di Claudio Mutti

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[title text=”“Eurasia”, 2/2005″ margin_top=”9px”]

“La geopolitica ci insegna che l’Europa senza l’URSS è sterile e instabile come l’Europa del 1919 con una Germania umiliata, o come l’Europa del 1946 con una Germania ‘criminalizzata’. I Russi sono Europei a pieno titolo. (…) L’URSS è Europa. L’URSS non è esterna all’Europa. L’URSS è l’ultima potenza europea che si oppone, in questo emisfero, al progetto di dominio americano-sionista (…) Destabilizzare il regime sovietico è la speranza dei sionisti, che vogliono avere le mani libere per dominare tutto il Medio Oriente.”

Jean Thiriart, Les 106 réponses à Mugarza, 83, 94, 103

[title text=”La mezza Europa” margin_top=”40px” size=”86″]

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, mentre gli Stati Uniti d’America subentrano alla Gran Bretagna come potenza talassocratica, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche prende il posto del Terzo Reich come principale potenza europea. Infatti né l’Inghilterra, né la Francia, né tanto meno altri paesi europei possono essere più considerati “potenze europee”. Non sono più potenze, poiché le loro dimensioni si trovano al di sotto di quelle che nella nuova epoca storica sono perché uno Stato sia soggetto politico, anziché oggetto della volontà altrui. Non sono europee, poiché ormai sono paesi satelliti di Washington.

L’URSS però, in quanto potenza europea ed eurasiatica, non è geopoliticamente completa. L’Armata Rossa è arrivata a Berlino, ma la principale potenza continentale è ben lontana dalle sue frontiere geopolitiche, che si trovano a Lisbona, a Dublino, a Reykjavik. Non è perciò del tutto fuori di luogo il parallelismo storico stabilito da Jean Thiriart fra la mezza Europa napoleonica e la mezza Europa sovietica e sovietizzata: “L’URSS si trova nella classica posizione della maggior potenza europea alla quale viene impedito di completarsi. Quel conflitto che per quindici anni, dal 1800 al 1815, contrappose Londra e Parigi, è diventato il conflitto tra Washington e Mosca. Bonaparte non riuscì mai a completare il suo Impero europeo” (1). Solo che al dinamismo napoleonico corrisponde, nell’Europa della guerra fredda, la staticità della potenza sovietica, la quale, tutt’al più, intensificherà il proprio controllo politico, militare ed economico sui paesi sottoposti alla sua egemonia.

Il 14 maggio 1955, per iniziativa sovietica, otto paesi dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania, oltre ovviamente all’URSS) firmavano nella capitale polacca un trattato ventennale di “amicizia, cooperazione e mutua assistenza” sul modello del Patto Atlantico, impegnandosi ad accordarsi, in caso di necessità, un “reciproco aiuto fraterno”. Il trattato prevedeva l’istituzione di un comando unificato, di un comitato politico consultivo e di altri organismi, con sede a Mosca. Il comandante in capo sarebbe stato un sovietico (il primo fu il maresciallo Konev), mentre lo stato maggiore sarebbe stato costituito dai rappresentanti degli stati maggiori generali dei paesi membri e dai loro ministri della difesa. Il Patto siglato a Varsavia intendeva dare una risposta alla creazione dell’Unione Europea Occidentale (UEO), che, ufficialmente costituita una settimana prima, aveva aggregato anche la Repubblica Federale Tedesca e l’Italia ai cinque paesi dell’Unione Occidentale (Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo). Dal punto di vista giuridico, il Patto di Varsavia formalizzava la situazione esistente, legalizzando il controllo sovietico sui territori dell’Europa centro-orientale e autorizzando la permanenza di truppe sovietiche in Ungheria e in Romania anche nel periodo successivo alla firma, ormai imminente, del trattato di pace con l’Austria (un paese che sarebbe sì rimasto neutrale sotto il profilo diplomatico e militare, ma sarebbe diventato “occidentale” nel senso politico ed economico). Un terzo obiettivo del Patto consisteva nel predisporre una contropartita alla proposta sovietica di smobilitare la NATO e di creare un sistema generale europeo di sicurezza collettiva: il Patto di Varsavia sarebbe decaduto il giorno stesso in cui tale sistema fosse entrato in funzione.

In seguito alla nascita del Patto di Varsavia, il blocco occidentale egemonizzato dagli USA intensificò, nei confronti dell’area di influenza sovietica, quelle attività ostili che erano iniziate alcuni anni prima. Già nel 1950, l’anno in cui ebbe inizio la guerra di Corea, la Commissione Difesa degli USA aveva infatti approvato la Legge Lodge, la quale prevedeva l’allestimento di una sorta di “legione straniera” (12.500 unità che sarebbero salite a 25.000 due anni più tardi) costituita di elementi originari dell’Europa dell’Est. Il 12 ottobre 1951 il Congresso aveva votato una Legge di Mutua Sicurezza che stanziava 100 milioni di dollari annui per attività da far svolgere a “persone scelte”, residenti “in URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Lituania, Lettonia, Estonia” oppure a emigrati originari di questi paesi o comunque a individui e gruppi che accettassero di “diventare forze sostenitrici della NATO” (2). Nel corso della campagna per le elezioni presidenziali, sia Eisenhower sia Dulles si erano impegnati per la “liberazione” dell’Europa orientale; parlando ad un gruppo di emigrati ungheresi, Eisenhower aveva promesso che avrebbe fatto tutto il possibile per “liberare” la loro patria; e il 20 gennaio 1953, dopo essersi insediato alla Casa Bianca, aveva ribadito tale impegno.

Nel biennio 1953-1954, gran parte delle attività americane di propaganda, di spionaggio e di sabotaggio furono coordinate dalla “Commissione Europa Libera”. Per quanto riguardava in particolare l’Ungheria, venne elaborato un piano chiamato “Operazione Focus”, la cui prima fase ebbe inizio il 1 ottobre 1954, quando dal quartier generale di Free Europe, situato nei pressi di Monaco di Baviera, partì uno stuolo di palloni aerei che avrebbe lasciato cadere sul territorio ungherese centinaia di migliaia di volantini, redatti secondo i criteri della guerra psicologica, nonché emblemi propagandistici di alluminio e giornali. Un ungherese che dopo il 1956 “scelse la libertà”, descrisse così l’effetto prodotto dal lancio dei volantini dal cielo: “I palloni erano molto importanti dal punto di vista psicologico.  Vedendoli arrivare, pensavo: finalmente qualche cosa di concreto, qualche cosa che vale di più delle parole.  Se l’America può raggiungerci con emblemi di alluminio, perché non dovrebbe poter lanciare dei paracadutisti nel caso di una rivoluzione? Senza dubbio l’America intende aiutarci” (3). Alla nota di protesta inoltrata da Budapest, gli USA risposero intimando al governo ungherese di attuare i dieci punti contenuti nel programma politico di una sedicente Organizzazione Nazionale per la Resistenza. Nel settembre del 1955 Eisenhower inviò al ministro del Commercio, W. William, che aveva assunto la guida dell’organizzazione Crusade for Freedom, un messaggio di saluto in cui si riconfermava l’impegno della casa Bianca ad agire per la “la resistenza nei paesi d’Oltrecortina”.

