Il blocco delle attività amministrative del governo, l’esito non esattamente esaltante della guerra commerciale con la Cina, una presunta crescita economica che inizia a mostrare segnali di debolezza ed il fallimento (tra propagandistici proclami di ritiro delle truppe) della propria strategia in Siria hanno portato l’amministrazione di Washington ad accelerare l’applicazione della dottrina Cebrowski nel “bacino caraibico”. Un “successo” in politica estera, in un momento così delicato, è infatti fondamentale per lanciare la campagna per la rielezione di Donald J. Trump nel 2020.
Quando nel gennaio 2017 Donald J. Trump si insediò alla Casa Bianca, l’attuale (e legittimo) Presidente venezuelano Nicolas Maduro, dopo aver apertamente attaccato Barack Obama e la sua amministrazione definendola “la più interventista negli affari interni del Venezuela”, pur esprimendo un certo scetticismo nei confronti del nuovo Presidente nordamericano, affermò: “Sicuramente non sarà peggio di Obama”[1].
Dunque, mostrando un istinto politico piuttosto scarso se paragonato a quello del suo predecessore Hugo Chavez, anche il Presidente venezuelano venne ingannato da una campagna propagandistica, ben studiata, che mirava a presentare il neoeletto Trump come colui che avrebbe rifondato su nuove basi l’azione geopolitica degli Stati Uniti superando l’interventismo e il discorso egemonico, declinato su scala globale, dell’istante unipolare.
A soli due anni da quel momento, e da quell’errore di valutazione, che ha accomunato Maduro a non pochi analisti e teorici geopolitici, il Venezuela si trova a subire il più pesante attacco di Washington dal successo della “rivoluzione bolivariana” di Hugo Chavez ad oggi.
Se è vero che il processo di destabilizzazione del Venezuela ha radici lontane (già la sconfitta del candidato pro-USA Henrique Capriles, contro Hugo Chavez, nel 2004 scatenò telecomandate proteste di piazza), è altrettanto vero che a partire dal 2018 tale processo ha conosciuto una notevole accelerazione.
Già nel febbraio dell’anno passato, l’ammiraglio Kurt W. Tidd, Comandante in capo dello United States Southern Command, propose un piano dall’emblematico nome in codice Plan to overthrow the Venezuelan Dictatorship – Masterstroke. In esso, oltre alle dichiarazioni di rito sulla necessità di rovesciare una dittatura sinistrorsa che infetta l’intero continente sudamericano e sull’efficacia che una simile azione potrebbe avere nel procacciare consensi interni ed internazionali all’amministrazione Trump, veniva presentata nel dettaglio la strategia da utilizzare per incrementare fino ad un livello critico l’instabilità nel Paese caraibico. Così l’ammiraglio Tidd sottolineava l’esigenza di incoraggiare il malcontento popolare attraverso la scarsità dei beni di prima necessità (in primo luogo cibo e medicine) e di intensificare la denuncia del governo Maduro come illegittimo, criminale e usurpatore attraverso un sapiente utilizzo dei canali di propaganda[2].
Alla luce di questo progetto, non sorprende affatto che il regime sanzionatorio imposto dagli USA , così come in Iran, abbia finito per colpire quasi esclusivamente lo stesso popolo venezuelano soprattutto nei suoi strati più poveri.
Sempre nel 2018, in novembre, il potente Consigliere per la sicurezza nazionale USA John R. Bolton dichiarava a Miami che Cuba, Nicaragua e Venezuela formano la “troika della tirannia”. Seguita dal NICA Act del 20 dicembre, contenente avvertimenti ed azioni dirette per la “restaurazione della democrazia” nel Paese centroamericano, la dichiarazione di Bolton ha dato l’avvio al rapido riposizionamento dell’azione geopolitica statunitense verso il “cortile interno” e all’applicazione della seconda fase della dottrina Cebrowski.
