Lo scorso 15 aprile il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia (TPI) ha condannato i generali croati Ante Gotovina e Mladen Markač a, rispettivamente, 24 e 18 anni di reclusione per i crimini commessi nel 1995 durante la guerra in Croazia. Contro la decisione del TPI si sono svolte manifestazioni di protesta a Zagabria e nelle principali città croate. La sentenza, infatti, criminalizza l’Operazione Tempesta, celebrata in Croazia come un’azione eroica di difesa della patria. I risentimenti espressi fanno pensare ad un Paese nel quale il nazionalismo dell’epoca di Tuđman non si sia mai spento del tutto. La notizia della condanna non ha fatto che esacerbare il risentimento di un Paese angustiato dalla crisi economica e disilluso nei confronti delle forze politiche. Inoltre, i sondaggi rivelano che attualmente solo il 44,6% della popolazione croata si dichiara a favore della prospettiva europea. Un segnale inquietante in un Paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea e che proprio in queste settimane sta portando a termine i negoziati per l’adesione.

 

La guerra patriottica

Per la Croazia, l’Operazione Tempesta e la figura del generale Gotovina che la condusse, rivestono un’importanza fondamentale, alla quale viene ricondotta l’esistenza stessa della nazione. Un sentimento difficile da comprendere, soprattutto alla luce di una condanna per crimini di guerra e crimini contro l’umanità inflitta da un Tribunale Internazionale, ma che si spiega addentrandosi nei meandri della recente storia balcanica.

Il progressivo sgretolarsi dell’ideologia comunista alla fine degli anni Ottanta, comportò per i Paesi della ex Jugoslavia una democratizzazione solo a livello formale, una speranza di brevissima durata, scalzata ben presto dagli scontri inter-etnici. Di fronte al fallimento dell’ideologia comunista, i nazionalismi mai sopiti emersero in tutta la loro violenza e si scontrarono gli uni contro gli altri: da un lato il nazionalismo panserbo, sostenitore del mantenimento dello Stato federale jugoslavo, dall’altro le spinte indipendentiste delle altre nazioni, che contestavano l’egemonia di Belgrado.

Un simile clima non poteva che avere conseguenze drammatiche in Croazia, dove la minoranza serba raggiungeva numeri elevatissimi: 600 mila persone su 4,3 milioni di abitanti, concentrate soprattutto nella regione della Krajina, il territorio dell’entroterra della Dalmazia facente parte della ex Repubblica Socialista Croata. In Krajina esisteva fin dal luglio 1990 un Consiglio Nazionale Serbo, creato per difendere la sovranità della popolazione serba in quelle zone contro l’indipendenza croata. L’autoproclamazione d’indipendenza da parte della Croazia scatenò la reazione di Belgrado, dando inizio alla guerra. L’Esercito Popolare Jugoslavo impose il proprio controllo su circa un terzo dei territori croati, laddove la presenza serba era particolarmente significativa. Nel dicembre 1991 in queste zone fu costituita la Repubblica Serba di Krajina [1].

L’Operazione Tempesta rappresentò la reazione croata a questi fatti. In sole 84 ore (dal 4 all’8 agosto 1995), l’Esercito Croato, riuscì a riconquistare i territori, attraverso l’uccisione della popolazione serba, la distruzione delle proprietà e provocando l’esodo di circa 200 mila persone. È per questi crimini che sono stati processati i generali Gotovina e Markač.

Gli imputati, le accuse, i processi

Ante Gotovina all’epoca dei fatti rivestiva il grado di Comandante del Distretto di Spalato in seno all’Esercito croato. Mladen Markač, invece, durante l’Operazione Tempesta comandava la Polizia Speciale del Ministero dell’Interno. Nel 2001 il TPI accusò Gotovina per le azioni commesse contro la popolazione serba. Il generale venne arrestato nel dicembre 2005 a Tenerife, dopo quattro anni di latitanza. L’arresto di Markač, che si consegnò volontariamente al giudizio del Tribunale subito dopo la notifica delle accuse mosse nei suoi confronti, risale al marzo 2004.

Il verdetto emesso il 15 aprile scorso ha messo in luce l’esistenza di un’ “impresa criminale” pianificata ad hoc, al fine di espellere permanentemente la popolazione serba dalla regione della Krajina. Durante l’incontro di Brioni del luglio 1995, il Presidente croato Tuđman e i principali rappresentanti delle forze politiche e militari del Paese, concordarono una serie di azioni militari a scopo di pulizia etnica, incluso l’attacco diretto alla popolazione civile.