Le provocazioni dirette dagli USA culminarono nel 1956. Nel primo trimestre di quell’anno si verificarono 191 violazioni di frontiera a danno dell’Ungheria; da aprile a giugno ve ne furono 320; in agosto, 438. Gli USA d’altronde non nascondevano di essere implicati in tali operazioni: in una nota del 3 febbraio 1956, successiva all’arresto di alcuni cittadini ungheresi che agivano per conto dello spionaggio statunitense, il governo americano elencava una serie di misure di rappresaglia che sarebbero state adottate qualora le spie non fossero state rilasciate. Nel frattempo venivano aumentati i fondi destinati alle attività di sabotaggio in Ungheria e in altri paesi dell’Est europeo: “È un fatto – dirà Togliatti un anno dopo – che alla vigilia degli avvenimenti [ungheresi] lo stanziamento nel bilancio americano per l’organizzazione del sovvertimento nei paesi socialisti venne aumentato di 20 milioni di dollari e ora sembra sia stato portato a 500 milioni” (4). Affermazioni, queste, che sono state più o meno esplicitamente confermate anche da parte antisovietica: “È chiaro – scrive ad esempio un esponente della sinistra democratica –  che (…) gli americani – come qualunque attento osservatore – si attendevano ulteriori cambiamenti importanti nelle cosiddette democrazie popolari, e si comportavano di conseguenza” (5). Tuttavia, a quanto pare, i progetti statunitensi non miravano ad abbattere i regimi socialisti, ma solo a mantenere l’URSS sotto pressione. In questo contesto strategico, i popoli dell’Est europeo venivano mandati allo sbaraglio e utilizzati come carne da macello per la politica del cosiddetto containment.

[title text=”L’Ungheria tenta la secessione” margin_top=”40px” size=”86″]

Intensificando la loro azione nei confronti dell’Ungheria, gli Stati Uniti sfruttavano la circostanza favorevole che si era presentata fin dal febbraio 1956, quando il XX Congresso del PCUS e le “rivelazioni” di Khruščëv avevano prodotto un terremoto in tutte le capitali dell’Europa soggetta a Mosca, ma soprattutto a Budapest. 

Il 20 febbraio 1956, a settant’anni dalla nascita di Béla Kun, la “Pravda” rievocava il leggendario ebreo d’Ungheria che, dopo aver fondato il Partito Comunista Ungherese e instaurato la Repubblica dei Consigli, era caduto vittima della purga staliniana del 1937 insieme con altri esponenti della vecchia guardia. A Budapest, dove la leggenda di Béla Kun era stata soppiantata da quella creata intorno al segretario del partito comunista Mátyás Rákosi (alias Mátyás Roth), l’articolo della “Pravda” suonò come un nuovo avvertimento. Nuovo, perché l’anno precedente aveva visto la defenestrazione di Malenkov, che era il protettore moscovita di Rákosi; sempre nel 1955, Khruščëv era andato a Belgrado per riconciliarsi con Tito, sconfessando così la campagna antititoista orchestrata a Budapest nel 1949 all’epoca del processo contro László Rajk e altri dirigenti comunisti (6).

Il 17 marzo 1956, il fermento prodotto in Ungheria dal XX Congresso dà luogo alla nascita del Circolo Petöfi.  Costituito da membri dall’organizzazione giovanile del Partito dei Lavoratori Ungheresi, il Circolo Petöfi indice numerose conferenze e assemblee, nelle quali si manifesta un’opposizione sempre più decisa verso l’egemonia di Rákosi e si propugna il ritorno di Imre Nagy (primo ministro dal 1953 al 1955) alla testa del governo. A questa campagna partecipano attivamente molti esponenti dell’intelligencija mondialista;  “moltissimi ebrei comunisti, come Tibor Déry, Gyula Háy, Tibor Tardos, Tamás Aczél, furono i principali animatori, nel 1956, dell’Associazione degli scrittori e del Circolo Petöfi” (7).  Così scrive il neocattolico e neoliberale François Fejtö alias Ferenc Fischel, il quale dimentica però, stranamente, di menzionare in quel contesto l’intellettuale più illustre di tutti: “il vecchio rabbi hegeliano” (8) György Lukács (alias Georg Löwinger), “il più rispettato filosofo del regime comunista (…) figlio di un banchiere ebreo (…) divenuto un attivo militante comunista nel 1918” (9).

Sotto la pressione delle proteste e delle rivendicazioni, consapevole che il “nuovo corso” voluto da Khruščëv comporta inevitabilmente un avvicendamento nei vertici dei partiti comunisti, il 21 giugno Rákosi vola a Mosca “per sottoporsi a cure mediche”. Il capo della polizia di Stalin, Lavrenti Berija, lo accoglie con queste parole: “Sei stato il primo e l’ultimo re ebreo dell’Ungheria!” (10). In realtà è stato il primo, ma non l’ultimo, poiché alla carica di primo segretario del Partito gli succede Ernö Gerö (alias Ernst Singer):  membro del Partito Comunista fin dal 1918, Gerö ha partecipato alla Guerra di Spagna come capo della polizia segreta ed è stato il più stretto collaboratore di Rákosi. 

Il 6 ottobre hanno luogo le esequie solenni di Rajk.  La direzione del Partito ha acconsentito a riabilitarlo, perché si rende conto di non poter più opporre resistenza: infatti è venuto a mancare l’appoggio dei Sovietici, che ormai ritengono inevitabile un cambio della guardia a Budapest.

In ottobre si verificano gravi disordini in Polonia, dove Vladislav Gomulka, già arrestato ed espulso dal Partito, ne diventa il nuovo segretario. Khruščëv si precipita a Varsavia e grida ai compagni polacchi: “Abbiamo combattuto per voi, e adesso vi vendete agli americani e ai sionisti!”  Contemporaneamente, navi da guerra sovietiche incrociano davanti a Gdynia e due divisioni sovietiche di stanza in Polonia si mettono in movimento. Il 20 ottobre la legazione statunitense a Varsavia trasmette agli USA una richiesta di appoggio formulata da Gomulka. Subito, la centrale di Free Europe a Monaco di Baviera si attiva per tenere sotto pressione i paesi confinanti con la Polonia, tra i quali l’Ungheria. La AVH prevede disordini a Budapest a partire dal 22 ottobre.  

