Che cosa è successo dopo che i riflettori sulle storie di cowboys e pellerossa si sono spenti? Quali sono oggi i rapporti tra le Nazioni Indiane e il governo degli Stati Uniti? Le comunità Native Americane sono rimaste intrappolate nella fitta rete di stereotipi e clichés che ha filtrato all’esterno la percezione della loro realtà. Nelle Riserve si sta consumando un dramma sociale che si è trascinato per tutto il Novecento e ancora oggi contribuisce a mantenere alti i tassi di povertà, violenza e criminalità. Intervista a John Bennett Herrington, membro della Nazione Chickasaw e primo astronauta nativo della Storia.
Che fine hanno fatto oggi gli Indiani d’America? Dove e come vivono? Qual è il loro rapporto con il governo degli Stati Uniti? Sono riusciti ad amalgamarsi definitivamente con la società statunitense? Far crollare il muro di stereotipi e pregiudizi che la storia e il cinema hanno edificato intorno alla cosiddetta epopea del West è il primo inevitabile passo da compiere per ristabilire la verità storica. L’opinione pubblica italiana, come probabilmente quella del resto del mondo al di fuori degli Stati Uniti, ha conosciuto le vicende degli Indiani d’America per lo più attraverso i filtri dell’industria cinematografica hollywoodiana e dei fumetti di Tex che hanno contribuito ad alimentare il mercato dei falsi miti con cui l’establishment degli Usa aveva deciso di giustificare all’esterno la questione indiana.
“La Storia altro non è che la propaganda dei vincitori” diceva la filosofa francese Simon Weil, ma ristabilire la verità storica non serve soltanto al riscatto morale delle popolazioni indigene vittime di usurpazione ed espropri ma anche e soprattutto alla costruzione delle giuste politiche di integrazione. La situazione di instabilità ed emarginazione che i Nativi Americani hanno dovuto affrontare da subito dopo l’arrivo dei primi esploratori britannici in Nord America stride con il melting pot che caratterizza oggi la società statunitense e con il suo ruolo chiave nel processo di globalizzazione.
Uno sguardo al passato
Nonostante le solite frizioni accademiche, gli studiosi sembrano concordi nel datare intorno al 15.000 a.C. le prime presenze umane in territorio nordamericano. Gruppi appartenenti al tipo fisico dell’Homo Sapiens Sapiens provenienti dall’Eurasia attraversarono l’antica regione della Beringia dando inizio a una storia millenaria complessa e per lo più sconosciuta. L’isolamento fisico dovuto alla separazione della placca eurasiatica da quella nordamericana ha garantito alle popolazioni indigene del Nord America un perfezionamento biologico e culturale che li ha resi geneticamente distinti dagli Eurasiatici, dagli Africani e dagli Australiani.
Com’è noto la decisione unilaterale dei navigatori rinascimentali di definire genericamente ‘Indiani’ gli indigeni che abitavano il Nuovo Mondo fu dovuta all’erronea convinzione di essere approdati in India. Che si trattasse degli Aztechi che dettero del filo da torcere a Cortés in Messico o dei Powhatan che accolsero i primi inglesi in Virginia non importava. Tutti selvaggi da evangelizzare, indifferentemente. L’ultimo censimento della popolazione nativa realizzato nel 2008 dall’Us Census Bureau ha invece riscontrato la presenza di 565 differenti tribù all’interno dei confini nazionali (Hawaii e Alaska comprese) ufficialmente riconosciute dal governo federale. Sono gruppi etnici organizzati nei modi più disparati, alcuni vivono all’interno delle Riserve altri invece hanno seguito i programmi di urbanizzazione promossi dagli Usa. Queste comunità, caratterizzate da una forte eterogeneità culturale, sono ancora oggi vittime delle definizioni che sono state loro attribuite dai primi coloni europei. Non dobbiamo infatti immaginare che tra gli Haida delle isole Queen Charlotte e gli Irochesi di New York esistano meno differenze di quante ne potremmo riscontrare tra italiani e russi. Per millenni, prima dell’arrivo degli Europei, la maggior parte delle tribù native (termine che in realtà si riferisce a una particolare forma di affiliazione politica ma a cui è stato attribuito un significato esteso che sembrerebbe potersi tradurre con il più generico ‘comunità’) non aveva mai intrecciato relazioni diplomatiche o commerciali con altri popoli indigeni. A distinguere le varie etnie non erano solo le tradizioni culturali ma anche i sistemi di linguaggio, le tecniche di sussistenza e le forme di religiosità. Le Nazioni Native, che sono gli organi di rappresentanza delle singole tribù, oggi riconoscono ufficialmente l’espressione ‘American Indian’ e durante il censimento del 2008 alcuni degli intervistati hanno espresso la preferenza di essere ‘classificati’ come Indiani d’America piuttosto che come Nativi Americani. Addirittura la più grande industria culturale degli Usa, la Smithsonian Institution, ha intitolato ‘National Museum of American Indian’ il più grande e suggestivo museo dedicato alla cultura Nativa.
