C’è un libro, edito nel 2006 da Einaudi, che merita senz’altro di essere letto perché offre al lettore che avrà la costanza di avventurarsi per le sue circa 900 pagine la possibilità di allargare notevolmente i suoi orizzonti culturali, aiutandolo a comprendere che il “mondo dell’Islam” è una realtà ancor più complessa di quanto possa immaginare. Mi riferisco alla Rihla (lett. “periplo”, “viaggio”) del marocchino Abu ‘Abdallàh Muhàmmad al-Lawàti at-Tàngi, meglio noto come Ibn Battùta, che dal 1325 al 1354 intraprese una serie di viaggi che lo portarono a conoscere l’intero ecumene islamico dell’epoca.
Una prima premessa è necessaria. La Rihla è un genere letterario piuttosto diffuso nel mondo islamico “medievale” (le virgolette son d’obbligo), ed esempi noti son quelli di Ibn Giubàyr (di cui è celebre il viaggio nella Sicilia normanna) e di Ibn Hàwqal, che nel 977 pubblicò Sùrat al-Ard (“Immagine della Terra”). Si tratta di relazioni che per certi versi si presentano come opere geografiche, ma che tuttavia, com’è tipico di una cultura non ancora specializzatasi in senso moderno, contengono informazioni che oggi definiamo “interdisciplinari” (etnografia, antropologia, botanica ecc.). La redazione di questi libri era incoraggiata da figure di sultani o emiri-mecenati, come fu appunto il caso del Merinide Abu ‘Inàn (i Banu Marìn – da cui il nome “merinos” di una qualità di lana – erano al loro apice), che al termine del lungo girovagare di Ibn Battùta gli affiancò il letterato Ibn Juzàyy, in una sorta di versione islamica del rapporto intercorso tra Rustichello da Pisa e Marco Polo. Tuttavia, Marco Polo e Ibn Battùta differiscono per diversi aspetti: entrambi beneficiarono senz’altro della “Pax Mongolica” che rese piuttosto sicure le vie d’Eurasia, però il primo era un mercante, mentre il secondo era un giurista. Il primo aveva delle ‘credenziali diplomatiche’, il secondo, partito nel 1325 da Tangeri per effettuare il pellegrinaggio (hajj) a Mecca non fece più ritorno a casa se non quasi trent’anni dopo… Ecco che i suoi Viaggi (è questo il titolo scelto dalla curatrice della prima versione italiana, Claudia Maria Tresso, docente di Lingua araba presso l’Univ. di Torino) non sono delle spedizioni periodiche più o meno protratte nel tempo a partire dal suo Paese per poi farvi ritorno (in questo caso non si parlerebbe di rihla, ma di sàfar, da cui “safari”), ma un “percorso di vita” vero e proprio che lo porterà a vivere in tutta la cosiddetta Dàr al-Islàm (“la Dimora dell’Islam”), dal Marocco al Sud-est asiatico.

I primi Paesi di rilievo che Ibn Battùta incontra dopo la partenza da Tangeri sono l’Egitto e la Siria. Il Cairo e Damasco all’epoca sono rette dai sultani mamelucchi, una casta di schiavi militari turchi e caucasici che aveva rovesciato gli Ayyubidi (la dinastia del “Saladino”) intorno alla metà del XIII secolo e che aveva fermato l’ondata mongola che nel 1258 aveva spazzato via l’ultimo califfo ‘abbaside di Baghdad. In seguito, sempre i Mamelucchi (mamlùk significa appunto “posseduto”, “possesso di”) avevano eliminato l’ultimo avamposto crociato a San Giovanni d’Acri, nel 1291, ed il loro prestigio derivava anche dal controllo dei luoghi santi di Mecca e Medina (quest’ultima è sede della tomba del Profeta Muhammad). Il mondo islamico, dunque, all’epoca in cui Ibn Battùta ne percorre le sterminate terre, vive una fase interlocutoria, tra la tempesta gengiskhanide (che il Nostro non manca di maledire!) e l’ascesa dei turchi Ottomani, ancora attestati nell’estremo occidente anatolico, con capitale Bursa. Per completare il quadro storico, ricordiamo che nel Màghreb (l’“Occidente” islamico) cominciava a delinearsi quella tripartizione in Marocco (i Merìnidi di Fès), Algeria (varie dinastie meno famose) e Tunisia (gli Hàfsidi di Tunisi) che oggi ci è familiare.
