Questo libro – avverte la Premessa dell’Autore – vuole essere un contributo alla definizione, sul piano storico e filosofico, delle categorie centrali dell’odierna ideologia della guerra”, cioè di quell’ideologia che accompagna e stimola la “guerra al terrorismo” intrapresa dagli Stati Uniti d’America.
Di tali categorie, è proprio quella del terrorismo ad essere esaminata per prima in questo libro, concepito come un lessico essenziale della neolingua occidentalista. Losurdo ci fornisce dunque una panoramica significativa delle varietà del terrorismo, soffermandosi via via sugli “omicidi mirati”, sulle “esecuzioni extragiudiziarie”, sui bombardamenti indiscriminati, sulla pratica dell’embargo come surrogato o complemento dei bombardamenti effettuati sulla popolazione civile ecc. L’accusa di “terrorismo”, che l’ideologia americana rivolge in primo luogo in direzione del mondo islamico, viene in tal modo rispedita al mittente, ossia a chi ha elaborato piani segreti per eliminare dirigenti politici e militari di altri paesi, contro chi fa regolare ricorso all’assassinio dei capi palestinesi, contro chi ha cominciato la sua attività liberatrice scaricando il fosforo su Dresda e l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, contro chi ha provocato la morte di mezzo milione di bambini iracheni per mezzo delle sanzioni. “La stessa pratica del mozzamento delle teste dei colpevoli e della loro esibizione a fini pedagogico-terroristici” (p. 21), considerata dall’odierna propaganda antislamica come peculiare dei “tagliagole” musulmani, è stata utilizzata a lungo e in diversi luoghi dagli Occidentali. A tale proposito Losurdo cita una casistica che coinvolge Francesi, Inglesi e Statunitensi; nessun cenno viene fatto però a quell’anno dei portenti, il 1793, in cui il medesimo governo che approvò la prima costituzione democratica fece anche funzionare a pieno ritmo il moderno strumento della decapitazione rapida, efficiente e, per l’appunto, democratica.
Un’altra importante categoria dell’ideologia americana è costituita dal fondamentalismo, una categoria che il linguaggio occidentalista utilizza per “mettere l’islam in stato d’accusa per la sua presunta incapacità di comprendere le ragioni della modernità” (p. 43). Coniato dagli anglosassoni per indicare la “autodesignazione positiva e orgogliosa di sé” (ibidem), tale termine corrisponde perfettamente all’atteggiamento di chi, ritenendo di avere con Dio un rapporto del tutto privilegiato, si ritiene investito di una speciale missione divina da svolgere nel mondo. Tipiche manifestazioni fondamentaliste si riscontrano dunque, più che nella storia dell’Islam, in quella dell’ebraismo e del particolarissimo cristianesimo nordamericano: “Se molteplici sono le forme che può assumere il fenomeno del fondamentalismo, solo nel caso dell’America e di Israele esso finisce col consacrare teologicamente un paese e un popolo ben determinato, e solo nel caso degli Stati Uniti il fondamentalismo garantisce l’assistenza divina alla pretesa di edificare un impero planetario” (p. 87). Lo stesso motivo della “guerra santa” (che generalmente e impropriamente il mondo occidentale tende a far coincidere con la nozione coranica di gihàd) attraversa tutta la storia statunitense; e qui forse non sarebbe stato superfluo ricordare che l’Europa fece diretta esperienza di ciò, quando l’aggressione statunitense degli anni ’40 del Novecento inalberò l’insegna ideologica della Crusade to Europe.
L’Autore passa poi ad esaminare l’accusa di antiamericanismo, che viene formulata all’indirizzo di quanti esprimano proteste o anche semplicemente riserve e critiche nei confronti dell’azione statunitense. Al fine di smentire la tesi secondo cui nell’antiamericanismo sarebbe confluita una duplice eredità – di “destra” e di “sinistra” – Losurdo dedica metà del capitolo sull’antiamericanismo a documentare l’ammirazione che l’America suscitò sia presso i marxisti sia presso i nazionalsocialisti. Il paragrafo sull’elogio marxista dell’America appare però piuttosto scarno, non solo perché sono ridotte ai minimi termini le citazioni dei passi filoamericani di Marx, Engels e Gramsci (Trotzky viene ignorato), ma anche perché manca ogni accenno all’azione culturale svolta dagli intellettuali comunisti (ad esempio Elio Vittorini e tutti quei suoi compagni che gravitavano nell’orbita del Partito Comunista clandestino) e all’attività di propaganda filoamericana svolta dai militanti comunisti (a cominciare da Palmiro Togliatti, che negli anni della guerra si rivolgeva da Radio Mosca agli ascoltatori italiani esortandoli alla “riconoscenza verso il popolo degli Stati Uniti”, nel cui “accento maschio par di sentire il rombo di mille fabbriche che giorno e notte lavorano, senza posa, a forgiare cannoni, tank, aeroplani, munizioni”). Invece, l’Autore si sofferma più estesamente su quelli che a lui appaiono come “motivi d’ispirazione che il nazismo desume da certi aspetti della Repubblica nordamericana” (p. 97). Per quanto infine concerne la posizione del fascismo nei confronti del mito americano, l’Autore non tiene conto della documentazione elaborata in ricerche come quella di Michela Nacci (L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Bollati Boringhieri 1989).