Quel giorno infatti ha inizio al Politecnico budapestino un’assemblea che si protrae fino a tarda notte e stabilisce che il giorno successivo un corteo andrà a deporre una ghirlanda al monumento a Bem, il generale polacco che nel 1848 aveva combattuto al fianco degli Ungheresi in rivolta contro l’Impero austriaco. Si tratterà dunque di una dimostrazione di solidarietà con i Polacchi. Il 23 ottobre rientrano da Belgrado, dove sono andati una settimana prima, il segretario del partito Gerö e altri tre gerarchi (il primo ministro András Hegedüs, il vice primo ministro Antal Apró, il capo dell’organizzazione del partito a Budapest János Kádár); il Comitato Centrale discute la situazione e decide di proibire la manifestazione indetta per quel giorno.  

Alle 12,53 la radio notifica il divieto, ma ormai è troppo tardi. Alle due, gruppi di studenti partono dalla facoltà di medicina e si dirigono verso il Museo Nazionale, lo stesso luogo in cui il 15 marzo 1848 Sándor Petöfi aveva recitato i versi che avevano dato il via alla rivolta antiabsburgica.  Alle tre, parte dal Politecnico un corteo di quindicimila studenti; alle quattro e mezzo, quando arriva alla statua del generale Bem, il corteo conta ormai ventimila persone. “In questo mare di volti, si possono riconoscere centinaia di vecchi detenuti politici, i più implacabili avversari del regime, come il leader studentesco Pál Jónás.  Ci sono anche gli uomini di Nagy, Losonczy e Vásárhelyi per esempio. Ci sono anche i funzionari della legazione britannica e americana” (11). D’altronde l’incaricato d’affari statunitense Spencer Barnes, convinto che “sia giunta l’ora di sfidare la presenza militare sovietica nel paese” (12), ha già inviato a Washington un telex di tre pagine, insistendo affinché sulla stampa americana “le informazioni siano pubblicate senza ritardo, in modo da sfruttare al massimo le rivendicazioni sempre più radicali del popolo ungherese”. Gli Inglesi non saranno da meno (13).

Da quanto abbiamo riferito più sopra, risulta che l’interesse dei diplomatici angloamericani per quanto stava accadendo non era certo un fatto personale o estemporaneo. D’altronde con l’”Operazione Focus” gli Occidentali avevano favorito la formazione di gruppi clandestini di orientamento democratico e si erano inseriti nella campagna elettorale del 1954 per il rinnovo dei consigli comunali. “L’America è con tutto il cuore a fianco del popolo ungherese  – dirà Eisenhower il 25 ottobre 1956 –   Gli eventi che hanno attualmente luogo in Ungheria sono considerati dagli Stati Uniti come l’espressione reiterata dell’intenso desiderio di libertà del popolo ungherese”. Una settimana più tardi, la Associated Press informerà che “il presidente Eisenhower ha offerto viveri e soccorsi all’Ungheria rivoluzionaria per il valore di 20 milioni di dollari”.

Ma riprendiamo il filo degli avvenimenti. Alle sei della sera del 23 la folla ha lasciato il monumento di Bem e si dirige verso il Parlamento, chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche, reclamando le dimissioni del governo e scandendo il nome Imre Nagy. Adesso sono duecentomila persone. Mentre in Piazza Stalin viene abbattuta la statua dell’eroe eponimo, in Via Bródy, dove si trova la sede della radio, tra la folla dei manifestanti e gli uomini dell’AVH ha luogo una vera e propria battaglia che si conclude con un massacro. Alcuni ufficiali dell’esercito distribuiscono armi alla folla: la defezione delle forze armate segna una svolta decisiva nell’insurrezione.

Il giorno successivo, unità militari sovietiche arrivano a Budapest su richiesta del governo ungherese. Si verificano i primi scontri tra i reparti sovietici e la popolazione. La radio annuncia cambiamenti nel Comitato Centrale e nel governo: Imre Nagy sostituisce András Hegedüs nella carica di primo ministro, ma Ernö Gerö rimane primo segretario del Partito. Imre Nagy si rivolge al popolo in questi termini:  “Comunico che tutti quanti deporranno le armi e cesseranno la lotta entro le 13 di oggi, nell’intento di evitare ulteriori spargimenti di sangue, saranno esenti da ogni misura punitiva.  Al tempo stesso, dichiaro che, con tutti i mezzi a nostra disposizione, attueremo la democratizzazione sistematica del nostro Paese, in ogni settore della vita economica e politica del Partito e dello Stato. Ascoltate il nostro appello, cessate il fuoco e assicurate il ristabilimento dell’ordine e della calma nell’interesse dell’avvenire del nostro popolo e del nostro Paese” (14).

Anziché deporre le armi, gl’insorti conquistano le fabbriche di Budapest, tranne il quartiere industriale di Csepel, che cadrà nelle loro mani solo il 26. Frattanto vengono segnalati scontri anche a Debrecen, a Szolnok, a Szeged.

Il 25 ottobre, mentre gli scontri proseguono e il governo Nagy afferma che l’ordine è stato riportato nella Capitale, Ernö Gerö viene sostituito da János Kádár.  Nagy e Kádár dichiarano che, una volta ristabilito l’ordine nel Paese, cominceranno le trattative per l’evacuazione delle truppe sovietiche.  Inoltre Nagy promette che il Parlamento esaminerà un programma di riforme. Ciononostante i combattimenti non cessano; anzi, gl’insorti estendono il loro controllo ad altre zone dell’Ungheria. Il 26, il Comitato Centrale si impegna a indire nuove elezioni, a negoziare con l’URSS il ritiro delle truppe, a riconoscere i consigli operai e ad amnistiare tutti coloro che deporranno le armi prima delle ore 21. Il giorno dopo, viene annunciata la formazione di un nuovo governo presieduto da Nagy, che comprende ministri non comunisti quali Zoltán Tildy (capo dello Stato tra il ’46 e il ’48) e Béla Kovács, mentre György Lukács è ministro della cultura. Domenica 28, Nagy dichiara che le truppe sovietiche lasceranno subito Budapest e che la AVH sarà sciolta. Un comitato d’emergenza, tra i cui membri sono Kádár e lo stesso Nagy, assume temporaneamente la guida del Partito. I consigli operai rivoluzionari e i comitati locali di unione nazionale avanzano una serie di richieste, le più importanti delle quali sono la denuncia del Patto di Varsavia, la revisione della politica economica, la democratizzazione della vita politica. Il capo della polizia di Budapest annuncia la costituzione di unità della Guardia Nazionale Ungherese.  Lunedì 29, mentre a Budapest continuano i combattimenti, il ministro della Difesa annuncia il ritiro delle unità sovietiche dalla Capitale e la loro sostituzione con reparti dell’esercito ungherese. Martedì 30: Imre Nagy procede a un nuovo rimpasto governativo, annuncia l’abolizione del partito unico e il ritorno alle condizioni politiche del 1945. Il ministro Tildy chiede che sia ricostituito il Partito dei Piccoli Proprietari;  Ferenc Erdei, vice primo ministro del nuovo governo, formula una richiesta analoga per il Partito Contadino. Kádár approva. L’aviazione ungherese minaccia di bombardare i carri armati sovietici se non se ne andranno da Budapest. Intanto gli insorti espugnano il comando della AVH a Pest e incendiano la sede del Partito Comunista a Buda.  Viene liberato il cardinale Mindszenty. Un funzionario della legazione USA, mister Quade, si reca in veste ufficiale alla caserma Kilián e assicura i rivoltosi che possono contare sull’appoggio statunitense.  Mercoledì 31: mentre il governo manifesta l’intenzione di far uscire l’Ungheria dal Patto di Varsavia e intraprende trattative in questo senso col governo sovietico,  il capo militare della rivolta, Pál Maléter, è nominato sottosegretario alla Difesa.  Appaiono nuove testate giornalistiche, è riammessa la ricostituzione del partito socialdemocratico, escono dalle prigioni i detenuti politici.  Le truppe sovietiche lasciano Budapest.  