Ma torniamo ad Ibn Battùta. È importante sottolineare che egli era un giurista, un esperto di quella “Legge” che nell’Islam è fondamentale, tant’è che più importante dell’“ortodossia” è l’“ortoprassi” (anche se il testo aiuta a capire che l’eterodossia vien sanzionata nel momento in cui desta pubblico “scandalo”: è il caso delle condanne per aver bestemmiato sul Profeta). Ibn Battùta, prima di recarsi a Mecca visita eminenti dotti del suo tempo, i cosiddetti ‘ulamà’ (gli “ulèma”), dai quali attingere “scienza e virtù”. Al Cairo e Damasco (la Rihla si dilunga molto in lodi a quest’ultima città, importante anche per ragioni escatologiche), ma anche a Gerusalemme, Betlemme, al-Khalìl (Hebron), Aleppo ed altre città del Vicino Oriente (Màsrehq) musulmano, Ibn Battùta visita anche le tombe dei santi, per attingerne la bàraka, le “influenze spirituali”, e cerca – come farà per tutta la vita – il contatto con gli “uomini straordinari” del suo tempo, ovvero i sufi, gli appartenenti agli Ordini iniziatici che ‘provvidenzialmente’ si erano costituiti per salvare il nocciolo dell’Islam da un’involuzione già evidenziatasi in epoca ‘abbàside ed aggravatasi con le ondate di popoli non islamici quali i Mongoli. Si capisce perciò che il “viaggio” islamicamente inteso non è un’occasione di svago, bensì di formazione di sé in senso spirituale. Ci si sposta certamente anche per motivi commerciali (l’Islam è una civiltà che dà grande importanza al commercio), ma il viaggio per antonomasia è quello alla “ricerca del sapere”, “anche se fosse in Cina”, come esorta un celebre hadìth (“tradizione profetica autentica”). Per approfondire questo particolare aspetto della biografia di Ibn Battùta, il lettore può cercare il saggio di P. Manduchi, Da Tangeri alla Mecca passando per la Cina. Per una storia del viaggio nel mondo musulmano sulle orme di Ibn Battuta (Cuec, Cagliari 2000).
Naturalmente, ad un giurista marocchino (e perciò “arabo”) si aprivano allettanti possibilità di “far carriera” nelle terre periferiche rispetto al “centro” dell’Islam, dove sovrani non arabi, oltre che sete di notizie sulle altre regioni del mondo islamico, avevano un gran bisogno di persone competenti, specie nella sharì‘a, la Legge desunta in primis dal Corano e dalla Sunna (“esempio virtuoso del Profeta” tramandato dai suoi Compagni).
Ibn Battùta saprà sfruttare bene le occasioni che gli si presenteranno: alle Maldive (per le quali la Rihla rappresenta una fonte primaria d’informazioni di carattere storico) egli diventerà Gran qàdi, ovvero Giudice supremo. Qui, l’indole del Nostro, piuttosto incline al rigorismo (sunnita, seguiva la scuola giuridica malikìta), vien messa a dura prova, posta di fronte agli usi e ai costumi di una società che aveva sì abbracciato l’Islam ma che aveva conservato un sostrato culturale autoctono: si pensi all’abbigliamento delle donne locali (Ibn Battùta sposò – come altrove – una donna locale dalla quale ebbe dei figli), che se ne andavano in giro coi seni scoperti! Il Nostro si rivela inflessibile anche nei rapporti con gli sciiti (“rafidìti”, nel testo), verso gli ebrei e, talvolta, verso i cristiani, profondamente rispettati però nelle loro forme di ascesi contemplativa. Ibn Battùta, infatti, in una delle rare sortite al di fuori del Dàr al-Islàm (la civiltà islamica è “autocentrata”, cioè ‘basta a se stessa’), si recò a Costantinopoli per accompagnare la moglie bizantina di un khan (“signore”) turco (che tra l’altro, una volta a casa, non ne volle più sapere di tornare indietro dal marito!), e qui ebbe un incontro con l’ex Imperatore bizantino, fattosi monaco. Quel che va ad ogni buon conto sottolineato è che l’Islam non accetta l’ascetismo ad oltranza, autolesionistico, ma incoraggia un “ascetismo della vita quotidiana”, supportato dalla pratica dei cinque Pilastri (tra cui la preghiera, cinque volte al dì) e, per molte più persone di quanto si pensi qua, ancor oggi, dall’affiliazione ad un Ordine sufi che comporta la pratica di un metodo spirituale sotto la supervisione di un maestro (shaykh). Ibn Battùta, non a caso, più volte ‘sparisce’, ritiratosi al servizio di uno di questi maestri. Ma dopo un po’, lo spirito avventuristico e la “voglia di nuovo” riprendono il sopravvento, così il giurista marocchino riparte verso una nuova mèta: ecco che lo troviamo presso l’Ilkhanato di Persia, ad Aden e nell’Oman (dove racconta di greggi di ovini nutriti esclusivamente col pesce!), a Mogadiscio (qua, di nuovo, la sua relazione è fonte preziosissima di notizie storiche), in India, al servizio del sultano di Delhi (che abbandonerà rocambolescamente perché non ne sopportava più gli abusi di potere: anche il sultano dev’essere sottoposto alla sharì‘a!), in Asia Centrale, presso i vari khanati eredi della frantumazione dell’Impero mongolo, ai limiti di quelle terre abitate da russi e varèghi coi quali i musulmani commerciavano da secoli; Ibn Battùta si spinge addirittura fino in Cina, anche se alcuni autori (ad es. R. E. Dunn ne Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta, edito più volte da Garzanti) mettono in dubbio che vi si sia recato, o forse egli fece tappa nella sola Canton, dove da secoli esisteva una comunità di mercanti musulmani (all’epoca la Cina era retta dai mongoli Yuan, religiosamente molto “tolleranti”).