Nonostante questa enorme eterogeneità culturale, per converso, il governo federale ha mantenuto un atteggiamento piuttosto omogeneo: il confino dei Nativi all’interno delle Riserve ha, infatti, interessato tutte le tribù senza nessuna eccezione. L’istituzione delle Riserve è stato il primo provvedimento concreto che il governo degli Stati Uniti intraprese per la gestione della questione Indiana. Nella sua formulazione originaria l’Indian Appropriations Act del 1851 stanziava dei fondi per incoraggiare lo spostamento dei Nativi delle regioni occidentali verso alcuni lembi di terreno che il governo federale metteva a loro disposizione. Secondo l’amministrazione di allora l’unico scopo del provvedimento era di proteggere le comunità Native dall’avanzamento dei bianchi nelle terre dell’Ovest alla ricerca dell’oro. Ma le ragioni che spinsero il governo in quella direzione erano in realtà diverse.
Da una parte si rendeva, infatti, necessario limitare l’accesso degli Indiani alle risorse naturali e alle materie prime e dall’altro la distribuzione sparpagliata delle Tribù impediva l’espansione territoriale dei Bianchi, in piena esplosione demografica. L’accettazione silente da parte dei Nativi nascondeva la convinzione che nonostante il sistema delle Riserve non permettesse la reale restaurazione dei loro stili di vita precedenti, avrebbe almeno garantito loro la piena sovranità su un territorio.
Approfittando della fame e della povertà che gli Indiani pativano nelle Riserve e della loro poca dimestichezza con le transazioni economiche, un successivo provvedimento legislativo permise alle Tribù, dal 1885 in poi, di vendere ai bianchi eventuali appezzamenti di terra inutilizzati. Ma il vero prodotto di questa strategia fu senza dubbio il Dawes Act del 1887 con il quale il governo intendeva trasformare le comunità tribali in società agricole cristianizzate. La legge prevedeva l’espropriazione della terra delle Riserve, il passaggio a un’economia agricola e la divisione delle terre in lotti individuali in modo da mettere in vendita ciò che sarebbe risultato come surplus. Il risultato fu il seguente: nel 1887 le terre a disposizione dei Nativi corrispondevano a circa 138 milioni di acri, scesi clamorosamente a 55 milioni nel 1934.
Il climax fu raggiunto nel 1924 con l’estensione ai Nativi della cittadinanza statunitense, il cui unico effetto fu la legittimazione della loro chiamata alle armi durante la II Guerra Mondiale. Ben 25mila uomini e 500 donne prestarono servizio presso l’esercito degli Stati Uniti. In alcuni casi questo avvenne attraverso un arruolamento volontario interpretato probabilmente come una via d’uscita dalla precarietà della vita nelle Riserve oppure come la ricerca di un appagamento militare in linea con l’apprezzamento del valore bellico diffuso tra molte etnie native. Da un punto di vista geostrategico è interessante ricordare il particolare ruolo che hanno rivestito durante il conflitto mondiale i soldati navajo, impiegati per la trasmissione di messaggi in codice attraverso l’uso della loro lingua nativa, indecifrabile a qualsiasi tipo di intercettazione. Lo shock culturale seguito al rientro nelle Riserve alla fine della Guerra insieme al crescente biculturalismo promosso dal governo federale hanno innescato un processo di emarginazione e insoddisfazione sociale arrivato fino ai giorni nostri.
