La recente crisi dei rapporti diplomatici tra Turchia e Israele può essere spiegata in diversi modi. Vi sono delle ragioni di carattere geopolitico, ma anche della cause connesse alle strategie in politica estera adottate negli ultimi anni dai gruppi politici al potere ad Ankara e Tel Aviv, intenti a potenziare il ruolo regionale dei rispettivi paesi. La crisi diplomatica s’inserisce, inoltre, in un delicato contesto, connesso alla questione palestinese, alle rivolte arabe e all’attuale situazione in Siria ed Egitto, alla competizione tra l’Iran e l’Arabia Saudita, nonché agli interessi statunitensi nel Vicino Oriente.
Il deterioramento delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele ha raggiunto il proprio apice in seguito alla pubblicazione del Rapporto Palmer, commissionato dal Segretario Generale dell’ONU per indagare sull’incidente della Freedom Flottilla del 31 maggio 2010. In quell’occasione nove passeggeri turchi della Mavi Marmara furono uccisi dalle forze speciali israeliane per impedire alla flotilla di raggiungere Gaza. Lo stesso giorno della pubblicazione del rapporto, Ankara ha declassato al livello più basso le relazioni diplomatiche con Israele, con il conseguente ritiro del proprio ambasciatore e l’espulsione del personale diplomatico israeliano dalla Turchia. La rottura tra i due paesi è legata ai mancati risarcimenti danni per l’incidente e per l’assenza di scuse ufficiali da parte del governo israeliano pretese da Ankara. Netanyahu ha affermato che tali scuse potrebbero «fiaccare il morale degli israeliani».
La crisi tra i due paesi non è dovuta solamente al pur grave incidente dell’anno scorso, ma è legata a una serie di ulteriori questioni di carattere geopolitico e strategico, caratterizzanti il Mediterraneo Orientale da alcuni anni. La Turchia, guidata dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), ha assunto da alcuni anni una politica estera molto più incline ad aumentare la propria influenza regionale, grazie anche alla sua posizione geografica strategica, ponte tra Europa e Asia (vedi il recente il libro di Aldo Braccio, Turchia: ponte d’Eurasia). E’ evidente come Israele, la cui politica interna ed estera è stata fortemente influenzata dagli ideali neorevisionisti nell’ultimo decennio, osservi con preoccupazione l’ascesa della Turchia, trasformatasi da alleato a potenziale concorrente nell’area vicino-orientale.
Le questioni geopolitiche più importanti che hanno messo in forse il legame strategico tra Ankara e Tel Aviv sono legate al conflitto israelo-palestinese, alle recenti rivolte scoppiate nel mondo arabo, al variegato approccio nei confronti di Arabia Saudita e Iran, nonché alla competizione energetica, la quale, come in altre aree del globo, è spesso foriera di scontri tra interessi contrapposti. Tutto ciò è inoltre collegato ai disegni strategici statunitensi nel Vicino Oriente, dal momento che gli Stati Uniti sono i principali alleati sia della Turchia sia d’Israele. Washington osserva con preoccupazione la crisi diplomatica tra i due paesi, cercando una qualche forma di compromesso per arginare le incompresioni tra i due alleati. Gli Stati Uniti comprendono bene il ruolo di fondamentale importanza dal punto di vista geostrategico della Turchia, uno dei principali paesi della NATO. Nel 2000 i neoconservatori, nel momento in cui si apprestavano ad offrire il proprio appoggio alla candidatura alle presidenziali di Bush, suggerivano la potenziale importanza strategica di Ankara strettamente alleata agli Stati Uniti e allo Stato ebraico. La futura amministrazione statunitense, avendo come obiettivo la costruzione del Grande Medio Oriente a guida statunitense, avrebbe dovuto favorire una salda alleanza turco-israeliana, potenzialmente la più grande forza strategica della regione (Per un confronto tra neoconservatori e neorevisionisti israeliani vedi il libro Progetti di egemonia).
