Lo spazio geografico che va dal Golfo Persico al Mar Mediterraneo e che comprende quello che nel gergo arabo-islamico si suol definire come Sham (lett. “Levante”, ovvero la parte orientale del mondo arabo, in contrapposizione al Maghreb, il “Ponente”) – id est gli attuali Stati nazionali di Iraq e Siria (senza dimenticare il Libano, una sorta di estensione della “Grande Siria”) – è da considerare come il campo di battaglia di un “grande gioco” mediorientale. Questa zona è sempre stata al centro delle rivalità regionali lungo la storia: Ellenici e Persiani, Romani e Persiani, Arabi e Bizantini, Safavidi e Ottomani si sono scontrati per il dominio in questa regione. Negli ultimi decenni, invece, il “Levante” arabo è stato il centro della diatriba fra almeno tre progetti geopolitici: il “Grande Israele” dei sionisti, il “neo-ottomanesimo” dei turchi, l’”asse della resistenza” degli iraniani.
Il “Grande Israele”
Gli immigrati ebrei in Palestina avevano un grande sogno: non solo costituire un piccolo Stato nazionale ebraico sulla costa orientale del Mediterraneo, ma ampliare i confini di questa entità portandoli “dal Nilo all’Eufrate”. Il che vuol dire avere delle mire su contesti quali il Libano, la Siria e l’Iraq. Mentre sto scrivendo queste righe, l’esercito sionista sta occupando alcune zone del sud del Libano, cosa mai avvenuta in questi termini nel XXI secolo. In Siria l’occupazione israeliana si è estesa negli ultimi giorni a zone mai occupate prima, nemmeno durante i conflitti arabo-israeliani del Novecento.
Inoltre, alcuni gruppi etnico-confessionali della Siria “liberata” dal “dittatore” Assad, come i Drusi del sud della Siria e i Curdi del nord-est, hanno esplicitamente chiesto sostegno a Israele. Alcuni gruppi drusi hanno addirittura chiesto l’annessione allo Stato ebraico, sul modello del Golan occupato. Oltre allo scacchiere siriano, in Iraq la regione autonoma del Kurdistan rappresenta un saldo alleato di Israele per l’edificazione del grande Stato sionista. Non a caso l’unico governo mediorientale a sostenere esplicitamente l’indipendenza curda irachena è quello di Tel Aviv.
Il “neo-ottomanesimo”
L’ingresso trionfante del “Comitato di Liberazione del Levante” (Hay’at Tahrir al-Sham), ovvero l’ex “Fronte Al-Nusra” – ramo siriano di Al Qaeda – guidato da Muhammad Al Jolani, a sua volta ex delegato di Iman Al Zawahiri (successore di Bin Laden) per gli affari siriani – a Damasco e la conseguente caduta del governo di Assad, ha decretato una importante vittoria per il progetto di Erdogan in Medio Oriente. Gli islamisti sunniti turchi dell’AKP (una sorta di Fratellanza Musulmana anatolica) hanno sempre avuto come sogno nel cassetto la ricostituzione dell’Impero ottomano, se non a livello statale, almeno come sfera di influenza. Nei piani di Erdogan, dopo la Siria dovrebbe essere la volta dell’Iraq.
A onore del vero la caduta di Assad era prevista tra il 2011 e il 2013, ma una serie di fattori come la resistenza dell’Esercito Arabo Siriano, delle milizie popolari siriane (Quwāt ad-Difāʿ al-Watanī, “Forze di difesa nazionale”) e dell’asse russo-iraniano, resistenza ormai stremata e venuta meno tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre del 2024, hanno ritardato di circa un decennio l’avverarsi del sogno neo-ottomano. In ogni caso, la vittoria turca in Siria apre la strada ai progetti nel Levante arabo del governo di Ankara, che con l’aiuto del Qatar e delle fazioni alleate irachene come gli islamisti sunniti locali proverà a promuovere una sorta di “Comitato di Liberazione dell’Iraq” sul modello siriano.
L’”asse della resistenza”
Dal trionfo della Rivoluzione islamica iraniana, la dirigenza religiosa e politica di Teheran ha cercato di tessere una trama basata su relazioni privilegiate con gruppi paramilitari arabi. La necessità di questo approccio sui generis nacque dal fatto che le entità statali regionali non hanno mai visto di buon occhio l’esperienza khomeinista, tanto è vero che tutti i paesi arabi sostennero lo sforzo bellico iracheno contro gli iraniani tra il 1980 e il 1988. Tutti tranne uno: la Siria di Hafez Assad.
Per questo l’asse della resistenza iraniano (chiamato dai detrattori “mezzaluna sciita”, visto il prevalere della componente religiosa nell’alleanza tra Iran e gruppi politico-militari in Iraq e Libano) ha avuto, tra alti e bassi, un solo alleato strategico in Medio Oriente tra gli Stati nazionali. Con la fine dell’esperienza baathista a Damasco, il progetto regionale iraniano ha subito un duro colpo. Non solo la Siria è di fatto caduta in mano ai competitori regionali dell’Iran, ovvero sionisti e turchi, ma la linea che collegava Teheran agli Hezbollah libanesi e passava da Baghdad e Damasco, si è interrotta. Senza questo asse è vero che i rifornimenti alla resistenza islamica del Libano non verranno interrotti (le vie del Signore sono infinite…), ma di certo saranno più problematici.
