Introduzione

Il crollo indotto del processo di Astana che aveva portato al congelamento del conflitto siriano attraverso la marginalizzazione degli interessi occidentali (rappresentati solo in parte dalla Turchia), per quanto possa essere stato concordato tra alcune delle parti in causa, segna comunque un decisivo arretramento nella costruzione di un ordine globale multipolare. Naturalmente, è ancora presto per valutare quelli che saranno gli effetti nel lungo periodo della caduta di Damasco (esito, secondo il Presidente turco Erdoğan, del costante rifiuto di Bashar al-Assad ad un accordo che l’avrebbe portato comunque a perdere parte del territorio nazionale)[1]. Tuttavia, appare opportuno cercare di individuare ed identificare sia i diversi attori in gioco, sia i loro interessi all’interno del teatro siriano.

Innanzitutto è bene sottolineare il fatto che se nel 2011 il conflitto siriano esplose come il frutto di una commistione tra fattori interni (rapporti più o meno conflittuali tra centro-periferia; tensioni confessionali; crisi ambientale; fallimento dei programmi di apertura economico-politica) e fattori esterni (scontro aperto sui corridoi di trasporto del gas; ostilità nei confronti del piano geopolitico assadista di fare della Siria un ponte tra mondo arabo e persiano), oggi la sua recrudescenza è solo il prodotto di fattori geopolitici esterni. Sicuramente, in futuro, si renderà necessario indagare il crollo militare totale dell’Esercito Arabo Siriano (tra defezioni e mancanza di preparazione); istituzione sulla quale la Siria baathista ha costruito parte delle sue fortune, insieme ad una certa pervasività degli apparati di sicurezza (la cui presunta “onnipotenza” è stata comunque oltremodo esagerata dalla letteratura accademica occidentale sui “mukhabarat States” e dall’immane volume di propaganda prodotto dai mezzi di informazione). Tra l’altro, in un Occidente ormai diretto verso la definitiva affermazione di una forma oligarchica di ipercapitalismo della sorveglianza (in cui i risultati elettorali vengono accettati solo quando rispettano determinati “criteri”), risulta sempre assai curiosa l’accusa di “non democraticità” rivolta all’esterno.

Ad ogni modo, bisogna tenere conto del fatto che l’Esercito Arabo Siriano era in fase di costante mobilitazione dal 2011, costretto a combattere su più fronti (quello di Deir ez-Zor, ad esempio, non è mai stato del tutto stabilizzato) e sottoposto a pesanti limitazioni per ciò che concerne la disponibilità di mezzi e rifornimenti. Il regime sanzionatorio imposto alla Siria attraverso il Caesar Act statunitense ha infatti ridotto all’osso la logistica militare, oltre ad aver affamato l’intera popolazione siriana. Già nel 2020 il vescovo latino di Aleppo, monsignor George Abu Khazen, aveva affermato che tale regime, colpendo in primo luogo le fasce più povere della popolazione e le minoranze, aveva creato un disastro sociale anche peggiore dell’occupazione della città da parte dei gruppi terroristici[2] (in questo senso, dovrebbe far riflettere il fatto che il governo abbia scelto di non combattere nei centri abitati per evitare ulteriori sofferenze alla popolazione civile). A ciò si aggiunga il continuo latrocinio delle risorse agricole e petrolifere siriane, operato prima dal sedicente Stato Islamico (che contrabbandava il greggio attraverso il confine turco) e poi da Stati Uniti e Forze Democratiche Siriane (gruppo a maggioranza curdo) che hanno occupato in pianta stabile la ricca area ad est del fiume Eufrate.

Inoltre, colpisce la tempistica dell’offensiva lanciata dalle milizie che il processo di Astana aveva confinato all’area di Idlib; a ridosso del cessate il fuoco in Libano (arrivato dopo il sostanziale fallimento dell’operazione terrestre israeliana nel sud del Paese dei cedri) ed in un momento in cui  la Russia appare “distratta” dall’evoluzione del conflitto in Ucraina (tra l’apparente volontà di disimpegno manifestata dall’entrante amministrazione Trump e l’incessante spinta all’intensificazione bellicista dell’uscente amministrazione Biden).