Particolarmente massiccio è il capitolo riservato alla voce Antisemitismo, nel quale l’Autore si prefigge di mostrare come l’atteggiamento antiebraico, che la propaganda occidentalista connette all’antiamericanismo, sia sì storicamente diffuso nel mondo europeo, ma non risulti assente negli stessi Stati Uniti. La demistificazione dell’accusa di antisemitismo tentata da Losurdo presenta a nostro parere alcune carenze e lacune. Innanzitutto egli non mette in questione il valore semantico generalmente e indebitamente attribuito al termine antisemitismo, che è praticamente sinonimo di antiebraismo, nonostante la nozione etnolinguistica di semita rimandi a un complesso di popolazioni che nella stragrande maggioranza non sono affatto ebraiche (gli Accadi, i Cananei, i Fenici e soprattutto gli Arabi, oggi i più numerosi) e nonostante la stragrande maggioranza degli Ebrei odierni non possa esser detta semitica: né in relazione alla lingua madre, né in relazione all’origine. A quest’ultimo proposito, Losurdo sembra voler liquidare come leggenda antisemita la discendenza degli Ebrei aschenaziti dai Cazari; ma allora sarebbe antisemita anche Arthur Koestler…
Parimenti abusivo è il valore semantico che viene assegnato, in questo come anche in altri capitoli del libro, ad un’altra espressione: “soluzione finale”. Ciò è dovuto al fatto che il termine tedesco corrispondente, Endlösung, è stato surrettiziamente estrapolato da un contesto in cui esso era parte del sintagma “territoriale Endlösung” e quindi alludeva non ad un programma genocida (di cui peraltro nessun documento storico ha mai comprovato l’esistenza), bensì ad un progetto di “definitiva soluzione” del problema ebraico attraverso un trasferimento forzato degli Ebrei dell’Europa centrale in altri territori. Coerentemente con questa adesione al dogma olocaustico (che a p. 151 lo fa cadere nella vieta e conformista retorica di quel “dopo Auschwitz” che sembra la caricatura postmoderna del “dopo Cristo”), nel capitolo successivo (Antisionismo) Losurdo bolla come “sciagurata” (p. 186) la “tendenza a ridimensionare l’orrore dell’olocausto ebraico” (ibidem) ed esorta a “condannare con fermezza i tentativi di Ahmadinejad di mettere in dubbio la realtà e la radicalità della ‘soluzione finale’” (p. 178). D’altronde, di Ahmadinejad viene denunciato il “grave torto” (p. 177) di “non distinguere nettamente tra giudizio storico e giudizio politico” (ibidem), in quanto la scomparsa dell’entità sionista, prospettata come inevitabile dal presidente iraniano, sarebbe una pura e semplice “impossibilità” (ibidem).
Ma Losurdo è caduto vittima anche di un’altra falsificazione propagandistica, poiché ha ingenuamente accreditato, citandoli tra le fonti, addirittura i Gespräche mit Hitler di Hermann Rauschning (smascherati come una grossolana falsificazione della propaganda di guerra da Wolfgang Hänel, Hermann Rauschnings “Gespräche mit Hitler”. Eine Geschichtsfalschung, Zeitgeschichtliche Forschungsstelle, Ingolstadt 1985), mentre i più attendibili Tischgespräche, inseriti anch’essi tra i riferimenti bibliografici, non vengono invece utilizzati quando potrebbero contrastare con alcune tesi dell’Autore, per esempio con la tesi di un Hitler erede della Reconquista (p. 171). Orbene, i Bormann-Vermerke registrano queste affermazioni del Führer, che con un’immagine del genere discordano alquanto: “L’epoca araba fu l’epoca d’oro della Spagna, la più civile. Poi venne l’epoca delle persecuzioni, sempre ricominciate (…) La civiltà è stata uno degli elementi costitutivi della potenza dell’Impero Romano. Lo stesso accadde in Ispagna, sotto la dominazione degli Arabi. La civiltà vi raggiunse un livello che di rado ha raggiunto. Un’epoca, indiscutibilmente, di umanesimo integrale, nella quale regnò il più puro spirito cavalleresco. L’intrusione del cristianesimo ha portato il trionfo della barbarie. Lo spirito cavalleresco dei Castigliani è in effetti un’eredità degli Arabi” (A. Hitler, Idee sul destino del mondo, Ar 1980, vol. III, pp. 529 e 582).