La sentenza riconosce Gotovina e Markač colpevoli di «persecuzione, deportazione, omicidio e atti disumani» (crimini contro l’umanità), e di «saccheggio di proprietà pubblica e privata, distruzione ingiustificata, omicidio e trattamento crudele» (violazione delle leggi e dei costumi di guerra).

La reazione in Croazia

Le manifestazioni di protesta svoltesi all’indomani delle condanne diventano più comprensibili se si tiene conto che la storia della Croazia indipendente è segnata da un sentimento nazionalista nato dalle ceneri dell’odio etnico e alimentato dalle forze politiche. Un ruolo centrale nella diffusione di tale ideologia è stato quello ricoperto da dall’Unione Democratica Croata, partito che dal 1990 ha governato il Paese quasi ininterrottamente, e, in particolare, da Franjo Tuđman, primo Presidente della Croazia. La gestione dello Stato attuata da Tuđman si caratterizzò fin dall’inizio per un nazionalismo dai toni violenti, di cui ancora oggi è impregnato il dibattito politico croato. La responsabilità di Tuđman non è soltanto quella di avere fomentato simili sentimenti, ma anche quella di aver giustificato ogni genere di azione purché realizzata in nome del supremo interesse nazionale. Il TPI ha riconosciuto, infatti, l’ex leader del partito HDZ scomparso nel 1999, come il principale responsabile dell’azione di ripopolamento etnico della Krajina attuata con l’Operazione Tempesta.

Le proteste di queste settimane si pongono in linea con questa ideologia e di essa sono una conseguenza, ma allo stesso tempo rappresentano anche la reazione contro un giudizio proveniente dall’esterno, percepito come una sorta di ingerenza nelle questioni interne. In uno Stato giovane come la Croazia, che il 25 giugno prossimo celebrerà i vent’anni d’indipendenza, l’intangibilità dei simboli della nazione è fortemente sentita da una popolazione che ricorda per esperienza diretta le vicende che hanno portato alla costituzione dello Stato. Lo sdegno espresso dalla popolazione è forse dunque anche lo sdegno di uno Stato ancora troppo giovane per fare i conti con una storia ancora molto recente: una storia che forse non è ancora storia. Una storia che per la gran parte dei croati ha un valore emotivo ancora forte, che impedisce loro di accettare che i fatti che la compongono vengano giudicati dall’esterno. D’altra parte però la giustizia non può aspettare i tempi della storia e quando lo fa, dà modo ad interpretazioni parziali e strumentali degli eventi, come in questo caso impregnate di un rigido nazionalismo, di diffondersi e stratificarsi.

La crisi economica e la crisi politica

La condanna di Gotovina rappresenta, però, solo l’ultima delle ragioni di malcontento per un Paese nel quale la crisi economica si somma alle tensioni che da tempo attraversano gli equilibri politici interni. Un malcontento che i cittadini hanno espresso già dalla fine dello scorso febbraio, attraverso numerose azioni di protesta. Ciò che è evidente in tali manifestazioni è l’immagine di un Paese disorientato, i cui problemi sono molteplici e tutti ugualmente urgenti, e si sovrappongono gli uni agli altri, rendendo difficile l’identificazione di una scala delle priorità.

La crisi economica globale ha comportato per la Croazia una recessione economica che dal 2009 in poi ha assunto proporzioni sempre più significative. Nonostante il Programma di Ripresa Economica varato dal governo nell’aprile 2010, l’economia stenta a riprendersi a causa di una debolezza strutturale che caratterizza in modo particolare il mercato del lavoro. Per quanto riguarda la disoccupazione, diffusa soprattutto tra i giovani, i dati dell’Ufficio di Statistica della Croazia riportano un tasso pari al 18,2% (aprile 2011), cresciuto costantemente negli ultimi tre anni.

I motivi di insoddisfazione trovano un comune denominatore nel sentimento diffuso di sfiducia nelle istituzioni e nella classe politica, che appare ormai delegittimata dagli episodi di corruzione e dai legami con la criminalità organizzata emersi negli ultimi anni. Il caso più eclatante è quello legato a Ivo Sanader, leader del partito HDZ dopo la morte di Tuđman. Sanader guidò il governo dal 2003 fino al luglio 2009, quando, nel pieno del suo secondo mandato, rassegnò  improvvisamente le dimissioni. Sostituito dalla sua vice Jadranka Kosor, Sanader tornò poi in Parlamento tra le file del gruppo indipendente. I sospetti di corruzione nei suoi confronti si concretizzarono nel dicembre 2010, quando, dopo la revoca dell’immunità parlamentare, fuggì in Austria dove venne arrestato. Le accuse sono di corruzione e di finanziamento illecito del suo ex partito, nonché di coinvolgimento nello scandalo della banca Hypo Group Alpe Adria.