– Una causa della crisi: la politica interna turca e israeliana
Dal 2001 ad oggi la situazione è decisamente mutata. Dal punto di vista della politica interna, sia la Turchia sia Israele hanno attualmente al potere due gruppi politici che hanno come obiettivo primario della propria politica estera l’egemonia regionale. Per quanto riguarda Ankara, negli ultimi anni l’AKP ha intrapreso un nuovo percorso, definito sovente come neo-ottomano, nostalgico del passato di superpotenza dell’Impero turco tra XVI e XVII secolo. Questa strategia ricalcherebbe il pensiero del ministro degli esteri Ahmet Davutoglu che cerca il consolidamento dei propri rapporti con la maggior parte dei vicini, avendo come obiettivo primario il soddisfacimento degli interessi strategici turchi. Il nuovo corso politico ha abbondonato una sorta di isolazionismo che contraddistingueva la politica estera turca prima dell’avvento di Erdogan, prediligendo al contempo una strategia maggiormente indipendente da Washington e attiva in diversi contesti geopolitici. La Turchia, nonostante l’esercito sia ancora fortemente legato alle prospettive della NATO, è diventata un’interlocutrice autonoma capace di “sfidare” simultaneamente l’Unione Europea, Israele e gli Stati Uniti, assumendo un ruolo di primo piano, come guida e modello politico, nel mondo arabo. Il rapporto con Israele ha registrato delle significative modifiche nel corso degli ultimi anni, dal momento che Ankara ha individuato nell’attuale politica estera israeliana un importante ostacolo ai propri interessi strategici. A questo proposito si può fare riferimento alla politica interna dello Stato ebraico e all’ascesa nell’ultimo decennio del Likud, partito politico erede del revisionismo di Vladimir Jabotinsky. Il forte nazionalismo, unitamente all’utilizzo di politiche espansionistiche che prediligano l’azione militare preventiva piuttosto che la diplomazia; la concezione del carattere eccezionale della propria nazione, così come l’avversione per la nascita di uno Stato palestinese e per i vicini arabi o i critici interni, sono tutti elementi caratterizzanti l’ideologia della destra israeliana. L’intransigenza dimostrata da Tel Aviv nei confronti della questione palestinese, esemplificata dalla costruzione del muro di divisione con la Cisgiordania, dal blocco internazionale nei confronti di Gaza, dalla continua colonizzazione della West Bank, dalla mancata volontà al ritorno ai confini pre-1967, sfidando il tal senso una recente richiesta di Obama, e da alcuni conflitti militari (guerra del Libano nel 2006 e Operazione Piombo Fuso nel 2008), sono tutti fattori che hanno comportato l’allontanamento turco nei confronti d’Israele. Anche il recente avvicinamento dell’Egitto post-Mubarak alla Turchia può essere letto come una diretta conseguenza della politica estera del governo Netanyahu, il quale ha reso Israele maggiormente isolato nel contesto geopolitico vicino-orientale. La Turchia, soprattutto dopo l’incidente della Mavi Marmara, è diventata un’importante sostenitrice della causa palestinese, ha appoggiato la dichiarazione d’indipendenza presentata da Abu Mazen all’ONU, così come ha condannato il blocco internazionale imposto da Israele nei confronti della striscia di Gaza.
– Le relazioni turco-israeliane e le rivolte arabe
La Turchia è anche un’importante sostenitrice del mondo arabo e ha promosso le rivolte degli ultimi mesi per evidenti interessi di carattere egemonico e geopolitico, favorendo nello stesso tempo una connessione di non poco conto tra la questione palestinese e le sommosse. Se, infatti, i ribelli nei diversi paesi arabi, secondo la prospettiva turca, avrebbero diritto a manifestare fino al rovesciamento dei regimi, perché i palestinesi dovrebbero continuare a rimanere nella loro condizione di popolo senza Stato? In questo caso la “primavera araba” non viene naturalmente letta dalla Turchia come un’azione fortemente incentivata dalla NATO e dalle potenze occidentali. Mentre Washington non è propensa a collegare la questione palestinese alle rivolte arabe, Israele sembra osservare negativamente la “primavera araba”, individuando in essa delle pericolose conseguenze per la propria sicurezza. Il fatto che l’amministrazione USA abbia favorito indirettamente le ribellioni e incentivato alcuni gruppi islamisti dal passato assolutamente non democratico (Vedi l’articolo Come al-Qaida è arrivata al potere a Tripoli) testimonia come Israele e Stati Uniti, nonostante il veto che questi ultimi porranno sulla richiesta palestinese all’ONU, abbiano posizioni differenti su alcune questioni geopolitiche fondamentali. Tel Aviv è preoccupata che i paesi rivali dell’area, su tutti l’Iran, possano trarre dei vantaggi dalle rivolte arabe. Come ricordato correttamente