A fondamento di questa dottrina, partorita dalla mente dell’ammiraglio Arthur K. Cebrowski, messo a capo dell’OFT – Office of Force Transformation da Donald Rumsfeld sin dai primi anni 2000 (tanto per sottolineare ancora una volta la pressoché totale continuità tra l’amministrazione Trump ed i suoi predecessori), vi è il preciso obiettivo di eliminare tutte quelle entità statali non connesse all’economia globale e, dunque, non sottoposte direttamente all’egemonia degli Stati Uniti. Una dottrina che, in linea teorica, si concentra essenzialmente su due aree: il Medio Oriente “allargato” e il bacino caraibico.
Oggi sembra abbastanza evidente che le dichiarazioni del Presidente statunitense sul ritiro delle truppe dalla Siria fossero più che altro un tentativo per sondare le intenzioni del capriccioso alleato turco in perenne ed opportunistica tensione tra Occidente ed Eurasia. Tuttavia, è un dato di fatto che la strategia nordamericana nella regione sta conoscendo non poche difficoltà nonostante la rinnovata recrudescenza delle provocazioni sioniste.
Ed è proprio di fronte a queste difficoltà che la strategia di Washington è stata reindirizzata verso il “patio trasero”. La proiezione di una politica di potenza nel continente sudamericano, una sorta di riproposta della dottrina Monroe, viene infatti considerata come meno costosa e meno rischiosa.
Il successo nel processo di destabilizzazione delle realtà maggiormente ostili agli USA (Cuba, Nicaragua e Venezuela) è considerato come “utile” sia per la campagna elettorale del 2020, sia per affievolire il malcontento popolare in caso di una nuova potenziale recessione economica dovuta alle irrealistiche quotazioni delle società legate ai cosiddetti social media o all’infausta guerra commerciale con la Cina.
A ciò si aggiunga che rovesciare il governo bolivariano del Venezuela rappresenterebbe una enorme perdita, in termini sia economici che geopolitici, per tutti quei Paesi, avversari degli USA, che dal 2003 (anno dell’unilaterale aggressione all’Iraq) in poi hanno scelto di costruire un nuovo ordine multipolare.
L’obiettivo è infatti quello di eliminare o ridurre ai minimi termini la presenza sino-russa in Sud America. Mettere le mani sulle ingenti risorse naturali del Venezuela, inoltre, consentirebbe agli USA di dare ulteriore slancio al piano per raggiungere l’indipendenza energetica: altro progetto che Donald J. Trump ha ereditato e fatto proprio dall’era Bush.
In questo senso, l’elezione dell’ultrasionista Bolsonaro in Brasile (un liberista travestito da nazionalista)[3], sostenuto dalla potente lobby cristiano-evangelica, ha rappresentato un punto di svolta per la geopolitica nordamericana nel continente. Il neoeletto Presidente brasiliano sembra infatti intenzionato ad affidare a compagnie nordamericane le operazioni per velocizzare le estrazioni di idrocarburi nel Golfo di Santos (area in cui sono presenti rocce sottomarine con potenzialità effettive di generazione di greggio). Con l’obiettivo di raggiungere una produzione di 4,4 milioni di barili al giorno, tali concessioni consentirebbero alle esangui casse brasiliane di ottenere nell’immediato oltre 30 miliardi di dollari e agli USA di scalzare la Cina come principale partner commerciale del Brasile.
Inoltre, il Vice Presidente brasiliano Hamilton Mourão (legato alla loggia massonica Grande Oriente do Brasil e figlio di un personaggio che ebbe un ruolo di spicco nel golpe militare filo-USA del 1964) ha già annunciato la disponibilità brasiliana all’intervento militare diretto per il rovesciamento del governo chavista in Venezuela. A questo proposito, la Colombia di Ivan Duque, nazione storicamente sottoposta al controllo egemonico nordamericano, sta già addestrando un esercito di oltre 750 mercenari nella base di Tona, vicino ai confini venezuelani[4]. Questo piccolo esercito sarebbe sotto il comando dell’ex colonnello Oswaldo Valentin Garcia Palomo, ritenuto colpevole del tentato omicidio del Presidente Maduro del 4 agosto 2018 attraverso l’utilizzo di droni. E, in vista della creazione ad hoc di un casus belli, il Presidente colombiano ha già accusato il Venezuela di voler organizzare un “contro-attentato” nei suoi confronti.
