Senza scendere nel dibattito tecnico riguardo a sistemi d’arma ancora in fase preliminare rispetto a quella progettuale e di pura concettualizzazione, ci concentriamo sulla dimensione politica di un tema di scottante attualità per il futuro della nostra industria della difesa, per la nostra sicurezza e per lo stesso collocamento strategico dell’Italia: quale sarà, se vi sarà, la partecipazione italiana ai futuri programmi di aerei da combattimento in Europa? 

Lo stato dell’arte della tecnologia e della dottrina militare

Nel campo degli studi strategici contemporanei non si parla più di “armi”. Il livello di complessità tecnologica dei medesimi porta gli analisti a parlare di “sistemi d’arma”, artefatti tecnologici che riuniscono componenti meccaniche, elettroniche, cibernetiche e – in futuro – robotiche[1]. Gli aerei da combattimento sono l’incarnazione plastica di questo nuovo livello tecnologico. Gli aerei della cosiddetta “quarta generazione” (come il MiG-29 russo o l’F-16 statunitense) erano sostanzialmente delle macchine da guerra meccaniche atte al volo con una componente elettronica via via più sofisticata a seconda dei modelli (dal sistema di trasmissione di comandi tramite apparati idraulici o meccanici sino all’introduzione del sistema “volo mediante cavi” proprio per l’F-16, non presente nel MiG-29 ed oggi superato dal sistema “volo mediante luce” basato su fibre ottiche). I nuovi aerei di quinta generazione sono frutto di un salto tecnologico che li separa nettamente dalle quattro generazioni precedenti basate su meccanica e poi elettronica: sono sistemi schermati e invisibili ai radar, digitalizzati, dotati di computer, sensori e apparati di comunicazione altamente sofisticati che li collegano ai centri di comando a terra e alle truppe in posizione avanzata nonché agli altri aerei, in futuro ai droni (con i quali possono scambiarsi informazioni e ai quali il pilota può dare ordini) e ovviamente già oggi con le stesse armi intelligenti delle quali questi velivoli sono dotati.

L’esempio principe è l’F-35, denominato per l’appunto “piattaforma tattica”, cioè un cacciabombardiere dotato di sensori e sistemi informatici che permettono un’analisi completa del teatro di operazioni: più che un semplice aereo, il nodo avanzato di una rete informatica. Non solo l’F-35 è un aereo progettato per essere invisibile ai sensori nemici e dotato di armi per colpire “da oltre l’orizzonte”: è il frutto di un nuovo modo di concepire le operazioni militari come “unicum” interforze che integri il dominio della superficie, dell’aria e dello spazio informatico, in ossequio alla dottrina militare statunitense delle “operazioni multi-dominio”[2]. “Tattica” in quanto finalizzato al controllo di tutti i sopramenzionati ambienti tattici; “piattaforma” in quanto non arma singola, ma sistema d’arma perno delle armi vere e proprie che trasporta, dagli ordigni guidati sino al proprio computer e ai propri sensori[3].

Il futuro dell’aviazione è in una sesta generazioni di aeroplani, sicuramente in grado di operare sia con pilota a bordo che a pilotaggio remoto e potenzialmente in completa automazione, ad alte caratteristiche di invisibilità e di potenza di calcolo e con capacità di coordinare dei droni e di colpire con armi ad energia diretta; tra la quinta generazione e la sesta ci aspettiamo potenzialmente dei modelli intermedi[4].

Queste scelte dottrinali valgono per gli Stati Uniti ed i loro alleati. La Cina sconta ancora pesantissimi ritardi di dottrina oltre che di tecnologia e quindi fa afferenza a tecnologie russe o americane (spesso sottratte)[5], la Russia, comunque più arretrata degli USA quanto a strumenti ottici, materiali compositi e materiali radar-assorbenti, pone l’accento sulla difesa del proprio sterminato territorio più che non su operazioni su scala mondiale e quindi predilige arerei che, pur con tutte le caratteristiche della “quinta generazione” come il Su-57[6], sacrifichino “l’invisibilità” alla manovrabilità. La dottrina di impiego dei sistemi d’arma ne influenza lo sviluppo sin dai primi passi: da qui la scelta americana dell’F-35, un cacciabombardiere universale e multidominio con finalità tattiche e da integrare con droni o singole categorie di aerei più anziani con compiti più specifici di superiorità aerea o sostegno ravvicinato.