La foga della retorica antinazista porta Losurdo ad alcune affermazioni piuttosto curiose, come quella secondo cui l’Asse Roma-Berlino-Tokyo costituì, nell’epoca dell’egemonia anglosassone, “il puntello principale del dominio imperialista” (p. 169), o come quella secondo cui gli Arabi “rientrano tra le vittime della politica razziale del Terzo Reich” (p. 170), sicché il nazionalsocialismo ha “colpito anche gli arabi e gli islamici” (p. 171)!
Dato il tentativo occidentalista di imporre nella neolingua la sinonimia di antisemitismo e antisionismo, Losurdo ritiene opportuno mostrare come in realtà tali concetti non si equivalgano affatto; addirittura egli si sforza di presentare il sionismo come “una specie di antisemitismo” (p. 193) o, quanto meno, come una soluzione approvata e preconizzata dagli antisemiti, in particolare dagli antisemiti fascisti e nazionalsocialisti. Questo schema appare però piuttosto parziale, riduttivo e forzoso. E non solo perché il sionismo ha goduto di una simpatia e di un appoggio proveniente sia da “destra” che da “sinistra” e dal “centro”, ma anche perché i fascisti, i filofascisti e i nazionalsocialisti non hanno mai avuto una posizione univoca in relazione al progetto sionista. Per rendersi conto dell’estremaa divergenza di vedute che regnava in tali ambienti verso la metà degli anni Trenta, sarà sufficiente dare un’occhiata al saggio introduttivo che ho scritto per il libro di Herman de Vries de Heekelingen, Israele. Il suo passato, il suo avvenire, Genova 2004.
Siccome “il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’islam in quanto tale” (Huntington), il filo-islamismo è l’accusa che dagli occidentalisti viene lanciata contro gli Europei incuranti della necessità di difendere una civiltà che sarebbe, secondo gli occidentalisti stessi, “greco-romana-ebraico-cristiana”. Losurdo contesta la legittimità di questo aggregato di aggettivi, che vorrebbe rinviare a un’entità unitaria e compatta, costituita di componenti armonicamente e indissolubilmente fuse; e lo fa ricordando sia la lotta mortale che contrappose il mondo greco-romano all’ebraismo e al cristianesimo, sia il lungo conflitto che contrappose il cristianesimo al giudaismo, sia “le profonde lacerazioni che per secoli hanno attraversato la cristianità” (p. 190). Il carattere ideologico della qualifica “greco-romana-ebraico-cristiana” attribuita alla civiltà europea risalta ulteriormente quando si considera che, accanto alle radici evocate da questi aggettivi, ce n’è anche un’altra, la quale, per quanto secondaria rispetto ad altre, non può tuttavia essere sottaciuta: si tratta di quella “radice islamica dell’Europa” che dà il titolo al libro di Jevolella da me recensito su “Eurasia” 2/2007. Così anche l’idea di una “contrapposizione tra mondo ebraico-cristiano da un lato e islam dall’altro” (p. 191) ci appare per quello che è, ossia uno stereotipo ideologico, qualora solo si consideri il contributo fornito dai cristiani alle società degli imperi islamici, da quello omayyade fino a quello ottomano.