Considerato anche che il Gruppo di Lima (organizzazione internazionale composta da 14 Paesi iberoamericani al preciso scopo di favorire, almeno in teoria, la soluzione pacifica della crisi venezuelana), con la sola eccezione del Messico, ha considerato illegittima la rielezione di Maduro, gli eventi venezuelani di questi giorni, iniziati con un appello alla rivolta contro il governo da parte di alcuni militari che hanno occupato la caserma di Cotiza (a nord di Caracas), non sorprendono affatto.
Con l’autoproclamazione a presidente ad interim del Venezuela di Juan Guaidò (già presidente dell’esautorata Assemblea Nazionale), il suo immediato riconoscimento da parte degli USA e dell’OSA[5] (anche l’UE ha già fatto sentire il proprio sostegno), e con l’invito ad abbandonare il Paese rivolto al personale diplomatico statunitense dal legittimo Presidente Maduro, il processo di “ucrainizzazione” del Venezuela entra semplicemente nella sua fase decisiva; ed alla già avanzata offensiva “mediatica” si aggiungerà l’offensiva prettamente militare, seppur impostata sul tradizionale approccio asimmetrico che ha contraddistinto le precedenti operazioni in Libia e Siria.
Inutile dire che la riuscita o meno di questa operazione avrà delle ripercussioni enormi a livello globale, ma soprattutto sulla stessa amministrazione Trump, che ha ormai definitivamente perso l’aura “anti-sistemica” con la quale veniva dipinta tanto dai suoi detrattori quanto dai suoi ammiratori.
Va da sé che questa operazione dimostra, una volta di più, anche tutta l’ipocrisia di un’amministrazione (presa a modello da molti governi europei) che pretende di costruire muri antimigranti al confine col Messico, ma, allo stesso tempo, continua a sviluppare aggressive politiche imperialiste (che il fenomeno migratorio lo generano) e continua a ritenere il Centro e Sud America come una mera riserva di risorse naturali e di manodopera a basso costo. Ragione per cui molti teorici sudamericani del multipolarismo (dall’argentino Marcelo Gullo al brasiliano André Martin) hanno sostenuto con forza la necessità che l’Iberoamerica, qualora intenda costruire un reale sviluppo ed affermare una reale indipendenza, non deve in nessun modo sottomettersi al Nord America.
Il successo o meno dell’operazione trumpista, indubbiamente, dipenderà anche dal sostegno che le forze multipolari riusciranno a fornire alla Repubblica bolivariana. La Russia, oltre ad aver già riconosciuto come solo Presidente Nicolas Maduro, ha a più riprese condannato, per voce dei suoi diplomatici, l’aggressione statunitense al Paese caraibico[6]. E proprio nell’ultimo incontro tenutosi a Mosca tra Nicolas Maduro e Vladimir Putin, i due presidenti hanno sottolineato la necessità di rafforzare i propri legami strategici. Una cooperazione rinforzata anche dal recente invio a Caracas di due bombardieri TU-160 e di personale militare russo.
Tuttavia, a differenza dell’Ucraina, dell’area caucasica o della Siria, Paesi interni al perimetro difensivo russo, un impegno diretto a difesa del Venezuela potrebbe rappresentare quanto meno un azzardo se si considera che questo Paese, teoricamente, rientrerebbe all’interno del perimetro difensivo nordamericano.
Ciò che al momento sembra essere certo è che il destino del Venezuela sarà quello di diventare l’ennesimo fronte della guerra mondiale che, circoscritta a limitate aree spaziali, dall’aggressione alla Libia in poi vede contrapporsi l’Occidente a guida nordamericana e le forze che puntano alla creazione di un reale ordine multipolare.
NOTE
[1]https://www.termometropolitico.it/1242391_venezuela-maduro-trump.html
[2]https://libya360.wordpress.com/2018/05/13/masterstroke-the-us-plan-to-overthrow-the-venezuelan-government/
[3]https://www.eurasia-rivista.com/lelezione-di-bolsonaro/
[4]https://www.voltairenet.org/article204399.html
[5]https://www.rt.com/news/449533-trump-recognizes-venezuela-opposition/
[6]Diplomat warns US against militray scenario in Venezuela, www.tass.com.
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