Giovedì 1 novembre: il governo Nagy denuncia il Patto di Varsavia, proclama la neutralità dell’Ungheria e si rivolge alle grandi potenze e all’ONU affinché se ne facciano garanti. János Kádár annuncia lo scioglimento del partito comunista e la fondazione di un nuovo partito, “operaio e socialista”. Venerdì 2: il governo Nagy protesta per il rientro di truppe sovietiche in territorio ungherese e dà mandato a una delegazione militare di trattare coi Sovietici il ritiro delle truppe. Queste si sono impadronite della linea ferroviaria Záhony-Nyíregyháza e mantengono il controllo dell’aeroporto internazionale di Budapest.  Il consiglio dei rabbini e il “comitato rivoluzionario” della comunità ebraica della Capitale salutano “con entusiasmo il compimento della rivoluzione” ed esortano gli organismi ebraici internazionali ad aiutare la rivolta. Sabato 3: la delegazione guidata da Pál Maléter viene arrestata dai Sovietici.  In un appello alla nazione, il Cardinale Mindszenty annuncia un programma di “conquiste democratiche” (15) e pone “i grandi Stati Uniti d’America” (16) in testa alla classifica delle nazioni con le quali l’Ungheria vuole avere rapporti di amicizia. Qualche giorno più tardi si rifugerà proprio nell’ambasciata statunitense, dove resterà per quindici anni.

Il 4 novembre, alle 4,20, Imre Nagy parla da Radio Kossuth e annuncia che ha avuto inizio l’attacco sovietico contro Budapest, “con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico d’Ungheria”. Le truppe sovietiche, appoggiate da paracadutisti, si impadroniscono di tutti i centri nevralgici dell’Ungheria, nonostante la resistenza opposta da truppe ungheresi e da gruppi armati di civili, ai quali nella parte orientale del paese si sono uniti alcuni guerriglieri dell’Ukrainska Povstanska Armiia, l’organizzazione ucraina antisovietica sostenuta dagli angloamericani (17). Intanto János Kádár e altri (Ferenc Münnich, Imre Horváth, István Kossa, Antal Apró, Imre Dögei, Sándor Rónai) annunciano di aver dato vita a un nuovo governo e di aver chiesto l’intervento dell’Armata Rossa per soffocare la controrivoluzione. Molte stazioni radio cadono sotto il controllo sovietico e per tutta la giornata successiva ripetono appelli per la cessazione del fuoco e la ripresa del lavoro. Nella giornata di lunedì continuano i combattimenti nell’ottavo distretto di Budapest, a Csepel, nella regione del Balaton e a Kecskemét.  Gli scontri si protraggono per una settimana, a Budapest e in altre località del Paese.
    Seguì un mese di resistenza passiva, diretta dal Consiglio Operaio Centrale di Budapest, finché il 9 dicembre il Consiglio fu sciolto e i suoi membri furono arrestati.  Imre Nagy e i suoi compagni saranno condannati a morte nel 1958, dopo un processo a porte chiuse.

Per la perestrojka e per la liquidazione del “socialismo reale”, era ancora troppo presto.  

[title text=”Orge kafkiane e “primavera” sionista” margin_top=”40px” size=”86″]

Il 20 agosto 1967 le acque della Vltava restituivano il cadavere di Charles Jordan, cittadino statunitense. Jordan, dirigente dell’American Joint Distribution Committee (la nota organizzazione sionista) era andato a Praga per lavorare a un progetto di destabilizzazione approntato dallo spionaggio israeliano. È incerto se la morte di Jordan sia da attribuire ai Sovietici (che lo tenevano d’occhio fin dal 1952) o alla CIA stessa, preoccupata per il fatto che il KGB fosse al corrente della collaborazione americana con l’agente del Joint. In ogni caso, l’episodio rese palese il fatto che Praga era diventata la sede della centrale operativa dei servizi segreti sionisti per l’Est europeo. Sloggiata dalla Cecoslovacchia in seguito all’intervento sovietico, la centrale spionistica si trasferirà a Istanbul e la rete informativa verrà riorganizzata da Efraim Elrom, alias Hofstadter; costui verrà a sua volta eliminato nel maggio 1971 da una squadra dell’Esercito Popolare di Liberazione turco.

Installandosi a Praga, la centrale operativa sionista aveva cercato di creare le condizioni per un ritorno del gruppo sionista ai vertici del potere, come ai bei tempi di Slánský. Non si era mosso soltanto il Joint, ma diverse organizzazioni e personalità del sionismo internazionale. È stato notato, infatti, che il massiccio insediamento del gruppo in questione negli ambienti ideologici e culturali della Cecoslovacchia degli anni Sessanta avvenne “non su iniziativa dei sionisti ‘casalinghi’, ma sotto la guida di centri internazionali come il Joint, il Sokhnut, il Centro di Documentazione di Simon Wiesenthal, i servizi governativi di Israele, del Hudson Institute, della Central Intelligence degli Stati Uniti. I caporioni sionisti si recavano spesso all’estero e ricevevano nelle loro abitazioni i rappresentanti dei centri suddetti. Praga, ad esempio, era stata ripetutamente visitata dal sionista austriaco Golden, dal rappresentante dell’Agenzia Ebraica John Enals, da A. Bremberg, che lavorava per l’Ente Informazioni statunitense, e da molti altri. Il noto teorico dell’anticomunismo, Zbignew Brzezinsky, per ben tre anni era venuto all’Istituto di Politica ed Economia Internazionali di Praga per parlare della Fine del leninismo e di argomenti affini. Una particolare importanza veniva attribuita dai sionisti alla conquista dei mezzi per l’informazione di massa (18), tant’è vero che il 5 agosto 1968 la “Pravda” di Bratislava potrà parlare, in relazione al periodo di Dubček, della tendenza “supergiudaizzante” di stampa, radio e televisione.