Nel complesso, la caduta di Damasco, anche se prodotto di un calcolo geopolitico che porterebbe a concessioni sul teatro ucraino in cambio della cessione del Vicino Oriente alla progettualità geopolitica degli “accordi di Abramo” (espressione ultima del disegno neocon del “Grande Medio Oriente”), avrà effetti assai dannosi sia per l’Iran (e si cercherà di spiegare il perché) sia per la Russia (nel medio/lungo periodo), visto che il suo fronte meridionale rimane ulteriormente scoperto – si consideri anche la considerevole presenza di miliziani caucasici all’interno dei presunti gruppi “ribelli” – e sotto diretta influenza di Turchia, USA e Israele (tutte potenze presenti, sebbene con modalità differenti, proprio nell’area caucasica, dalla Georgia all’Azerbaigian).

A questo punto, si rende necessaria una presentazione dei gruppi che hanno portato al rovesciamento di Bashar al-Assad, partendo da una breve biografia della guida di Hayat Tahrir al-Sham, Abu Muhammad al-Julani, e tenendo a mente che la presunta componente “moderata”, quella dell’Esercito Libero Siriano, ad oggi risulta piuttosto irrilevante  (senza considerare che lo stesso ELS, in passato, ha operato in piena comunità di intenti con gli stessi agglomerati terroristici presenti in Siria sin dal 2011 e variamente sostenuti dagli USA attraverso l’operazione Timber Sycamore)[3].

Cos’è Hayat Tahrir al-Sham?

Abu Muhammad al-Julani nasce Ahmed Hussein al-Shar’a a Riyad in Arabia Saudita, nel 1982, da padre siriano; un ingegnere impiegato nell’industria petrolifera. Vi sono poche notizie sulla vita di al-Julani prima del 2003, a parte qualche scarno riferimento ad una relazione con una donna alawita osteggiata dalle rispettive famiglie[4]. Dal 2003 lo troviamo in Iraq a combattere con il ramo iracheno di al-Qaeda inizialmente guidato dal terrorista giordano Abu Musab al-Zarqawi. Va da sé che, prima dell’aggressione della “coalizione dei volonterosi” a Baghdad del 2003 (sulla base di prove inventate dall’amministrazione Bush Jr. – la famosa fialetta di Colin Powell all’ONU), la presenza di al-Qaeda in Iraq era del tutto limitata. Nonostante i tentativi di associare il gruppo al regime di Saddam, un rapporto del Senato degli Stati Uniti del 2004 sulla situazione in Iraq prima dell’aggressione mise in evidenza come lo stesso Saddam avesse cercato (senza fortuna) di localizzare e catturare al-Zarqawi che, dal 2001, si trovava in pianta stabile nell’Iraq nordorientale (area a maggioranza curda)[5]. AQI è protagonista della guerra civile irachena, dove si mette in luce per la brutalità dei suoi attacchi contro la popolazione sciita.

Al-Zarqawi muore nel 2006 a seguito di un bombardamento USA. Sempre nel 2006, al-Julani viene arrestato dagli Stati Uniti e trascorre cinque anni nelle arcinote carceri irachene (Abu Ghraib compresa).

L’esperienza del carcere è fondamentale, soprattutto perché la CIA vi pesca notevoli risorse. A questo proposito, sarà utile ricordare che il governo riformista iraniano di Khatami, nei primi anni 2000, aveva cercato di ricostruire su basi meno conflittuali i rapporti tra Repubblica Islamica e Stati Uniti, cooperando anche nella lotta al terrorismo. Nello specifico, era stato anche proposto uno scambio di prigionieri: uomini del MeK (organizzazione terroristica iraniana legata a Saddam) detenuti nelle carceri USA in Iraq in cambio di membri di al-Qaeda detenuti in Iran. Gli USA rifiutarono avanzando preoccupazioni sulla tutela dei diritti umani e sulla condizione delle carceri iraniane (sic!). Tuttavia, la vera ragione era che la CIA aveva scoperto la potenziale utilità di tali uomini per colpire l’Iran dall’interno.