La stesura di un’edizione critica della Rihla di Ibn Battùta pone naturalmente di fronte a problemi di valutazione circa le informazioni fornite dall’autore, soprattutto per quanto riguarda la datazione dei suoi spostamenti, la loro sequenza e l’effettiva veridicità di alcune località che egli asserisce d’aver visitato. Appoggiandosi ad opere classiche di riferimento – quali la Encyclopaedia of Islam – e alle precedenti versioni integrali della Rihla (ricordiamo quella inglese di H.A.R. Gibb e quella francese di Defremery e Sanguinetti,che furono i primi, all’epoca dell’occupazione dell’Algeria, a ‘resuscitare’ questo capolavoro), la curatrice del volume si è trovata perciò a svolgere un confronto con i dati certi forniti nel testo originale (ad esempio i riferimenti a fatti noti di cui lo stesso Ibn Battùta fu testimone oculare), le notizie sulle distanze percorribili all’epoca, il calendario islamico di quegli anni (è noto che l’Islam segue un calendario lunare) e le datazioni riportate dall’autore, il quale, va riconosciuto, riuscì a dettare ad Ibn Juzàyy una mole impressionante di nomi, fatti e situazioni tutti conservati in una memoria ferrea allenata dall’abitudine a tenere a mente l’intero Corano (e non solo) e a non far affidamento alle ‘note di viaggio’, andate regolarmente perdute a causa dei naufragi e dei brutti incontri che talvolta capitarono al protagonista di queste avventure.
Eppure, ogni volta Ibn Battùta, certo aiutato dal suo rango, trovava il modo di ricominciare, grazie alla generosità degli emiri e dei sultani che facevano a gara nell’elargire doni, simbolo del loro potere, ma anche della loro ospitalità. Il dono, in tutto il libro, spicca come un elemento in grado di mettere in moto tutta un’economia, tant’è che lo stesso Ibn Battùta donava a sua volta parte dei doni ricevuti. Un’economia quindi che non si regge sul dato meramente quantitativo, materiale, ma che è in grado di suscitare slanci di generosità volti a “purificare” se stessi e le proprie ricchezze, come a dire che di veramente “nostro” non c’è nulla a questo mondo. Inoltre, i sovrani tenevano a che la loro fama di munificenza raggiungesse le altre corti, con le quali capitava che fossero in conflitto, ed è divertente notare come il giurista di Tangeri deprecasse i sovrani neri dell’ansa del Niger, estremamente parchi di doni, quando rese loro visita nell’ultima spedizione per conto del suo sovrano di Fes, che già, dopo il rientro in Marocco, l’aveva inviato in al-Andalus (o meglio in quel che ne restava dopo il rovescio subito nel 1212 a Las Navas de Tolosa dagli Almohadi).
Ancor più inconsueti, rispetto ad una mentalità moderna, sono gli incontri, o meglio, i re-incontri con persone conosciute a migliaia di chilometri di distanza, la familiarità con la morte dimostrata in svariate occasioni (una sarà proprio nell’ultimo viaggio, al di là del Sahara), i “miracoli” di asceti raccontati in un modo di fronte al quale si vien portati a credervi. Un mondo, quello di Ibn Battùta, capace di coinvolgerci non solo nello spirito di un giudice musulmano del XIV secolo, ma in quello di un’intera civiltà per la quale i limiti tra “sacro” e “profano” non esistono affatto, per non dire che tale dicotomia è addirittura inservibile per comprenderlo.
Finalmente, dopo l’antologia del Gabrieli uscita anni or sono, questa versione integrale corredata di un ricco apparato di note (tra cui spiccano quelle concernenti i termini italiani d’origine araba), un glossario delle parole arabe, una bibliografia e un necessario apparato cartografico, rende noto anche al pubblico italiano un personaggio che appartiene di diritto alla storia mondiale e per il quale è riduttivo e fuorviante l’appellativo (datogli nel sottotitolo dello studio di Dunn) di “Marco Polo arabo”.

Fonte originale: “Rinascita”, 7 ottobre 2007, http://www.rinascita.info/cc/RQ_Cultura/EEAEluykVALYaemOxk.shtml


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Enrico Galoppini scrive su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” dal 2005. È ricercatore del CeSEM – Centro Studi Eurasia-Mediterraneo. Diplomato in lingua araba a Tunisi e ad Amman, ha lavorato in Yemen ed ha insegnato Storia dei Paesi islamici in alcune università italiane (Torino ed Enna); attualmente insegna Lingua Araba a Torino. Ha pubblicato due libri per le Edizioni all’insegna del Veltro (Il Fascismo e l’Islam, Parma 2001 e Islamofobia, Parma 2008), nonché alcune prefazioni e centinaia di articoli su riviste e quotidiani, tra i quali “LiMes”, “Imperi”, “Levante”, “La Porta d'Oriente”, “Kervàn”, “Africana”, “Rinascita”. Si occupa prevalentemente di geopolitica e di Islam, sia dal punto di vista storico che religioso, ma anche di attualità e critica del costume. È ideatore e curatore del sito "Il Discrimine".