Il gruppo di pressione sionista sferrò un attacco massiccio per il controllo della cultura. Le cosiddette “orge kafkiane” (19) furono il preludio di una più vasta e più scatenata orgia sionista, che il già citato Fejtö-Fischel ha elegantemente presentato come una doverosa protesta contro la politica filoaraba del Patto di Varsavia e come un fenomeno di normale solidarietà con Israele, di cui gli “intellettuali” (eufemismo per “sionisti”) sostenevano apertamente “il diritto (…) a difendersi, anche con un attacco, contro una sempre più precisa minaccia di annientamento” (20). Il pubblicista sionista ricorda alcuni fatti significativi: “Al congresso degli scrittori riuniti a Praga il 29 giugno 1967, numerosi oratori criticano la politica del governo: Pavel Kohout confronta il destino di Israele a quello della Cecoslovacchia dopo gli accordi di Monaco; il romanziere Jan Procházka, membro supplente del Comitato centrale ed ex confidente di Novotný, dà lettura di una lettera indirizzata alla direzione del partito in cui si protesta contro la campagna anti-israeliana. Qualche settimana dopo il congresso, il romanziere di lingua slovacca Mňačko parte per Israele e denuncia sulla stampa occidentale il servilismo e le tendenze antisemite e regressive del governo di Praga” (21). La radio trasmetteva con frequenza ossessiva le canzoni ebraiche di Yvonne Przenosilova e Hanna Hegerova; la televisione aveva intensificato le trasmissioni di argomento ebraico.
    Nel periodo della cosiddetta “primavera di Praga”, i sionisti installarono la loro centrale culturale nella redazione dei “Literární listy”. Sulle pagine di questa rivista ricomparve la firma di Eugen Löbl, il quale, condannato all’ergastolo dai giudici del processo Slánský, nel 1963 era stato riabilitato ed aveva successivamente assunto la direzione della Banca Slovacca. Tra i collaboratori dei “Literární listy” si trovava poi il maestro di Goldstücker, J. L. Fischer, che tuonava contro la “suburra antisemitica, infuriata fino alla follia” (22). Ivan Klíma presentava l’aggressione sionista del 1967 come una difesa contro il tentativo arabo di attuare un “programma di genocidio” (23) e accusava “la campagna antisemita dei nostri vicini settentrionali” (24), cioè le misure adottate dal governo polacco in seguito ai fermenti sionisti del 1967-’68. Oltre a sionisti quali Antonín Liehm, Michael Reiman, Milan Jungmann e altri, scriveva sui “Literární listy” anche Milan Kundera, che in Italia verrà pubblicato dalla casa editrice fondata da Roberto Olivetti, presieduta da Alberto Zevi e amministrata da Luciano Foà.

Ma il maître à penser del “socialismo dal volto umano” fu Eduard Goldstücker. Se fino al gennaio 1968 costui aveva limitato le proprie attività al campo culturale, nel mese successivo egli già ambiva a svolgere un ruolo politico direttivo.  “Parlava spesso alla radio e alla televisione, sollecitava la ‘purificazione’ e la ‘rinascita’ del Partito, cercava di accaparrarsi le simpatie degli scrittori, degli artisti, dei giornalisti e di quanti operavano nel campo della cultura, diventava membro di vari consigli e comitati, società  commissioni. Più tardi apparvero furtivamente e circolarono per Praga le voci di una sua… presunta possibile elezione alla carica di… presidente della repubblica cecoslovacca. I sionisti sapevano che Goldstücker non avrebbe potuto conseguire tale onore, ma ne spargevano la voce: voci del genere erano quanto mai utili per alimentare artificialmente il suo prestigio. È chiaro che un ‘possibile presidente’ viene ascoltato con attenzione e rispetto” (25). La “Pravda” slovacca scriveva: “Sotto la sua guida, l’Unione degli Scrittori ha fatto a poco a poco della controrivoluzione il proprio punto di riferimento e la propria posizione ideologica (…). Con la diretta partecipazione di Goldstücker sono stati pubblicati ampi brani del trotzkista e rinnegato Isaac Deutscher, che è stato presentato ai lettori come un eminente marxista”.

Nei circoli di potere cecoslovacchi, il gruppo di potere al quale apparteneva Goldstücker era molto ben rappresentato. L’economista Ota Sík, il “padre della riforma economica” che aveva elaborato un sistema di pianificazione ispirato alle teorie di Liberman, era diventato vice primo ministro e membro del Comitato Centrale del Partito, nel quale era entrato anche Frantisek Kriegel. Jíři Pelikán aveva assunto l’incarico di direttore generale della televisione. Di Eugen Löbl abbiamo già detto. Dovremmo compilare un elenco lunghissimo, se volessimo enumerare i numerosi “intellettuali” sionisti che andarono a installarsi sulle cattedre universitarie e nelle redazioni giornalistiche e televisive.

L’intervento attuato dall’URSS e da altri paesi socialisti nell’agosto 1968 provocò l’esodo di numerosi sionisti, che “scelsero la libertà” nell’Europa occidentale e in Israele. Il loro tentativo di conquista del potere venne seppellito sotto la restaurazione guidata da Husák, il quale fu a sua volta condizionato dal gruppo autoritario facente capo a Indra e a Kapek.

Nel maggio 1971 si tenne il XIV Congresso del partito comunista cecoslovacco che ratificò la restaurazione. Le relazioni di Segre e Luzzatto, inviati rispettivamente dal PCI e dal PSIUP, non vennero lette.

[title text=”Il golpe di Bucarest” margin_top=”40px” size=”86″]

Mentre le operazioni di Budapest e Praga possono essere legittimamente interpretate come “un successo della geopolitica sovietica, [in quanto il risultato di tali operazioni è che] le frontiere dell’’area del socialismo’ restano intatte” (26), ben diverso è il significato dell’intervento sovietico nei fatti romeni del dicembre 1989. Lasciando da parte la difesa del socialismo, che non solo non costituiva affatto un obiettivo dell’azione di Gorbačëv, ma non poteva neanche essere invocata come un pretesto formale, si può ragionevolmente pensare che l’appoggio sovietico ai golpisti romeni abbia avuto tra le sue motivazioni la difesa delle frontiere sudoccidentali dell’URSS. È noto infatti che nel discorso di chiusura del XIV Congresso del Partito Comunista Romeno Nicolae Ceausescu aveva risposto al messaggio di Gorbačëv rivendicando alla madrepatria romena i territori della Bucovina del Nord e della Bessarabia (l’attuale “Repubblica di Moldavia”), occupati dall’URSS nell’estate del 1940. In ogni caso, la differenza sostanziale tra gli “interventi fraterni” effettuati dall’URSS a Budapest e a Praga e le implicazioni sovietiche nel putsch di Bucarest risiede nel fatto che nel 1956 e nel 1968 Khruščëv e Brezhnev avevano garantito l’egemonia sovietica su paesi che confinavano con la zona d’influenza americana e che si riteneva intendessero restaurare il capitalismo, mentre nel 1989 l’URSS gorbacioviana intervenne per demolire un regime che, al contrario, si ostinava a proclamare la sua fedeltà all’ortodossia comunista. Anzi, Gorbačëv voleva la fine di Ceausescu proprio perché quest’ultimo non intendeva affatto accettare il programma di liquidazione dei regimi socialisti.