Ora, dopo cinque anni di prigionia, durante i quali stringe profondi legami con Abu Bakr al-Baghdadi (lo pseudocaliffo del sedicente Stato Islamico), al-Julani riappare in Siria a guidare la “ribellione” contro Bashar al-Assad con il Jabhat al-Nusra (allora riconosciuto come ramo siriano di al-Qaeda). Nel 2013, a seguito della scissione tra la stessa al-Qaeda e “Stato Islamico”, il rapporto tra al-Baghdadi e al-Julani si incrina, nonostante gli sforzi di mediazione di Ayman al-Zawahiri (a capo dell’organizzazione terroristica dopo la morte di Osama Bin Laden)[6]. Dopo esser arrivato ad occupare oltre il 25% del territorio siriano, a partire dal 2015, il Fronte al-Nusra è costretto al ripiegamento a causa dell’intervento russo e degli sforzi congiunti di Hezbollah e Pasdaran per mantenere un canale di rifornimento diretto tra Teheran e Beirut. Nel 2017, inoltre, il fronte di opposizione a Bashar al-Assad, assai eterogeneo e composto da milizie portatrici di interessi differenti (in rappresentanza dei rispettivi sostenitori esteri), si sfalda a causa della crisi tra Arabia Saudita e Qatar. Così, il Fronte al-Nusra diviene prima Jabhat al-Fateh al-Sham e, successivamente, insieme ad altre sigle della galassia islamista, viene creato Hayat Tahrir al-Sham che mantiene il controllo sull’area di Idlib insieme ad altri gruppi filoturchi.

Dal 2015, in poi, al-Julani cerca anche di ricostruire la sua immagine e quella della milizia da lui guidata (soprattutto agli occhi dell’Occidente e di Israele). Afferma di non aver mai avuto contatti con al-Zarqawi e nega un coinvolgimento diretto nel conflitto civile iracheno. Afferma a più riprese che i suoi nemici sono esclusivamente Hezbollah, l’Iran e l’Esercito Arabo Siriano; sottolinea il carattere “nazionale” della lotta della sua milizia (sebbene infarcita di mercenari stranieri, come già riportato) e rimarca il cambio di prospettiva di HTS in rapporto al tradizionale orientamento transnazionale di al-Qaeda. Inoltre, afferma che i diritti delle minoranze verranno rispettati nella “Nuova Siria”, salvo poi dichiarare eretici gli alawiti e calpestare i diritti dei cristiani nelle aree sottoposte al suo diretto controllo.

Sulla presunta eresia alawita è importante riportare che, a suo tempo, sia il Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husayni (sunnita) che l’Imam Musa al-Sadr (sciita), tramite fatwa (parere giuridico), avevano considerato i membri di questa particolare espressione dell’esoterismo islamico come parte integrante della comunità musulmana, superando anche i pregiudizi del teorico e giurista hanbalita Ibn Taymiyya (1263-1328), il quale, nato nel periodo delle invasioni mongole che distrussero Baghdad, aveva interpretato il crollo califfale come esito dei dissidi e delle eresie interne alla ummah[7].

Sull’esperienza di “governo” ad Idlib, inoltre, non mancano le ombre, visto che HTS, nonostante il flusso di denaro turco che ha garantito una certa crescita economica, ha spesso utilizzato il “pugno di ferro” contro la popolazione locale, sopprimendo con brutalità (ed a più riprese) diverse proteste (nel silenzio quasi totale dei mezzi di informazione occidentali e con la stessa complicità turca)[8].

L’obiettivo finale, invece, sembrerebbe quello di creare una “repubblica islamica sunnita” in Siria sulla base della particolare interpretazione della Shari’a del movimento (una sorta di ibridazione tra correnti estremiste wahhabite e shafi’ite). Di fatto, il destino della Siria, nel breve periodo, sembra essere quello di trasformarsi in un “buco nero” (in stile libico) nel cuore del Levante, in cui i servizi turchi, nordamericani e israeliani potranno agire come meglio credono. Dopotutto, basta osservare le direttrici di partenza dell’offensiva: l’area di Idlib con sostegno logistico turco; l’area di Dara’a accanto alle alture del Golan occupate da Israele.