da Daniele Scalea, «Le odierne rivolte arabe aprono nuovi scenari e nuovi fronti di disaccordo tra Israele e USA, nel momento in cui quest’ultimi corteggiano sempre più palesemente la Fratellanza Musulmana ed altri movimenti islamisti» (La “speciale relazione” USA-Israele: prefazione al libro “Progetti di Egemonia”). Le alleanze internazionali non rappresentano un sistema di relazioni schematico e uniforme, ma sono caratterizzate, a seconda dei periodi storici e delle circostanze geopolitiche, da mutamenti e incomprensioni, come nel caso della diversa prospettiva a riguardo delle rivolte arabe adottata da Israele e Stati Uniti. Attualmente, un ipotetico intervento militare statunitense in difesa dell’alleato israeliano nell’area sembra improbabile, vista la crisi economica di Washington e l’avversione dell’opinione pubblica statunitense nei confronti di una simile opzione. Il quadro è in realtà molto più complesso, nel quale, unitamente all’intervento occidentale per i propri interessi strategici, esistono all’interno dei singoli paesi arabi dinamiche dal carattere variegato, molteplici gruppi politici, movimenti religiosi e correnti, pronti a sfruttare l’occasione e a utilizzare a proprio vantaggio le richieste della popolazione (Per un’approfondita analisi delle rivolte arabe vedi il libro di Pietro Longo e Daniele Scalea Capire le rivolte arabe). Un esempio calzante può essere offerto dall’Egitto. Nonostante ufficialmente non siano stati messi in discussione gli accordi di pace con Israele del 1979, l’opinione pubblica egiziana preme fortemente per una revisione del rapporto diplomatico del paese con lo Stato ebraico. Alcuni esponenti della giunta militare, i quali hanno mantenuto il potere nel paese dopo la cacciata di Mubarak, osservano come alcune questioni riguardanti il rapporto con Israele siano completamente da riconsiderare: ad esempio, la pipeline trasportante gas naturale dall’Egitto a Israele; il blocco internazionale israeliano di Gaza; l’intera questione palestinese; la presenza di un maggior numero di truppe egiziane nel Sinai. Senza dimenticare la recente apertura del canale di Suez al passaggio di navi da guerra iraniane dirette in Siria, la quale ha allarmato Israele. E’ probabile che la Fratellanza Musulmana, nonostante la forte competizione dell’apparato militare, acquisti sempre più potere all’interno del contesto politico egiziano, grazie anche all’alleanza esistente con l’AKP e la crescente influenza turca nel paese, con una successiva possibile revisione del rapporto con Israele. Tel Aviv quindi, in seguito alla cacciata di Mubarak, potrebbe aver perso un alleato. La stessa Turchia, la quale ha appoggiato, nonostante le titubanze iniziali, l’intervento NATO in Libia, potrebbe favorire l’emergere delle forze musulmane moderate sia in Egitto sia in Libia, a discapito degli interessi dell’Arabia Saudita, la quale predilige le frange estremiste. Nel contesto libico, l’azione turca appare comunque molto più difficile.
– Il ruolo di Arabia Saudita, Iran e la questione siriana
La stessa Arabia Saudita potrebbe comunque mettere in difficoltà il governo israeliano e gli Stati Uniti nell’immediato futuro, dato anche il suo approccio ambivalente alla questione delle rivolte arabe. Come osservato dall’editoriale del principe ed ex ambasciatore saudita negli Stati Uniti Turki al-Faisal, pubblicato sul “New York Times” l’11 settembre scorso, Veto a State, Lose an Ally, gli USA dovrebbero appoggiare le richieste palestinesi d’indipendenza. Un veto statunitense verrebbe letto negativamente dal mondo arabo e comporterebbe delle ripercussioni nefaste per la strategia statunitense e saudita in Vicino Oriente. E’ evidente, come ricordato dallo stesso autore, che le preoccupazioni primarie saudite sono esclusivamente rivolte all’Iran, il quale potrebbe trarre vantaggi da questa situazione e aumentare la propria influenza nell’area. L’Arabia Saudita osserva l’attuale situazione vicino-orientale nell’ottica della propria competizione con Tehran. L’ex ambasciatore saudita a Washington afferma che potrebbero essere messe in discussione le relazioni tra sauditi e statunitensi, con una conseguente politica estera dell’Arabia Saudita molto più autonoma. Riyad potrebbe dunque aumentare la propria influenza, incentivando l’esportazione del proprio sistema politico, sociale, religioso ed economico legato al Wahhabismo sia in Afghanistan sia in Iraq, ma anche altrove, creando un potenziale arco d’instabilità dalla Libia al Pakistan. In Iraq, Riyad potrebbe non riconoscere, come richiesto dagli Stati Uniti, il governo dello sciita al-Maliki. Uno degli obiettivi dell’Arabia Saudita è l’indebolimento dell’Iran, concretamente attuabile, ad esempio, rovesciando il governo di Assad in Siria. Riyad