Un “complotto organizzato dall’estero”, ma anche un “complotto delle lobbies dei tassi di interesse e del caos”: le dichiarazioni di Erdogan sulla grave crisi in Turchia non vengono troppo considerate dai media occidentali; eppure – al di là della simpatia/antipatia che può suscitare il Primo Ministro, di cui vengono puntualmente sottolineati i limiti caratteriali e le ambizioni egemoniche – queste denuncie non sembrano insensate, e un loro approfondimento contribuisce a ricostruire la dimensione dei fatti.
Ricordiamo sinteticamente i passaggi recenti più importanti della vicenda in corso:
- Decine di fermi e di arresti a partire dal 17 dicembre per accuse di corruzione (frode, appropriazione indebita, traffico illegale di oro) – fra i fermati il figlio del ministro dell’Ambiente;
- Il 21 dicembre altri 16 arrestati, fra cui il direttore generale della Halk Bank (banca a controllo pubblico) e i figli dei ministri degli Interni e dell’Economia;
- Reazioni governative (circa 30 ufficiali di polizia rimossi e licenziati) e controreazioni della magistratura (il Consiglio di Stato annulla il regolamento che imponeva alla polizia giudiziaria di informare preventivamente il governo di determinate indagini; un procuratore della Repubblica accusa la polizia di avere dato tempo e modo agli indagati di inquinare le prove), mentre gli accusati si discolpano e l’esercito non prende posizione;
- Dimissioni dei ministri i cui figli sono stati coinvolti nell’inchiesta (Ambiente, Interni, Economia) e rimpasto governativo con altri sette ministri sostituiti (in totale pertanto ben 10 su 21);
- Tre parlamentari notoriamente “liberali” dell’AKP (fra cui l’ex ministro della Cultura Gűnay) lasciano nello stesso giorno il partito, accusandolo di connivenza con la corruzione .
Parallelamente all’azione giudiziaria si è scatenata una vera e propria tempesta economica, o meglio finanziaria: gli indici di borsa sono al minimo da 17 mesi a questa parte, la lira sta crollando rispetto al dollaro nonostante le iniezioni di grandi quantità di denaro operate dalla Banca Centrale nel tentativo di sostenere la moneta nazionale. E’ da tenere presente che la Turchia si affida ai flussi di denaro straniero per finanziare il suo deficit delle partite correnti (attualmente il 7,5 % del PIL), e la politica monetaria della statunitense Federal Reserve – che ha di fatto ridotto gli investimenti USA in obbligazioni estere – sta mettendo in grossa difficoltà Ankara. Speculazione finanziaria (sulla lira turca) e azione dirompente della Fed possono insomma essere associate a quelle “lobbies dei tassi d’interesse” cui si accennava all’inizio; c’è di più, perché la messa sotto accusa della Halk Bank rappresenta da una parte un attacco alla finanzia pubblica e al ruolo dello Stato nella politica monetaria, dall’altra un attacco alle relazioni fra Turchia e Iran, i cui rapporti commerciali sono sostenuti proprio da tale istituto bancario.
Il tradizionale scontro fra alta magistratura/forze armate (queste ultime per ora alla finestra) e politica si affianca a probabili e assai verosimili influenze internazionali (in Turchia sarebbe veramente sorprendente se non fosse così). Ciò prescinde, ovviamente, dall’effettiva consistenza di accuse di corruzione sulle quali non è possibile ancora pronunciarsi.
Un parlamentare dell’AKP, Mehmet Metiner, in un’intervista rilasciata a un’agenzia di stampa iraniana ha lanciato precise accuse: “La grande “operazione contro la corruzione” partita il 17 dicembre si deve all’insoddisfazione di Stati Uniti, Israele e del movimento di Fethullah Gűlen per le relazioni fra Turchia e Iran”.
Un altro deputato del partito di governo, Salih Kapusuz, ha parlato di “forze occulte di oltre Atlantico”, e di “collegamenti disgustosi”, riferendosi verosimilmente al ruolo giocato da Gűlen, che risiede come è noto a Philadelfia e che rappresenta ormai lo pseudo Islam occidentalizzato che tanto spazio ha assunto nella strategia geopolitica atlantica. Diversi quotidiani turchi hanno ripreso le critiche al potente alleato statunitense, sottolineando il ruolo a dir poco ambiguo dell’ambasciatore di Washington, Francis J. Ricciardone (lo stesso Erdogan ha, senza nominarlo, fatto riferimento al “ruolo provocatorio” di alcuni diplomatici che rischiano l’espulsione). Ricciardone non è – per la cronaca – un diplomatico qualsiasi: è l’alto funzionario che coordinò la task force del Dipartimento di Stato costituita subito dopo l’Undici Settembre nell’ambito della “coalizione contro il terrorismo”. Oggi sarebbe lui, in particolare, a mettere nel mirino la banca di Stato Halk Bank e i suoi rapporti con l’Iran.
Ma perché un “cambio di regime”nei confronti di un alleato tutto sommato fedele e addirittura in prima fila nella sanguinosa (e disastrosa) operazione siriana ? Rimandiamo per questo a un precedente articolo che trattava i numerosi precedenti della conflittualità fra AKP e mondo intellettuale/politico/finanziario occidentale:
http://www.eurasia-rivista.org/occupy-taksim-e-svolta-occidentale-per-la-turchia/19733/
Vi è da aggiungere quella che non è una svolta – ne è ben lungi – ma un campanello d’allarme per chi confida in una Turchia battistrada di un impegno bellicista. Il 27 novembre, con una dichiarazione congiunta che ha destato sorpresa già per il fatto della condivisione, Turchia e Iran si sono espressi per un immediato cessate il fuoco in Siria – contro l’esplicita volontà dei ribelli, che non accettano la sospensione del conflitto, e raccogliendo invece l’invito in tal senso di Putin.
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