Già nel 1942, all’interno del suo celebre saggio Terra e mare, il giurista tedesco Carl Schmitt ebbe modo di affermare: “La fede nella predestinazione è solo l’intensificazione estrema della coscienza di appartenere ad un mondo diverso da quello corrotto e condannato al declino”[1].

Volendo trasferire tale concetto alla realtà attuale, appare evidente che il neotrumpismo, con la sua fede nella “rinascita americana” dopo la sconfitta delle corrotte “élite globaliste”, si palesa come il tentativo di presentare il nuovo corso statunitense come un qualcosa d’“altro” rispetto a quello precedente condannato appunto al declino.

Nell’Occidente egemonizzato culturalmente da Washington, ogni quattro anni le masse si entusiasmano di fronte al processo elettorale nordamericano nella convinzione (del tutto errata) che da queste si possa realmente generare una “svolta epocale” o una qualche “cesura storica”. Fu così già ai tempi di Ronald Reagan e del primo mandato di Barack Obama, anch’egli capace di raccogliere consensi su entrambi i lati della “barricata” (da non dimenticare che il principale sostenitore della campagna elettorale di Donald J. Trump, Elon Musk, è stato a lungo in più che buoni rapporti proprio con l’amministrazione Obama e gli ambienti vicini ai democratici).

La storia, tuttavia, troppo spesso ignorata da analisti e mezzi di informazione, dice qualcosa di completamente diverso. E allora appare chiaro che i fenomeni e le dinamiche alle quali si sta assistendo sono inserite all’interno di un processo storico che ha radici lontane, si sviluppa in tempi dilatati, ed avrà effetti per anni e decenni sulle generazioni future.

Tale processo, che si lega in modo indissolubile al declino del potere egemonico globale degli Stati Uniti, non può essere fermato; al massimo può essere accelerato o rallentato. Ed è chiaro che in un mondo che procede verso l’evoluzione multipolare (incentrata in questo momento sulla dedollarizzazione e sulla costruzione di un sistema polivalutario) l’elezione di Donald J. Trump rappresenta una sorta di “potere frenante”: un nuovo katechon (per riprendere un concetto utilizzato sempre da Carl Schmitt) che riempie di speranza i nostalgici dell’ordine unipolare. 

Di fronte alla sfida di forze multipolari (quali Russia, Cina, Iran e così via) che hanno messo in discussione il paradigma dogmatico dell’ordine globale liberale (soprattutto a partire dalla crisi economica del 2007-2008), il trumpismo appare come il tentativo statunitense di guidare il processo di transizione verso il multipolarismo e non di subirlo. In altri termini, si tratta di una riproposizione in veste “conservatrice” del multilateralismo proposto a suo tempo dal duo Obama-Clinton. 

A questo proposito, risultano particolarmente interessanti le riflessioni di Patrick Deneen (considerato come uno dei pensatori di riferimento di J. D. Vance) sull’ordine globale americano postliberale, e quelle di Curtis Yarvin (altro ideologo di spicco del neotrumpismo) al quale si deve l’idea che il Presidente USA si debba comportare come una sorta di amministratore delegato aziendale in modo da gestire il processo di trasformazione del sistema statunitense[2].

Questo “processo di trasformazione” non è altro che il prodotto dello scontro tra differenti potentati economici: l’alleanza (del tutto particolare) tra gruppi oligarchici legati all’alta tecnologia (Musk e simili) ed all’industria petrolifera contro i settori “tradizionali” (dalla finanza transnazionale a parte del comparto bellico-industriale) che finora hanno garantito l’accesso alla Casa Bianca. Da non sottovalutare, infatti, il dato che le stesse imprese “high tech” oggi si presentano come potenziali competitori sul mercato degli armamenti con l’industria militare tradizionale.

Di conseguenza, riprendendo un’idea sostenuta dal già citato Yarvin, si tratterebbe della sostituzione del vecchio “deep State” con uno del tutto rinnovato, coadiuvato da una “parzialmente rinnovata” sovrastruttura ideologica.

Naturalmente i presunti schieramenti sono assai più trasversali e ricchi di sfumature di quanto si possa credere. Basti pensare che personaggi come Larry Fink (a capo del noto fondo di investimento BlackRock) godono di ottime relazioni su entrambi i lati. Lo stesso processo di re-industrializzazione degli Stati Uniti (al quale mira parte dei gruppi oligarchici che oggi sostengono Trump) ha avuto inizio sin dall’era Obama e, paradossalmente, l’amministrazione Biden (con la distruzione del tessuto industriale europeo seguito alla guerra contro la Russia) ha fatto passi da gigante in questo senso.

Tra l’altro, riaffermando il concetto del tempo dilatato dei fenomeni storici, sarebbe utile ricordare che il processo di de-industrializzazione dell’Occidente è iniziato ben prima dell’era del globalismo sfrenato. Come affermava Johann von Leers in un suo libello di confutazione di alcuni miti spengleriani: “La dispersione dell’industria occidentale è in pieno sviluppo dal 1900. Le filande indiane vengono create come filiali di fabbriche inglesi […] Negli Stati Uniti, l’industria emigra continuamente da Chicago e New York verso i territori negri del Sud, e la tendenza non si arresterà nemmeno davanti ai confini del Messico”[3].