Le riserve oggi
Le Riserve, a volte descritte come isolotti di povertà in contrasto con il progresso del resto del Paese e in altre come paradisi naturali sfuggiti allo sviluppo incontrollato del XX secolo, presentano un profilo geo economico sostanzialmente statico. La loro presenza è concentrata nelle regioni a ovest del fiume Mississippi. E proprio l’attuale rapporto tra le Riserve e gli Stati dell’Ovest è diventato oggetto di studio di alcuni economisti e giuristi, come Frank Pommersheim, secondo il quale la scarsità di risorse di queste regioni dovrebbe condurre a un dialogo più costruttivo di quello attuale. È ad esempio noto il rapporto di conflittualità che caratterizza le relazioni tra la Riserva di Black Hills e lo Stato che la ospita, il South Dakota. I problemi riguardano in particolare lo sfruttamento delle risorse idriche e la delimitazione dei confini della Riserva stessa. Un altro tema caldo nella difficile gestione dei rapporti Stato-Riserva è legato alla complicata regolamentazione dell’autorità giudiziaria sui non nativi residenti all’interno delle Riserve e delle loro relative proprietà. Oggi non è ancora del tutto chiaro a chi spetti il controllo del rispetto delle leggi in materia di tassazione, caccia e pesca da parte dei non indiani all’interno di una Riserva. L’assenza di una legislazione chiara che regoli i rapporti tra Stati e Riserve è dunque la causa dei frequenti attriti che caratterizzano i rapporti tra questi due Istituti. Il Congresso ha infatti concentrato la propria attenzione legislativa soprattutto sui rapporti tra le Nazioni e il governo federale.
La condizione economica dei Nativi che vivono nelle Riserve nordamericane è in molti casi tragicamente drammatica. Negli anni ’80 il reddito pro capite medio dei residenti delle otto più grandi Riserve del South Dakota oscillava tra i 2,166 e i 2,801 dollari, al di sotto della soglia della povertà che interessava una percentuale tra il 28,6 e il 54,9 dei residenti. I tassi di disoccupazione si attestavano invece al 71%. La situazione di oggi è leggermente migliorata ma i segnali continuano a essere negativi. Tra i Nativi residenti nelle Riserve, nel 2000, la disoccupazione riguardava ancora il 40% della popolazione. Una delle strade che alcune tribù hanno scelto di seguire per migliorare la propria condizione economica è quella della legalizzazione del gioco d’azzardo nelle Riserve. Il fenomeno ha raggiunto una tale visibilità e consistenza che negli Stati Uniti il binomio Indiano-casinò (con accezione negativa) è ormai quasi inevitabile. Molte tribù hanno investito nel prolifico settore del gioco d’azzardo con la speranza di trasformare le Riserve in poli di attrazione turistica per avere accesso a un facile guadagno. L’incompatibilità tra il background culturale dei Nativi e la speculazione sul gioco d’azzardo è al centro di accese polemiche. Tra le file degli Indiani più tradizionalisti sono sorti dei veri e propri comitati contrari ai casinò che hanno alimentato alcuni tristi episodi di censura e limitazione della libertà di stampa, dal momento che alcune delle più diffuse testate giornalistiche di matrice nativa sono di proprietà di tribù coinvolte nel business delle slot machines come nel caso di Indian Country Today. Questi dibattiti hanno peggiorato la percezione del resto della popolazione statunitense nei confronti delle comunità native, aggiungendo il gioco d’azzardo ai clichés che ruotano intorno all’immagine degli Indiani. Nel 2006 ha fatto per esempio discutere l’acquisizione della catena internazionale di alberghi, ristoranti e casinò Hard Rock Cafè da parte della Nazione Seminole della Florida.