Non solo: l’URSS intervenne a Bucarest in sintonia con gli USA, perché i progetti del Cremlino relativi alla Romania venivano a coincidere con quelli degli ambienti usurocratici e mondialisti, danneggiati da una politica autarchica che, a prezzo di pesanti sacrifici imposti alla popolazione romena, aveva portato all’estinzione del debito contratto da Bucarest con la Banca Mondiale. E ancor più danneggiati sarebbero stati tali ambienti, qualora la Romania avesse realizzato, assieme alla Libia e all’Iran, il progetto di un istituto di credito in grado di concedere prestiti a tasso ridottissimo ai paesi in via di sviluppo (27).
    Nel 1992 chiesi a Marian Munteanu (capo del Movimento per la Romania e animatore delle manifestazioni di Piazza dell’Università):  “In che misura si deve credere alla versione che ha presentato la caduta di Ceausescu come l’effetto di un moto insurrezionale partito dal popolo? E in che misura si può invece legittimamente parlare di un colpo di Stato? In altre parole: non sarà che la fine di Ceausescu debba essere ricondotta, principalmente, alla sua volontà di liberare la Romania da ogni dipendenza nei confronti della Banca Mondiale?” L’agitatore studentesco cercò di salvare capra e cavoli, da una parte ammettendo che “effettivamente esisteva da tempo una congiura, ispirata da centrali politiche estere per rovesciare il regime”, ma preoccupandosi anche, d’altra parte, di salvaguardare l’immagine eroica della “azione spontanea e indipendente, svolta da giovani che non disponevano di nessun supporto organizzativo”.  Insomma: “l’insurrezione scoppiò in maniera, per così dire, naturale: solo in un secondo tempo venne utilizzata e strumentalizzata da gruppi già preparati che agivano secondo intendimenti propri.  E questi gruppi avevano legami col capitalismo internazionale e con gli Stati Uniti”.

È interessante confrontare l’interpretazione dei fatti fornita da Munteanu con quella di un suo avversario politico: Gelu Voican Voiculescu (28), l’uomo che organizzò il processo sommario al Conducator e ricoprì per un certo periodo, nel 1990, la carica di vice primo ministro.

“Noi non possiamo sapere che cosa fosse stato deciso a Malta”, mi rispose Gelu Voican quando gli ricordai la frase pronunciata da Ceausescu davanti ai golpisti: “La mia sorte è stata decisa a Malta”, cioè nell’incontro di Bush e Gorbacev che aveva avuto luogo in quell’isola qualche mese prima. “Però – aggiunse Voican – è cosa certa che la rivoluzione romena venne innescata dai servizi di diverse potenze straniere. Nella misura in cui il terreno era dell’URSS, la presenza effettiva e la manodopera furono fornite dal KGB.  Nello stesso tempo, la CIA si era insediata a Budapest, dove aveva installato una sua centrale. Tra i due organismi vi fu una stretta collaborazione.

L’operazione si chiamò Valachia 89 e richiese l’impiego di mezzi assai cospicui. Pare che la CIA abbia partecipato più che altro con piani e denaro e il KGB con la logistica. Posso dirle, in base a informazioni provenienti da fonti autorevoli, che dopo il 6 dicembre il numero dei turisti sovietici crebbe bruscamente di dieci volte e a partire dal 16 dicembre vi furono in Romania 67.000 turisti sovietici. Sono cifre esatte, fornite dai punti di frontiera. In genere, entravano in Romania su automobili Lada, quattro uomini giovani o di età media su ciascuna auto. Sono probanti le registrazioni effettuate nelle camere degli alberghi, anche se non tutti questi strani turisti avevano preso alloggio in albergo. La maggior parte di loro entrò dalla frontiera occidentale, dalla Jugoslavia e dall’Ungheria, molti addirittura su automobili con targa jugoslava. Forse vi furono anche agenti jugoslavi che operarono a Timisoara. Sicuramente vi furono agenti ungheresi, a Timisoara.  Fu la TV ungherese a dirigere gli avvenimenti e a istigare la gente alla solidarietà col pastore Tökés, il quale rappresentò la miccia dell’esplosione”.

“Dunque – gli chiesi –  gli eventi del dicembre 1989 furono il risultato di una macchinazione dei servizi segreti delle due superpotenze e dei loro fiancheggiatori?”

“Al momento attuale, – rispose Voican – disponendo di informazioni alle quali ho avuto accesso solo dopo quegli eventi, sono in grado di formulare un’ipotesi: il 16-17 dicembre a Timisoara e il 21-22 a Bucarest, questi servizi che preparavano il rovesciamento di Ceausescu vollero fare una prova generale per valutare la situazione. Nella loro rappresentazione della realtà, il popolo romeno era considerato inerte e passivo, mentre i servizi di repressione erano ritenuti fedelissimi a Ceausescu e molto efficienti. Allora gl’ispiratori dell’operazione vollero per prima cosa tastare il terreno e vedere quale fosse l’adesione della popolazione, come avrebbero reagito la Milizia, la Securitate, l’Esercito, il Partito, i mezzi di comunicazione. Pensarono quindi di fare una prova a Timisoara e nella Capitale. Ma questo semplice tentativo diede il via ad un processo che sfuggì loro di mano e li colse di sorpresa. Essi avrebbero voluto che la rivolta scoppiasse il 30 gennaio o forse in gennaio, e invece furono sorpresi tutt’a un tratto da un incendio generale. Tutto andò al di là delle loro aspettative. Mentre loro volevano semplicemente esaminare la situazione, la cosa assunse le dimensioni di una rivolta generalizzata. Fu questo a paralizzarli, oltre al nostro comportamento atipico. Noi infatti, nel nostro dilettantismo e confusionismo, demmo a questi professionisti l’impressione di agire secondo un piano prestabilito, un piano che a loro sfuggiva. In realtà, noi non avevamo proprio nessun piano e procedevamo alla cieca. Allora si bloccò qualcosa nel meccanismo degli agenti stranieri. Essi fecero alcune provocazioni, spararono qua e là, spaccarono qualche vetrina, ma poi tutto prese un suo corso e non poté più essere fermato. Fu così che Ceausescu cadde in maniera estremamente rapida, praticamente in un solo giorno. Nessuno se lo sarebbe mai potuto immaginare”.

La ricostruzione degli eventi fatta da Gelu Voican ci presenta dunque un intreccio nel quale si muovono in maniera autonoma e simultanea due distinti gruppi di eversori: quello degli agenti stranieri e quello dei congiurati romeni. Tuttavia sarebbero stati questi ultimi a determinare la caduta del regime.