Iraq: prossima tappa dello scontro regionale nel Levante arabo dopo la Siria
Chiuso al momento il dossier siriano a danno dell’Iran e a favore di Ankara e soprattutto di Tel Aviv – a dimostrazione di come la Siria di Assad fosse letteralmente un katechon antisionista – la contesa si sposterà probabilmente in Iraq. Prima di fare il punto della situazione irachena però vorrei fare una breve riflessione sulla Siria.
Il grande vincitore della caduta di Assad al momento è, come detto, Israele. Tralasciando le prese di posizione ufficiali, la libertà di manovra sionista in Siria è una cosa mai vista in precedenza. È vero che Assad non reagiva agli attacchi israeliani, ma lasciando fare agli iraniani sul proprio territorio in funzione del sostegno a Hezbollah, era come se i siriani reagissero a loro modo ai bombardamenti e ai sabotaggi sionisti. Non a caso, con l’inizio delle operazioni di terra di Israele nel sud del Libano alla fine del settembre scorso, la prima cosa che ha fatto Tzahal è stato quello di bombardare le strade che collegano la Siria al Libano, con l’obiettivo di interrompere il flusso di armi.
Certo, nulla giustifica la non reazione assadista agli attacchi sionisti degli ultimi mesi, visto che ogni paese sovrano ha il diritto e il dovere di difendersi da un attacco straniero; ma non si può paragonare l’immobilismo formale di Assad nei confronti di Israele con l’immobilismo formale e sostanziale di Al-Jolani nei confronti di bombardamenti mai visti prima da parte dei sionisti dopo la caduta di Assad in Siria (alcuni parlano dell’utilizzo di armi atomiche tattiche che hanno causato terremoti) e soprattutto nei confronti dell’avanzata via terra di Tzahal a poche decine di chilometri da Damasco. Israele vuole eliminare ciò che resta del potenziale militare della Siria, con l’obiettivo di facilitare lo smembramento del paese. Vicenda che faciliterebbe la creazione di zone autonome alleate di Israele in giro per la regione.
Per la Turchia la situazione è diversa. Il problema dell’indipendentismo curdo, caldeggiato da Tel Aviv e osteggiato da Ankara, farà si che ben presto le contraddizioni siriane si riverseranno sui turchi, creando una seria competizione tra l’espansionismo sionista e quello turco. Lo scenario più probabile è proprio questo per il futuro della Siria: una guerra interna all’ex fronte anti-Assad che comprende vari gruppi islamisti, i drusi, i curdi, senza dimenticare gli alawiti della costa. In un contesto di guerra civile permanente e senza un governo centrale forte, il paragone che mi viene in mente è con il Libano tra gli anni ’70 e ’80. Milizie che si combattono su linee ideologiche, etniche e religiose, senza vincitori né vinti, con pesanti ingerenze straniere e alleanze che cambiano ogni giorno. E questo è lo scenario migliore per gli iraniani per tentare il ritorno in Siria.
È chiaro che tale situazione non avrà più l’aspetto di un’alleanza con un governo centrale forte, ma servirà a dimostrare che l’asse della resistenza è ancora vivo e vegeto, nonostante la sconfitta di Assad e l’indebolimento di Hezbollah.
Passando all’Iraq, nel breve vediamo tentativi di indebolire il ruolo iraniano a vantaggio della Turchia con la diplomazia, esattamente come è stato fatto con Assad. Ad oggi il governo ufficiale di Baghdad sta valutando, su pressione USA, lo scioglimento delle milizie filoiraniane. Se non dovesse andare in porto questa opzione, così come non ebbe succcesso la richiesta di cacciare gli iraniani dalla Siria che venne fatta ad Assad, allora è probabile una nuova ondata di attacchi contro i gruppi vicini a Teheran nel sud dell’Iraq; operazione, questa, portata avanti da fazioni ideologicamente affini alla banda di Al-Jolani. In fin dei conti quest’ultimo ha combattutto nell’internazionale jihadista che nello scorso ventennio ha gettato nel caos il Medio Oriente e non è da escludere l’esistenza di una rete tra Siria e Iraq sul modello dell’ISIS, con cellule dormienti pronte a entrare in azione sotto la tutela dei servizi turchi o israeliani.
In conclusione, i tre progetti continueranno a fronteggiarsi in Siria e Iraq con alleanze tattiche modificabili a seconda delle opportunità. In un contesto possiamo vedere – in funzione anti-Assad e anti-Iran – turchi e israeliani uniti, ma in altri contesti la situazione potrebbe cambiare. Ad esempio, il rapporto dei curdi in Siria e Iraq con i tre protagonisti della scena nel Levante arabo è molto difficile da decifrare. Sia israeliani, sia turchi, sia iraniani hanno potenziali amici e nemici tra i curdi. Ad esempio, se è vero che i curdi siriani e iracheni sono in contatto coi sionisti, anche l’Iran ha una buona influenza, soprattutto tra i curdi iracheni; e non è detto che in funzione antiturca questa collaborazione a fasi alterne non possa essere estesa all’est dell’Eufrate, in Siria, zona che gli iraniani conoscono bene per via della guerra all’ISIS nelle regioni limitrofe.
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