Il lettore si domanderà come mai la scelta ricada automaticamente su sistemi d’arma complessi e costosi, il cui sviluppo si trascini per anni quando non per decenni tra lentezze, inefficienze e costi fuori controllo – ancora, il caso dell’F-35 è lampante ma anche il programma russo Su-57 non ha certo brillato per immediatezza e assenza inciampi (si noti che entrambi i programmi non possono dirsi davvero conclusi: l’F-35 continua ad avere problemi strutturali[7], il Su-57 vola ancora con motori provvisori). La risposta è molteplice e non risiede solo nell’interesse dei produttori a gonfiare i costi e a proporre ai propri clienti i programmi più lunghi possibili (interesse pure difficile da negare) ma anche nell’esigenza di tutti i giocatori sulla scacchiera mondiale a schierare strumenti bellici non solo allo stato dell’arte ma che definiscano il concetto di avanguardia tecnologica e la cornice operativa, costringendo gli avversari a rincorrerla e a sostenerne i costi. Che l’architettura progettuale sia quella dell’F-35 (concentrare subito il massimo della tecnologia in una sola piattaforma a scapito dell’affidabilità) o del Su-57 (prendersi più tempo per progettare, sviluppare e provare il sistema, accontentandosi di tempi più lunghi in vista di una maggiore robustezza), poco o nulla cambia, poiché si tratta non di raggiungere ma di definire frontiere tecnologiche cui gli avversari non potranno sottrarsi. Tutto ciò ovviamente comporta costi monetari e temporali immani, in una riedizione delle corse agli armamenti del passato già analizzate dagli studiosi di strategia militare e teoria dei giochi. Simili sistemi possono comunque essere prodotti su scala limitata proprio per ragioni di spesa (si pensi all’ F-22 statunitense, la cui linea di produzione è stata chiusa) e saranno sempre affiancati ai meno costosi e più affidabili velivoli della quarta generazione.

Le collaborazioni

Simili complessità tecnologiche, con i conseguenti livelli di spesa, pongono fuori discussione la possibilità che singole nazioni possano – come in passato – provvedere da sole (per competenze, conoscenze, capacità industriali e costi) a sostenere programmi di armamento completi ed autonomi. Ad oggi gli Stati dotati di industrie aeronautiche moderne e in grado di produrre velivoli – militari o civili – innovativi e avanzati sono, partendo da ovest, Canada, Stati Uniti, Brasile, Inghilterra, Svezia, Spagna, Francia, Germania, Italia, Russia, Giappone e Cina (quest’ultima non senza difficoltà), mentre Sudafrica, Austria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Serbia, Turchia, Israele, Iran, India, Pakistan e Corea dispongono di industrie aeronautiche assai meno avanzate ma comunque in grado di sviluppare, produrre o assemblare componenti o ancora di produrre velivoli meno sofisticati (da quasi completi fallimenti quale l’aeroplano indiano Tejas ai buoni addestratori cechi). A questi Paesi possiamo aggiungerne pochi altri che dispongono della mera capacità di ricevere tecnologia altrui e assemblarla, quanto meno nel campo dei droni, o ancora di occuparsi della sola manutenzione.

Detto ciò, è fondamentale chiarire che i Paesi in grado di produrre motori a reazione moderni, resistenti, energeticamente efficienti e della potenza necessaria per spingere aerei da combattimento – in poche parole la parte più complessa del velivolo – sono soltanto Stati Uniti, Inghilterra e Francia, con la Russia a seguire a minimo distacco e l’Italia con la presenza di capacità produttive e competenze avanzate sul proprio territorio nazionale; le aziende di questi cinque Paesi produttrici di motori a reazione militari si contano sulle dita delle mani. La Cina non può essere iscritta a questo ristretto circolo: non è ancora in grado di produrre motori militari a reazione di livello accettabile[8].