A rendere poco credibile una tale ricostruzione, è il fatto che nel Consiglio del cosiddetto Fronte di Salvezza Nazionale (il gruppo dei golpisti) si trovavano alcuni personaggi dei quali erano ben noti i legami con l’URSS, con gli USA e con circoli sionisti. Ion Iliescu, che Ceausescu aveva messo in disparte nel 1971, era un ex agente del KGB e conosceva Gorbačëv fin dal periodo in cui era studente a Mosca.
Silviu Brucan (alias Samuil Bruekker o Bruckenthal) era l’ideologo del Fronte di Salvezza Nazionale.  Nato nel 1916 da famiglia ebraica, si era iscritto al partito comunista nel corso degli anni trenta. Nel settembre 1944, quando apparve il primo numero ufficiale di “Scânteia”, organo del Comitato Centrale del Partito Comunista Romeno, Silviu Brucan fu segretario generale di redazione.  Dopo la guerra, prese parte all’allestimento dei processi per la liquidazione degli uomini politici rivali del PCR. Secondo fonti dell’emigrazione romena, ebbe il compito di architettare artificiosamente una campagna antisemita pretestuosa (29). Dal 1956 al 1958 fu ministro plenipotenziario della legazione della Repubblica Popolare di Romania negli Stati Uniti d’America (fino al 1964 la Romania non ebbe un ambasciatore a Washington).  Quindi, fino al 1962, fu a New York, dove rappresentò la Romania presso le Nazioni Unite. In seguito a uno scontro con il ministro degli esteri Corneliu Manescu, dovette andarsene dal ministero e accettare l’incarico di vicepresidente del Comitato di Stato per la Radio e la Televisione, incarico che tenne dal 1962 al 1967.  Con l’arrivo al potere di Ceausescu, l’uomo che aveva sostenuto Ana Pauker e Gheorghe Gheorghiu-Dej venne allontanato dalle funzioni politiche; benché privo di diploma universitario, ricevette un posto di docente di Scienze Sociali e di Sociologia all’Università di Bucarest (30). All’inizio del 1988 fu messo agli arresti domiciliari per una dichiarazione che aveva rilasciata a Radio Europa Libera.  Nel 1989 però era di nuovo in circolazione:  era spesso ospite dell’ambasciatore statunitense Roger Kirk e di Michael Parmly, consigliere politico dell’ambasciata degli USA. Al momento degli eventi che portarono alla caduta di Ceausescu, Brucan rientrava dagli Stati Uniti, dopo aver fatto scalo a Mosca e incontrato Anatoli Dobrynin, vecchia spia del KGB. 

Petre Roman, anch’egli di famiglia ebraica, si era tenuto nell’ombra fino ai giorni della “rivoluzione”. Suo padre Walter Roman (vero nome: Neuländer), “era stato uno dei veterani delle Brigate Internazionali in Spagna, per poi rifugiarsi, nel periodo della guerra, in Unione Sovietica.  Ritornato in Romania, diventerà l’uomo di fiducia di Gheorghe Gheorghiu-Dej, predecessore di Ceausescu.  È uno dei fondatori della Securitate, dove aveva il grado di generale, al quale aggiungeva quello di colonnello del KGB.  (…)  Dopo il fallimento della rivolta ungherese del 1956, per ordine di Gheorghiu Dej incontrò Imre Nagy e lo persuase a rifugiarsi in Romania… da dove sarà consegnato all’Unione Sovietica. Walter Roman muore nel 1983, lasciando a suo figlio Petre un’eredità sociale e politica. Quest’ultimo conosce tutti i vertici della nomenclatura, tra i quali anche i figli di Ceausescu.  Ma è soprattutto un intimo di Brucan e di Iliescu” (31).
Dumitru Mazilu, ex rappresentante della Romania all’ONU, è stato spesso presentato come l’uomo di fiducia degli americani. Nicolae Militaru, ex colonnello della Securitate, nel 1980 era stato condannato a morte per spionaggio, ma era stato salvato dai Sovietici. L’ex diplomatico Bogdan aveva due figlie negli Stati Uniti.       

Appare perciò verosimile l’ipotesi che gli americani abbiano dato il loro avallo alla collaborazione dei congiurati di Bucarest con gli agenti di Mosca, sicché vanno rivedute e corrette in questo senso interpretazioni come quella fornita dall’ultimo ministro degli Esteri del governo comunista, Ion Totu, il quale attribuì l’abbattimento del regime nazionalcomunista romeno a un’azione esclusivamente occidentale. Nel periodo in cui si trovava detenuto nel carcere di Jilava, l’ex ministro dichiarò testualmente: “Gli eventi del dicembre 1989 facevano parte di un vasto programma di azione degli Stati Uniti e dell’Occidente (in primo luogo l’Inghilterra) per destabilizzare l’URSS e gli altri paesi socialisti e per attrarli nella sfera d’influenza del capitalismo; lo scopo principale era che gli Stati Uniti dovevano restare l’unica superpotenza mondiale, che decidesse a proprio piacimento. In questo programma, i progetti concernenti la Romania avevano come obiettivi principali: a) la trasformazione del nostro paese in un avamposto militare, in una base militare nell’Est europeo, ai confini con l’URSS; b) la trasformazione del nostro paese in una semicolonia economica sottoposta agli stimoli e alle richieste del capitale finanziario internazionale” (32). In ogni caso, quelli che Ion Totu presentava come piani delle potenze atlantiche hanno avuto una puntuale realizzazione.

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1.   J. Thiriart, Les 106 réponses à Mugarza (pré-édition non-corrigée), a cura dell’Autore, Bruxelles 1982, Question 103.

2.   Documents on American Foreign Relations, Princeton University Press 1953, pp. 12.

3.    J. A. Michener, The Bridge at Andau, New York 1957, pp. 251-252.

4.    P. Togliatti, Per una via italiana al socialismo, per un governo democratico delle classi lavoratrici, in VIII congresso del PCI – Atti e risoluzioni, Roma 1957, p. 26.

5.    F. Argentieri, Ungheria ’56: la rivoluzione calunniata, Milano 1998, p. 131.

6.   “L’obiettivo generale di chi aveva voluto – a Mosca certamente prima ancora che a Budapest – il processo, era quello di portare rapidamente a termine, superando dubbi, ostilità mascherate, ma anche resistenze esplicite, il processo di formazione attorno e sotto la guida dell’Unione sovietica di un ‘campo socialista’ disciplinato e compatto, comprendente le democrazie popolari ancora impegnate nella elaborazione e nella realizzazione di ‘vie nazionali’ non sempre e obbligatoriamente assimilabili fra di loro. Sulla base delle ‘prove’ fornite dal processo sull’attività di Tito ai danni della Polonia, dell’Albania, della Cecoslovacchia e della Bulgaria, speciali agenti ungheresi vennero così inviati negli altri paesi per aiutare le polizie locali a ‘smascherare’ l’intera rete degli ‘agenti di Tito’ “ (A. Guerra, Qualche riflessione sul ’56 ungherese, “Studi storici”, a. 20, n. 1, gennaio-marzo 1979, p. 114).