Il disegno geopolitico

Nonostante la situazione sia in continua evoluzione, gli analisti israeliani hanno già iniziato a proporre eventuali soluzioni per il futuro della Siria che ricalcano in parte idee già proposte nei primi anni ’80 del secolo scorso attraverso il celebre Piano Yinon, apparso la prima volta sulla rivista Kivunin (direzioni). La prospettiva sarebbe quella di frammentare la Siria in tre regioni lungo linee etnico-settarie: l’area della costa mediterranea a prevalenza alawita (difficilmente raggiungibile dalle milizie sunnite in quanto protetta da una barriera montuosa che renderebbe piuttosto complessa la sua conquista) con la possibilità (almeno temporanea) per la Russia di mantenere le sue basi militari attorno a Tartus e Latakia (a questo punto, obiettivo geopolitico minimo per Mosca); l’area centrale sottoposta a controllo della supposta “repubblica islamica sunnita” che agirebbe come antemurale verso Hezbollah, isolandolo di fatto dai tradizionali canali di rifornimento (non è da escludere che, in caso di nuovo attacco israeliano contro il Libano, i gruppi terroristici legati ad HTS possano aprire un fronte orientale per impegnare su due lati il Partito di Dio); un’area sud-orientale sottoposta al controllo congiunto USA-SDF-milizie druse. A queste spetterebbe anche la supervisione sul confine con Israele lungo le alture del Golan (i carri armati israeliani sono già entrati in Siria per stabilire la creazione di una zona cuscinetto attorno a Quneitra). In questo caso, è opportuno rilevare che i drusi (minoranza religiosa collegabile all’Islam sciita ismailita presente attorno alle alture del Golan ed in altre aree dei territori occupati dall’entità sionista) vengono utilizzati da Tel Aviv come guardie di frontiera (motivo per cui sono spesso caduti vittime di attacchi dei gruppi armati di resistenza palestinesi). La zona cuscinetto israeliana più la presenza druso-curda in prossimità del Golan, inoltre, sarebbe funzionale sia agli interessi israeliani di espansione verso Damasco (il sogno mai celato dei Partiti estremisti del sionismo religioso) sia per evitare un contatto diretto tra i confini di Israele e l’area sotto influenza turca. Non è da escludere che, nel lungo periodo, le differenti progettualità geopolitiche (Grande Israele e “neo-ottomanesimo”), nonostante i successi ottenuti anche nel Nagorno Karabach, possano maturare interessi divergenti e conflittuali (soprattutto per ciò che concerne il ruolo di “pivot” regionale per il transito dei corridoi energetici verso l’Europa).

La parcellizzazione della Siria, infine, cui si aggiunge il suddetto isolamento di Hezbollah (ed il potenziale inserimento del Libano negli accordi di Abramo), rende particolarmente vulnerabile l’Iran (la “testa della piovra” da schiacciare, secondo le parole del Segretario alla Difesa della nuova amministrazione USA, Pete Hegseth)[9] e mina la meticolosa costruzione di numerose linee di difesa attuata dal generale Qassem Soleimani (assassinato dalla precedente amministrazione Trump). Ora, infatti, tra Israele e la Repubblica Islamica, rimangono solo le milizie sciite irachene.


NOTE

[1]Erdoğan  says Assad declined request for talks on Syria, 6 dicembre 2024, www.hurriyetdailynews.com.

[2]Le sanzioni degli USA ci uccidono. Passeremo un Natale di inferno”, intervista di G. Micalessin a G. A. Khazen, www.sputniknews.com.

[3]Si veda Marija C. Goleniščeva, Siria: il tormentato cammino verso la pace, Sandro Teti Editore, Roma 2022.

[4]Si veda Syria war: inside the world of HTS leader Abu Muhammad al-Julani, 22 giugno 2021, www.middleeasteye.net.

[5]Si veda Senate report on Iraqi WMD intelligence, 9 luglio 2004, www.intelligence.senate.gov.

[6]Si veda P. Cockburn, The rise of the Islamic State. ISIS and the new sunni revolution, Verso Books (2015), p. 43.

[7]Si veda La gnosi alauita, 26 aprile 2017, www.eurasia-rivista.com.

[8]Si veda Protests have erupted against another Syrian dictator, 4 aprile 2024, www.economist.com.

[9]Si veda Pete Hegseth at Arutz Sheva Conference, www.youtube.com.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).