Perciò non solo i Paesi hanno necessità di associarsi, ma anche le aziende stesse, sia per condividere costi, competenze e capacità industriali in chiave sinergica, sia per assecondare una tendenza storica del capitalismo avanzato già individuata dalla letteratura marxista – la creazione di grandi monopoli a tutela del profitto, tendenza comune a tutti i settori tecnologici ed industriali a partire da quello automobilistico (guarda caso un altro settore ad alti costi industriali e ad alta necessità di investimenti tecnologici). L’alta tecnologia da sola non è in grado di produrre profitti senza un adeguato modello di affari e un’adeguata organizzazione aziendale e della produzione (rivincita dell’economia classica sui cantori del progresso tecnologico “valido di per sé”). Il settore della difesa e dell’aerospazio è stato tra i più interessati, negli ultimi trent’anni, da fusioni, acquisizioni e accorpamenti che hanno creato dei veri e propri colossi[9].

L’F-35 è ancora una volta esempio di tutte queste dinamiche, in quanto frutto di una collaborazione di ricerca e sviluppo, produzione di componenti, assemblaggio e manutenzione tra Stati Uniti – con l’azienda Lockheed Martin a capo della commessa – e una serie di Paesi (tra cui l’Italia, nelle fasi di assemblaggio, manutenzione e produzione di alcuni componenti) che partecipano al progetto nelle sue parti a più basso contenuto tecnologico. Quest’ultimo aspetto è fondamentale per introdurci alla dimensione politica e strategica del nostro tema.

Dal livello militare ed economico a quello politico

La Russia ha offerto la partecipazione allo  sviluppo del Su-57 alla Cina, alla Corea e quindi all’India, la quale ha percorso un pezzo di strada insieme allo storico collaboratore in fatto di difesa per ritirarsi dal progetto una volta che i costi si rivelavano non più sostenibili. Corea e Turchia hanno più volte, separatamente, cercato soci per propri progetti domestici, tutti rimasti sul piano teorico o alla fase di studio. La Turchia attualmente rischia di subire da parte americana l’esclusione dal programma F-35 come ritorsione per l’acquisto del sistema antiaereo russo S-400.

Se per Paesi ed aziende la necessità di consorziarsi non è in discussione, la scelta dei soci è eminentemente politica. La Russia si è rivolta a Paesi amici o comunque non ostili. La Cina prova a fare da sola, ma acquistando tecnologie russe o sottraendo tecnologie russe e americane, e comunque con risultati limitati. L’America si rivolge ai paesi satelliti, riservando loro le parti meno tecnologicamente interessanti dei propri progetti per mantenerli in uno stato di dipendenza. Da qui l’evidente riflesso politico e geopolitico che spinge i paesi europei ad una collaborazione.

In passato, la cooperazione tra Europei ha prodotto risultati tecnologici di assoluto successo nei programmi Tornado e Typhoon, dai quali la Francia si autoescluse per miopia sciovinistica, preferendo sostenere progetti esclusivi. Se con aerei meno sofisticati e in fasi tecnologiche ora conclusesi era ancora possibile agire come singolo sistema-paese (ma già gli ultimi tre prodotti “solitari” dell’industria europea, il francese Rafale, lo svedese Gripen e l’addestratore italiano M-346 lottano costantemente per la ricerca di acquirenti stranieri) per i progetti di quinta e sesta generazione, lo ripetiamo, ciò è impossibile.

Sulla partita dell’aereo che succederà all’F-35, facendo da ponte tra la quinta e sesta generazione o addirittura appartenendo già alla sesta, si stanno schierando giocatori che sembrano ricalcare l’asse europeista e quello filoamericano (autodefinitosi “sovranista”): da una parte un potenziale progetto francese e tedesco che vuole coinvolgere la Spagna[10], dall’altro il progetto britannico Tempest, in cui ha un piede l’Italia – tramite le aziende e le filiali britanniche del gruppo Leonardo – e al quale sembra volersi associare un paese, la Svezia, legato da saldi legami militari alla Gran Bretagna; un progetto al quale il Regno Unito potrebbe associare partecipazioni statunitensi.