potrebbe utilizzare a proprio vantaggio la caduta del regime siriano, presentandosi in maniera diversa verso le masse arabe dopo aver interrotto con la forza le rivolte sciite in Bahrain e ostacolato, le sommosse in Yemen. A riguardo della questione siriana, mentre l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono favorevoli a un cambio di regime, principalmente in funzione anti-iraniana, Israele e Turchia sembrano più cauti. Tel Aviv, nonostante auspichi senza dubbio la caduta del regime di Assad, poiché vedrebbe la fine di uno dei principali nemici dello Stato ebraico nonché stretto alleato dell’Iran, correrebbe comunque il rischio di una Siria futura con una situazione politica interna simile o peggiore all’Egitto; un potenziale nuovo nemico insomma, un paese sunnita non alleato come l’Arabia Saudita, maggiormente propenso a sostenere le aspirazioni palestinesi e a non accettare la politica intransigente israeliana. Le preoccupazioni d’Israele rappresentano una delle possibili spiegazioni del momentaneo rinvio dell’intervento militare occidentale in Siria per la mancata individuazione di un’alternativa filo-occidentale sicura ad Assad, nonostante la pressione verso Damasco sia sempre più crescente. La stessa Turchia, oltre alla naturale condanna del regime di Assad, osserva con preoccupazione le possibili ripercussioni per le minoranze curde in Siria, considerate una minaccia per la propria stabilità interna: nel caso in cui l’area settentrionale del paese si trasformi in una zona autonoma ricalcante quella presente in Iraq, questa potrebbe favorire i gruppi curdi autonomisti presenti in Turchia. Inoltre, Ankara non sembra disposta ad accettare la presenza lungo i propri confini di uno Stato instabile, ricalcante la situazione libanese o irachena; così come i paesi del BRICS non sembrano intenzionati ad avvallare una situazione caotica simile a quella che si è delineata in Libia. Nonostante ciò la recente installazione di un impianto missilistico NATO nel paese è stata valutata da alcuni analisti come un’esemplificazione dell’interesse turco per un’azione turca in Siria in funzione anti-iraniana. L’Iran e la Russia hanno protestato per l’installazione della batteria missilistica NATO, individuando in essa una potenziale minaccia per la propria sicurezza. La Turchia ha spiegato ufficialmente che in realtà si tratta di un’installazione difensiva. Nonostante, infatti, la competizione tra Turchia e Iran sia molto forte, sembra che i due paesi siano alleati in diverse questioni di carattere geostrategico, come, ad esempio, nella comune avversione nei confronti degli indipendentisti curdi. A questo proposito la Turchia e l’Iran hanno recentemente discusso di possibili azioni militari congiunte nell’Iraq settentrionale. L’allontanamento tra Turchia e Israele è legato anche all’avvicinamento tra Ankara e Tehran, visto che i due paesi stanno consolidando il proprio rapporto diplomatico. La recente vicenda dello sblocco dei pagamenti indiani via Turchia dei rifornimenti petroliferi iraniani è legata a questo nuovo rapporto turco-iraniano (Le relazioni indo-iraniane: cooperazione regionale e pressioni statunitensi su Nuova Delhi).
– Una nuova fonte di scontro: Cipro
Gli Stati Uniti sono intenti a ricucire i rapporti tra Ankara e Tel Aviv, dato il grande ruolo geopolitico ricoperto dalla Turchia, l’importanza del suo esercito per la NATO e la possibile azione di erosione che potrebbe compiere nei confronti del potere iraniano. In ogni caso esiste un’ulteriore competizione geostrategica di primo livello tra Israele e Turchia, foriera di interessanti implicazioni; si tratta delle esplorazioni per il gas naturale nel Mediterraneo Orientale. Ankara sta ostacolando infatti l’esplorazione dei giacimenti di idrocarburi ad opera di Israele e Cipro nell’area, sostenendo che la parte settentrionale dell’isola, guidata da un governo filo-turco, non godrebbe dei dovuti vantaggi. Cipro sembra dunque essere un’ulteriore fonte di conflittualità nella regione, dal momento che Israele, in risposta all’ostacolo turco, ha intensificato i propri rapporti diplomatici con Nicosia, ma anche con la Grecia, l’Armenia e i paesi balcanici avversi alla Turchia; Ankara, oltre ad ostacolare i progetti ciprioti e israeliani legati al gas naturale, ha stretto i propri legami energetici e militari con l’Egitto e intimato all’Unione Europa di non offrire a Nicosia la presidenza dell’Unione il prossimo anno. E’ un’altra esemplificazione di come la Turchia abbia modificato il proprio approccio e sia disposta a mettere in secondo piano l’adesione all’Unione Europea, grazie anche all’ascesa della propria economia.
*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).
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