territoriali e affini e per rimarcare l’origine interna del conflitto in Ucraina si è scelto di usare il termine “spazio ucraino” per definire l’Ucraina entro i confini pre-2014, inclusa quindi la Crimea, e il termine “Ucraina” per designare i territori sotto il controllo di Kiev.

[2] J. Holder, Who’s gaining ground in Ukraine? This year, no one, su The New York Times – Breaking News, US News, World News and Videos (nytimes.com)

[3] S.P. Huntington, Lo Scontro di Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 1997, p. 437.

[4] Redazione, Bennett: quando USA e GB hanno fatto saltare l’Accordo Mosca-Kiev, su Piccole Note

[5] Si pensi, a questo proposito, alla campagna dei Cavalieri Teutonici contro la Repubblica di Novgorod, alle guerre tra la Russia e la Polonia-Lituania dei secoli XVI e XVII e alla questione uniate nei territori della Rus’ di Kiev che furono conquistati da Polonia e Lituania a partire dal Trecento.


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Giuseppe Cappelluti, nato a Monopoli (Bari) nel 1989, vive e lavora in Turchia. Laureato magistrale in Lingue Moderne per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo, ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Mediazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Bari. Dopo aver trascorso periodi di studio presso l’Università di Tartu (Estonia) e a Petrozavodsk (Russia), nel 2016 ha conseguito un Master in Relazioni Internazionali d’Impresa Italia-Russia presso l’Università di Bologna. Dal 2013 ha pubblicato numerosi articoli su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Suoi contributi sono apparsi anche su “Fond Gorčakova” (Russia), “Planet360.info” (Italia), “Geopolityka” (Polonia) e “IRIB” (oggi “Parstoday”, Iran).