L’Italia, che ai tempi della prima Repubblica era vicina ai progetti europei, stavolta sembra più vicina a quello anglosassone, pur non sciogliendo le riserve e rischiando così di sedersi per l’ennesima volta a tavole sulle quali altri hanno già fatto le parti riservandosi i migliori bocconi.

Si ripropongono due costanti della politica estera del nostro paese: la contraddizione tra la tendenza filoanglosassone e quella filocontinentale, e la scelta di non scegliere per rinviare indefinitamente l’esplosione di tale contraddizione, salvo poi dare la colpa a complotti stranieri contro l’Italia.

La partita del futuro aereo europeo è appena cominciata, ma il mondo non ci aspetterà. Dopo esserci “patriotticamente” compiaciuti del ruolo semplicemente ancillare riservatoci nel programma americano F-35, rimanendo tagliati fuori da entrambi i programmi che nasceranno sul continente rischiamo di assestare un duro colpo alla nostra industria aeronautica. Il governo decida da che parte stare: come insegna il caso dell’industria automobilistica (fusione Fiat – Chrysler ed oggi FCA – Renault), in politica il silenzio non è mai d’oro, ma di marmorea pietra tombale[11] per gli interessi nazionali.


NOTE

[1] Tanator Tenabaun, I Nuovi Armamenti, www.eurasia-rivista.com, 4 Settembre 2018

[2] Comando Addestramento e Dottrina dell’Esercito Americano, TRADOC Pamphlet 525-3-1: The US Army multi-domain operations, 6 Dicembre 2018. Senza una dottrina d’uso coerente anche gli armamenti più sofisticati sono inutili.

[3] Amedeo Maddaluno, F-35: proviamo a fare chiarezza?, www.aldogiannuli.it, 29 Settembre 2016

[4] Al di là dei toni sensazionalistici della stampa, la sesta generazione è in fase puramente concettuale, si veda Franco Iacch, Le specifiche del caccia di sesta generazione che volerà nel 2040, www.difesaonline.it, 12 Gennaio 2015 e dello stesso autore Difesa usa: svelato il disegno del caccia di sesta generazione secondo Northrop Grumman, www.difesaonline.it 15 Gennaio 2015

[5] Andrea Gilli e Mauro Gilli, Why China Has Not Caught Up Yet Military-Technological Superiority and the Limits of Imitation, Reverse Engineering, and Cyber Espionage, International Security – The MIT Press Journals, Volume 43, n. 3, p. 141.

[6] Michael Kofman, Russia’s Su-57 fighter program – it’s worth following, https://russianmilitaryanalysis.wordpress.com, 27 Maggio 2019

[7] Chiara Rossi, F-35, tutti i problemi tecnici rilevati dal Pentagono e spiattellati da Defense News, www.startmag.it 14 Giugno 2019

[8] Qin Chen, Viola Zhou, Inkstone answers: why China can’t build a good jet engine and more, www.inkstonenews.com, 21 Marzo 2019

[9] Si veda ad esempio Chiara Rossi, Utc e Raytheon si uniscono per competere con Boeing e Airbus ma Trump sbuffa, www.startmag.it, 11 Giugno 2019. Per uno sguardo completo su vent’anni circa di fusioni e acquisizioni dal 1980 al 2000 negli Stati Uniti si veda Javier Irastorza Mediavilla, EADS and BAE Systems merger talks, https://theblogbyjavier.com 16 Settembre 2012

[10] Alessandro Marrone, Michele Nones, Fcas Caccia: l’Italia tra Londra e l’asse franco-tedesco, www.affarinternazionali.it, 20 Marzo 2019, e relativo articolo scientifico Il futuro velivolo da combattimento e l’Europa: Executive Summary, scaricabile da www.iai.it

[11] Chiara Rossi, Leonardo-Finmeccanica, tutti i costi dell’indecisione del governo sul caccia di sesta generazione, www.startmag.it , 8 Aprile 2019


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.