Ma più che sulla “tradizione islamico-cristiana” (p. 192) Losurdo si sofferma sulla “tradizione ebraico-islamica” (p. 191) già a suo tempo idealizzata da Benjamin Disraeli, poiché ritiene che, attraverso questa immagine “ritagliata” ad usum delphini, sia possibile sconfiggere la visione di un Islam bollato come “antisemita”. Anzi, Losurdo ribalta sull’Occidente quell’accusa di “antisemitismo” che viene attualmente rivolta all’Islam: secondo lo schema che egli ci fornisce, l’antisemitismo occidentale ha semplicemente sostituito il suo vecchio bersaglio ebraico con il nuovo bersaglio islamico. Per dirla con le sue parole: “più che di un antisemitismo di tipo nuovo, arabi e islamici sono il bersaglio del razzismo che ha tradizionalmente colpito i popoli coloniali o comunque considerati estranei alla civiltà” (p. 205). Se in questa tesi c’è qualcosa di vero, essa è tuttavia troppo rigida e schematica per non presentare alcuni punti deboli. La prima obiezione che verrebbe da fare, è che il colonialismo aveva ben poco di “antisemita” nel senso corrente di “antiebraico”. Non era certamente “antisemita” Disraeli; né quel Crémieux che col decreto del 1870 diede la cittadinanza francese agli ebrei d’Algeria; né Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, che nel XIX secolo diedero inizio alle avventure coloniali dell’Italia liberale. Ma quello che ci preme di far notare è altro: l’idea secondo cui il musulmano sarebbe subentrato all’ebreo nel ruolo di vittima del razzismo europeo non è nuova. L’immagine del musulmano quale nuovo ebreo è stata fabbricata dagli agit-prop della propaganda atlantista quando bisognava sostenere con un “argomento” emozionale l’”ingerenza umanitaria” degli USA nei Balcani, dove, secondo le fucine mediatiche, il “nuovo Hitler” serbo aveva intrapreso l’applicazione della sua “soluzione finale”. La propaganda di guerra produsse perfino il Diario di una “Anna Frank musulmana”! Ma questa invenzione dei musulmani bosniaci e kosovari quali “nuovi ebrei”, oltre che a demonizzare il nemico di turno dell’Occidente, serviva simultaneamente a rafforzare il paradigma sionista dell’ebreo quale vittima esemplare e archetipica. Anche se Losurdo cerca di usare quest’arma concettuale nel quadro di una strategia opposta a quella dei vari Glucksmann, Lévy & Sofri, resta il fatto che l’arma in questione non è neutra, ma è di per se stessa veicolo dell’ideologia che si vorrebbe combattere, sicché, alla fin dei conti, usarla equivale ad accettare il paradigma imposto dal nemico e a convalidarlo ulteriormente.
L’ultima eresia presa in considerazione in questo “lessico dell’ideologia americana” è l’odio contro l’Occidente, “il crimine o morbo che porta a deformare il volto sacro della civiltà, della società aperta e libera, in una parola dell’Occidente, e che oggi infuria in primo luogo nel mondo arabo e islamico” (p. 244). Se quest’ultimo non ama l’Occidente come l’Occidente vorrebbe, non è certo a causa delle misure adottate dalla Germania nazionalsocialista nei confronti degli ebrei. Anzi. È, ovviamente, per ben altri motivi, sui quali in quest’ultimo capitolo non si concentra l’attenzione dell’Autore, occupato a individuare nel Terzo Reich il momento culminante e supremo del male occidentale e a tracciare una linea di continuità fra ideologia nazionalsocialista e ideologia americana.
Concludiamo con alcune considerazioni circa il concetto di “impero americano”, enunciato esplicitamente nel capitolo conclusivo e riecheggiato dal titolo stesso del libro.
L’impero, come insegna Carl Schmitt, “non è semplicemente uno Stato più grande”; e, se è vero che ad ogni impero corrisponde un grande spazio, è anche vero che non ad ogni grande spazio corrisponde un impero. Per quanto riguarda la sua essenza, l’impero è propriamente un ordinamento giuridico-politico che, ponendosi al di sopra di una pluralità di gruppi nazionali e confessionali, svolge una funzione regolatrice garantendo l’armonia e l’equilibrio delle diverse parti dell’organismo imperiale; animato da una sacralità trascendente che si riflette nella visione spirituale comune ai popoli della comunità imperiale, esso adempie ad un compito anagogico, in quanto agisce come guida verso il bene e la felicità; è garanzia di ordine e di pace, in quanto è sua la forza “che trattiene” (katéchon) la manifestazione apocalittica del caos e dell’iniquità.
Se l’idea di impero corrisponde a tali caratteristiche essenziali, è evidente che il sistema egemonico statunitense non ha nulla di imperiale. Se mai, il potere esplicato dagli Stati Uniti costituisce una contraffazione parodistica dell’impero, poiché, mentre scimmiotta e sfigura alcuni esteriori aspetti formali di esso, per quanto concerne la propria essenza rivela invece un orientamento diametralmente opposto a quello imperiale. Confrontato con la realtà dell’impero, quale essa emerge dalla fenomenologia storica, il concetto di “impero americano” appare dunque come un vero e proprio ossimoro. Il lessico dell’ideologia americana non è dunque il linguaggio dell’Impero, ma, più propriamente, il linguaggio dell’imperialismo.
Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Bari 2007
Recensione a cura di Claudio Mutti, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, a. IV, n. 3 (Luglio-Settembre 2007), pp. 249-254
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