7.    F. Fejtö, Ungheria 1945-1957, Torino 1957, p. 283.

8.    C. Roy, Somme toute, Paris 1976, p. 145.

9.   D. Irving, Ungheria 1956. La rivolta di Budapest, Milano 1981, p. 127. Del suo contribule Lukács, François Fejtö si ricorda però altrove, quando ne tesse le lodi di ministro della cultura: “Egli voleva fare del Partito comunista il mecenate e il protettore di tutte le attività culturali, un centro di raccolta per realizzare le grandi riforme: democratizzazione e modernizzazione dell’insegnamento, allargamento delle basi della cultura, emancipazione dello spirito. Era il momento del pluralismo e del ‘dialogo’ ” (F. Fejtö, op. cit., pp. 30-31).  Dinanzi a una tale apologia c’è semplicemente da restare allibiti, se solo si pensa che il pluralista Lukács fece compilare un vero e proprio indice dei libri proibiti, mandò al macero la stampa “fascista e antidemocratica”, fece fondere i piombi della prestigiosa collana di filosofia diretta da Béla Hamvas, condannò ad una vita da paria gli intellettuali non “organici”.

10.  A. Heller e F. Fehér, Ungheria 1956: anatomia di una rivoluzione politica, in:  S. Kopácsi, In nome della classe operaia, Roma 1980, p. 287. D. Irving (op. cit., p. 79) riferisce la frase di Berija in questi termini: “Ascolta, compagno Rákosi, l’Ungheria ha avuto imperatori assurgici, kan tartari, principi polacchi e sultani turchi, ma non avrà mai un re ebreo, ed è questo che tu stai cercando di diventare”.

11.  D. Irving, op. cit., p. 162.

12.  D. Irving, op. cit., p. 158.

13.  Dopo la rivolta, il Ministero degli Esteri ungherese chiederà l’allontanamento del colonnello James N. Cowley, addetto militare della legazione britannica.  Secondo la nota del Ministero, Cowley “mantenne relazioni attive e dirette con diversi capi delle forze controrivoluzionarie armate, e con numerose persone che parteciparono alla controrivoluzione.  Nel corso di questa attività, con i suoi consigli militari e di politica militare, egli appoggiò i dirigenti delle azioni rivolte a rovesciare il sistema di Stato della Repubblica Popolare Ungherese (…) Dopo l’annientamento delle forze della controrivoluzione, il colonnello Cowley diede dei consigli speciali alle persone sopraindicate, a proposito di come nascondere le loro armi e gli equipaggiamenti”   (Il complotto controrivoluzionario di Imre Nagy e dei suoi complici, Edizione dell’Ufficio di Informazione del Consiglio dei Ministri della Repubblica Popolare Ungherese, s.i.e. [ma: Budapest 1957], p. 127.

14.  La rivoluzione ungherese.  Una documentata cronologia degli avvenimenti attraverso le trasmissioni delle stazioni radio ungheresi, Milano 1957, p. 44.

15.  J. Mindszenty, Memorie, Milano 1975, p. 326.

16. J. Mindszenty, op. cit., p. 325.

17. A. Rosselli, La resistenza antisovietica e anticomunista in Europa orientale 1944-1956, Roma 2004, p. 98.

18. V. Begun, Invasione senz’armi, “Neman” (Minsk), 1, gennaio 1973.

19. Negli anni dello “stalinismo”, per l’esattezza fino al 1957, l’opera di Kafka era rimasta al bando dalla vita
culturale cecoslovacca; del narratore ebreo non era stato pubblicato nulla: “né di Kafka né su Kafka, eccettuati alcuni pamphlets chiaramente di attacco”. Così si legge in un libro di Eduard Goldstücker (Libertà e socialismo, Roma 1968, p. 25), il quale, scarcerato nel 1956 grazie alla destalinizzazione, andò ad insediarsi sulla cattedra di letteratura tedesca all’Università Carlo IV di Praga e si dedicò anima e corpo a quelle che vennero dette “orge kafkiane”. Il giubileo dello scrittore, celebrato nel 1963 con la conferenza di Liblice, segnò l’avvio di una riscossa sionista nella vita culturale cecoslovacca. “Kafka divenne una sorta di punto nodale nello scontro per rompere l’isolamento nel quale ci avevano portato gli anni dello stalinismo e della guerra fredda” (E. Goldstücker, op. cit., p. 26). In precedenza, il realismo socialista aveva considerato l’opera di Kafka come la ripugnante manifestazione di una psiche anormale e morbosa; ancora nel 1973, una rivista sovietica scriverà: Le opere di Kafka, che nella loro maggioranza riflettono un patologico stato d’animo dello scrittore e non la vera realtà, possono servire solo come propaganda del disfattismo e del pessimismo (…) Ma i sionisti ne avevano fatto la loro bandiera, perché Kafka era di origine ebraica” (V. Begun, Invasione senz’armi, cit.).

20. François Fejtö, Storia delle democrazie popolari dopo Stalin, Firenze 1971, p. 255.

21. Ibidem.

22. J. L. Fischer, Riflessioni su T.G.M., in: Praga 1968. Le idee del “nuovo corso”, a cura di Jan Čech, Bari 1968, p. 43.

23. I. Klíma, Un progetto e un partito, in: Praga 1968, cit., p. 130.

24. Ibidem.

25. V. Begun, Invasione senz’armi, cit.

26. F. Furet, Il passato di un’illusione, Milano 2001, p. 514.

27. “Nessuno fino ad oggi ha spiegato che cosa avesse Ceausescu da discutere, di così importante, a Teheran. (…) Ceausescu, il presidente libico Gheddafi e gli ayatollah dell’Iran avevano deciso che ciascuno dei loro paesi contribuisse con cinque miliardi di dollari alla fondazione di una banca che accordasse prestiti a interesse ridotto, dal 3% al 5%, ai paesi in via di sviluppo” (Ion Coja, Marele manipulator si asasinarea lui Culianu, Ceausescu, Iorga [Il grande manipolatore e l’assassinio di Culianu, Ceausescu, Iorga], Bucarest 1999, p. 211).
28. Su G. Voican Voiculescu cfr.: C. Mutti, Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Parma 1999, pp. 21-28.

29. Traian Golea, How the Condamnation of a Nation is staged, Hallandale 1996, p. 12.

30. Silviu Brucan pubblicò diversi libri di taglio politologico, che a partire dal 1971 furono sistematicamente editi negli Stati Uniti:  The Dissolution of Power (Alfred Knopf, New York 1971), The Dialectic of World Politics (Macmillan, New York and London 1978), The Post-Brezhnev Era (Praeger, New York 1983), World Socialism at the Crossroads (Praeger, New York 1987), Pluralism and Social Conflict (Praeger, New York 1990, prefazione di Immanuel Wallerstein), The Wasted  Generation. Memoirs (West View Press, Boulder 1993). 

31. Radu Portocala, România. Autopsia unei lovituri de stat. In tara în care a triumfat minciuna [La Romania. Autopsia di un colpo di stato. Nel paese in cui ha trionfato la menzogna], Bucarest 1991, p. 97.

32. Intervista di Angela Bacescu, “Europa”, 22 aprile 1991.

 

 


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).