Ma il dramma sociale che colpisce le Riserve non si limita soltanto all’aspetto economico. Il rapporto ‘National Crime Victimization Survey‘ del ministero della Giustizia ha fotografato, per il periodo 1992-2001, tassi di violenza e criminalità in ambito nativo particolarmente preoccupanti. Sono stati registrati 101 episodi di criminalità ogni 1000 abitanti, il doppio rispetto al dato sulla popolazione nera (50 per 1000), due volte e mezzo quello dei bianchi (41 per 1000) e quattro volte e mezzo quello relativo agli asiatici (22 per 1000). In sostanza, tra i Nativi viene commesso un crimine ogni 10 residenti. Dal 1885 con l’approvazione del Major Crimes Act spetta alle autorità federali perseguire quasi tutti i reati gravi commessi all’interno delle Riserve, compresi gli omicidi volontari e colposi, gli stupri, i tentati omicidi, gli incendi dolosi, i furti con scasso e gli incesti. Anche i Consigli Tribali possono giudicare i reati gravi ma l’applicazione delle loro sentenze è limitata. Prima dell’entrata in vigore del Tribal Law and Order Act, firmato dal presidente Obama nel luglio 2010, i tribunali nativi potevano condannare fino a un massimo di 12 mesi di reclusione. Ora possono estendere la pena anche fino a tre anni, a patto che agli imputati indigeni sia garantito un avvocato d’ufficio, cosa che molte Nazioni Indiane non possono permettersi. Per ottenere una giustizia pari a quella che viene garantita al resto della popolazione statunitense, i Nativi sono quindi costretti a rivolgersi alle autorità federali. Secondo il National Congress of American Indian l’88% delle violenze subite dalle donne indiane sono commesse da non nativi e l’attuale sistema giudiziario tribale non permette ai tribunali indiani di perseguirli. Uno studio del Government Accountability Office, il braccio investigativo del Congresso degli Usa, ha rilevato che circa il 50% degli uffici legali statunitensi tende a rifiutare le richieste di procedere contro reati che riguardino le Nazioni Indiane. E ben il 67% di questi rifiuti riguarda proprio reati di violenza e stupro nei confronti di donne native. In un recente editoriale apparso su Indian Country Today, Juana Majel Dixon, vice presidente del National Congress of American Indian e co fondatrice della task force della Casa Bianca contro la violenza sulle donne, ha espresso un sostanziale ottimismo nei confronti delle politiche messe in campo dall’amministrazione Obama per affrontare i temi caldi della questione indiana. Il Tribal Law and Order Act del 2010, infatti, ha stabilito delle linee guida molto precise. Viene auspicata una maggiore autonomia per i tribunali tribali ai quali sarà concesso di procedere nei confronti di non nativi che commettono reati contro i Nativi. Attraverso un canale di dialogo aperto tra il Dipartimento di Giustizia, i governi e le organizzazioni tribali e la Casa Bianca si cercherà anche di intervenire sul fronte della prevenzione. Saranno istituiti dei programmi di educazione e sensibilizzazione sulle tematiche della violenza e dell’abuso di droga e alcol.
L’intervista
John Herrington, classe 1958, è stato il primo nativo americano a varcare i confini della Terra partecipando ad un’importante missione spaziale della Nasa nel 2002. Membro della Nazione Chickasaw, dopo essersi laureato in matematica applicata alla University of Colorado di Colorado Springs è entrato come pilota nell’Us Navy. La sua esperienza rappresenta un segnale di possibile emancipazione per le giovani generazioni delle Riserve.
Come ha vissuto il fatto di essere stato il primo nativo ad avere partecipato a una missione spaziale della Nasa?
Come nativo americano mi sono sentito onorato di aver potuto rappresentare la mia famiglia e la mia Tribù in un programma spaziale. Il mio lavoro come astronauta non ha però nulla a che vedere con le mie origini native ma soltanto con la mia formazione di pilota e ingegnere. Ci sono stati astronauti afro americani, asiatici e sud americani e sono sicuro che nessuno di loro ha vissuto la propria esperienza come un segnale di redenzione o di giustificazione da parte del governo degli Stati Uniti. Sono grato che alcune persone mi vedano come un modello e spero che i miei successi incoraggino molti giovani a impegnarsi nello studio della matematica e delle scienze. Mi piacerebbe molto vedere un secondo e magari un terzo astronauta nativo.
Le statistiche raccontano una situazione sociale molto drammatica all’interno delle Riserve con tassi di criminalità e violenza molto elevati. Quali crede che siano le possibili cause?