La magistratura croata sta indagando inoltre su casi nei quali sono implicati i vertici delle maggiori aziende statali e alcuni politici di alto rango. Tra questi i più celebri sono Damir Polančec, ex Vicepremier e Ministro dell’Economia, arrestato nel 2010 per corruzione e abuso d’ufficio, e  Berislav Rončević, ex Ministro della Difesa e degli Interni.

La dilagante sfiducia nei confronti della politica risiede anche nella condotta incoerente portata avanti dal partito HDZ nel corso degli anni. A differenza dell’isolazionismo dell’era Tuđman e dell’entusiasmo europeista degli anni di Sanader, per il governo Kosor l’accesso all’Unione Europea è diventato un obiettivo asservito a interessi di politica interna. Non è strano che di fronte a simili cambiamenti di rotta i cittadini si sentano quantomeno spaesati. Oltretutto, l’incoerenza dell’attuale governo è evidente anche nel fatto che abbia permesso che dopo la condanna di Gotovina, risuonassero gli echi nazionalisti di un tempo, quando allo stesso tempo si erge a difensore dell’europeismo, spingendo per un ingresso rapido nell’Unione Europea.

L’euroscetticismo

Nelle piazze, i cittadini che scandiscono slogan contro la condanna di Gotovina e contro il governo, manifestano allo stesso tempo la loro contrarietà alla scelta europeista del governo.

Il processo di avvicinamento della Croazia all’Unione Europea, iniziato nel 2001 con la firma dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, si è dimostrato difficoltoso fin dall’inizio. Al 2001 risale, infatti, anche l’imputazione contro Gotovina e da quel momento Bruxelles impose alla Croazia una conditio sine qua non per l’avvio dei negoziati di adesione: la collaborazione con il TPI. Iniziò allora per il governo croato l’arduo tentativo di conciliare l’inconciliabile: la difesa dell’”eroe della patria” e la volontà di far parte dell’Unione. Accusata di non collaborare all’arresto del generale, Zagabria poté avviare i negoziati solo dopo aver emanato un mandato di cattura nei confronti del generale.

Allo stato attuale, mancano per la conclusione dell’iter i capitoli relativi a competitività, magistratura e diritti fondamentali e norme in materia di pesca.  Dopo la chiusura dei negoziati, la Croazia avrà un mese di tempo per indire il referendum popolare sull’adesione, nei successivi cinque mesi il documento verrà poi tradotto nelle lingue dell’Unione prima di essere ratificato.

L’impopolarità del governo e l’aumento dell’antieuropeismo registrati in questi mesi sono intimamente connessi. Bruciare la bandiera dell’Unione Europea significa anche, ma non solo, protestare contro un governo che dell’avvicinamento a Bruxelles ha fatto uno dei pilastri della sua politica, impostandone il dibattito su una strumentalizzazione della questione ai fini della propria sopravvivenza, piuttosto che sulle reali condizioni e conseguenze dell’accesso all’UE. I cittadini non hanno così modo di conoscere quali siano davvero i criteri di adesione, se non attraverso le interpretazioni date dalla politica. Il problema di fondo è forse proprio il fatto che l’allargamento dell’Unione Europea sia un processo gestito esclusivamente nei palazzi della politica, dal quale i cittadini si sentano in qualche modo “esclusi”.

Conclusioni

L’immagine che scaturisce dalle proteste di questi mesi è soprattutto quella di un Paese nel quale da un lato i problemi concreti sono talmente gravi che agli occhi dei cittadini l’Unione Europea appare come qualcosa di lontano dalle vere necessità. Una scelta che anzi rischia di deviare le energie e le risorse della politica verso obiettivi che non sono quelli che la popolazione sente essere più urgenti. Dall’altro lato, la perdita di sovranità che comporta l’adesione, insieme al risentimento verso Bruxelles per aver imposto la collaborazione con il TPI, sono all’origine dei risorti sentimenti nazionalisti.

Di fronte ad una simile situazione, il futuro del Paese e la sua adesione all’Unione Europea dipenderanno dalla capacità del governo di coinvolgere i cittadini, in modo tale che la scelta europeista sia valutata in quanto tale, per le condizioni che pone e le conseguenze che comporta e non venga invece distorta per fini particolari con i quali non ha nulla a che fare.

 

* Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

 

[1] Mai riconosciuta a livello internazionale, la Repubblica Serba della Krajina comprendeva le regioni della Krajina e della Slavonia, inclusa la zona orientale a ridosso del confine con la Serbia con la città di Vukovar, che fu sottoposta a tre mesi di assedio.

 


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