Posso dire che mentre alcune comunità native condividono problemi sociali, gli alti tassi di criminalità e violenza non sono limitati all’esperienza delle Riserve e non tutte le Riserve ne sono afflitte. I Nativi hanno sperimentato disagi riguardanti l’occupazione, l’integrazione sociale e conflitti con il potere centrale fin dal 1700. Per molte tribù ci sono stati sensibili miglioramenti nella gestione delle economie tribali e dei servizi sociali ma ce ne sono molte altre che stanno ancora lavorando duramente per ottenerli.
Lei potrebbe rappresentare un esempio per le giovani generazioni che vivono all’interno delle Riserve. Crede che oggi sia possibile raggiungere una buona posizione nella società senza dover rinunciare al proprio background culturale?
Ritengo che chiunque desideri continuare a vivere rispettando le tradizioni della propria gente, senza riferimenti a una singola razza o alla propria appartenenza etnica, abbia bisogno di un gruppo o di una comunità che lo supporti. L’influenza dei miei nonni e dei miei genitori mi ha incoraggiato a realizzare i miei sogni. La mia tribù, la Nazione Chickasaw, continua tuttora a incoraggiarmi e assistermi nella realizzazione dei nostri comuni obiettivi in materia di educazione, stabilità economica e trasmissione della nostra cultura. Nessuno può fare tutto da solo, magari la gente nativa ne è un po’ più consapevole, del resto rappresentiamo soltanto l’1% della popolazione degli Usa.
Crede che il governo federale abbia cambiato atteggiamento ultimamente nei confronti delle politiche di integrazione? A Washington stanno facendo qualcosa per aiutare a risolvere il dramma sociale che colpisce le Riserve?
La maggior parte delle politiche di integrazione si è esaurita tra gli anni ’60 e ’70 quando la gente nativa, soprattutto i più giovani, era molto attiva politicamente. C’erano inoltre molti non nativi, tra avvocati e attivisti, che hanno aiutato a diffondere nel mondo la causa indiana. Da quei primi esperimenti di organizzazione, nuove aggregazioni si sono sviluppate e nuovi leaders sono emersi nelle comunità tribali. Nonostante tutti questi sforzi continua a essere molto complicato influenzare le politiche del governo, sostituire le amministrazioni e rimediare allo scarso interesse nei confronti della causa indiana. Ogni persona nel mondo può fare la sua parte, interessandosi alle culture delle altre comunità. Ritengo che le migliori opportunità per i Nativi provengano dalla forte cooperazione tra i governi tribali e le tribù stesse attraverso tutto il Paese. Una delle cose che ho capito grazie alle mie passeggiate spaziali, quando la Terra spuntava davanti ai miei occhi, è quanto ognuno di noi, preso singolarmente, sia insignificante. La nostra forza risiede nella nostra capacità di lavorare insieme per risolvere i problemi dell’umanità.
Grazie alla sua carriera professionale, ha avuto la possibilità di viaggiare e confrontare la sua esperienza di vita con quella di altre persone da altre parti del mondo. Com’è percepita la realtà nativa americana al di fuori degli Stati Uniti? I clichés sono ancora più forti della voglia di conoscere?
Mi sembra che il mondo manifesti in generale un interesse nei confronti dei Nativi Americani. Ricordiamoci che in fondo, una volta, appartenevamo tutti a qualche tribù. Tutti cacciavamo animali selvaggi, raccoglievamo cibo selvatico, e vivevamo in comunità imparentate tra loro. Oggi è possibile continuare a onorare le tradizioni dei nostri antenati mentre viaggiamo oltre i confini entro i quali loro hanno vissuto. Ogni comunità è vittima di clichè. Sta a ognuno di noi oltrepassare la paura dell’ignoto, di persone e luoghi sconosciuti e imparare a vivere insieme. È estremamente facile dimenticare che viviamo tutti nello stesso pianeta. Dallo spazio, invece, si palesa il contrario. Dobbiamo imparare a vivere armoniosamente gli uni con gli altri.
* Matteo Finotto è laureato in Antropologia Culturale e laureando in Geografia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’università “Sapienza” di Roma
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