Dunque, appare del tutto curioso constatare come uno dei primi ideologi del trumpismo, Steve Bannon, abbia spesso elogiato questo “capitalismo illuminato” di inizio Novecento che ha fornito agli Stati Uniti i mezzi per sconfiggere il nazismo e “respingere un impero barbarico in Estremo Oriente” (il riferimento è all’URSS)[4].

In precedenza si è parlato di una “parzialmente rinnovata sovrastruttura ideologica”. Di fatto, come già affermato, il neotrumpismo non si scosta in modo particolare dalla tradizionale dialettica politica statunitense incentrata su due modi differenti di intendere i concetti di derivazione teologica della “predestinazione” e del “destino manifesto”. Se è vero che il primo trumpismo si presentava come decisamente più estremizzato, è altrettanto vero che il neotrumpismo, abbandonate in parte le istanze pseudoreligiose e cospirazioniste (si pensi al fenomeno QAnon, comunque non del tutto estinto e pronto a risorgere all’occorrenza), appare assai più pragmatico, sebbene ancora radicato nel tessuto delle sette protestanti messianiche e di quelle ebraiche. La scelta della “squadra di governo”, in tal senso, risulta emblematica. E questo consente una prima approssimazione ad un discorso più prettamente geopolitico.

Come Segretario di Stato, infatti, è stato scelto il Senatore della Florida Marco Antonio Rubio, che ha superato la concorrenza di Mike Pompeo (il quale, nel corso del primo mandato trumpista, subentrò al petroliere Rex Tillierson). La sua visione per ciò che concerne la politica estera, tuttavia, non si scosta in modo evidente da quella del “neoconservatore” Pompeo. Rubio è stato un convinto sostenitore dell’aggressione all’Iraq nel 2003 e di quella alla Libia (sotto l’ombrello NATO) del 2011. Inoltre, ha appoggiato il sostegno logistico degli Stati Uniti all’aggressione della coalizione a guida saudita contro lo Yemen (che ha conosciuto il suo picco proprio sotto la prima amministrazione Trump). Allo stesso tempo, nel 2017, ha appoggiato un’iniziativa trasversale del Senato degli Stati Uniti esprimente una netta opposizione alla risoluzione ONU 2334 che indicava come violazione del diritto internazionale la costruzione degli insediamenti sionisti nei Territori Occupati della Cisgiordania[5]. Rubio, infine, è apertamente critico nei confronti della politica attuale della Turchia; fattore che non dovrebbe essere sottovalutato alla luce della crescente tensione tra Tel Aviv ed Ankara.

Decisamente più interessante la nomina dell’ex militare ed ex democratica Tulsi Gabbard come National Intelligence Director. Già critica nei confronti dell’aggressione contro la Siria, la Gabbard sembra essere stata scelta per realizzare il “sogno” del riavvicinamento alla Russia e della divisione dell’asse Mosca-Pechino sul quale si sta fondando la “Grande Eurasia” (secondo l’espressione del geopolitico russo Sergej Karaganov). Uno degli obiettivi dell’amministrazione Trump sembra proprio essere quello del progressivo disimpegno dal teatro ucraino; inizialmente scaricandone i costi sulle spalle dell’Europa (forzando ulteriormente l’incremento della spesa militare) e, successivamente, cercando un compromesso per il congelamento del conflitto. Resta da capire quanto Mosca possa essere disponibile a suddetto compromesso – la soluzione più plausibile è la divisione dell’Ucraina in sfere di influenza, la sua neutralità ed il riconoscimento delle conquiste territoriali russe – e come Washington potrà mascherare quella che sembra essere a tutti gli effetti una sconfitta strategica. È possibile che questa venga attribuita in toto all’amministrazione Biden. Tuttavia, è utile ricordare che nel corso del primo mandato trumpista, con l’uscita unilaterale dal Trattato INF ed il consolidamento della presenza militare della NATO ai confini della Russia (Iniziativa Tre Mari inclusa), si sono poste le basi per l’attuale situazione di conflitto. Così come è altrettanto utile ricordare che nel momento dell’elezione di Volodymyr Zelensky l’Ukraine Crisis Media Center (organizzazione non governativa finanziata dalla NATO e vicina a Petro Poroshenko, a sua volta in ottimi rapporti con l’amministrazione Trump) fornì al neoeletto Presidente ucraino una serie di linee rosse da non oltrepassare nel corso del suo mandato. Queste comprendevano il divieto di ogni forma di negoziato con la Russia, il divieto di perseguire penalmente per corruzione lo stesso ex Presidente Poroshenko, il divieto di porre come referendum l’ingresso nella NATO, il divieto di riconoscere ogni forma di autonomia alle popolazioni russofone.    

Assai interessante anche la nomina a Segretario alla Difesa dell’ex veterano dell’Iraq e commentatore televisivo Pete Hegseth. Questi appare come un convinto sostenitore dell’huntingtoniano “scontro tra le civiltà” e di una idealizzazione in senso moderno e islamofobo del fenomeno storico delle crociate medievali. Come tale fenomeno storico (prettamente cristiano, religioso e geopolitico al contempo) possa essere associato all’ultrasionismo dello stesso Hegseth rimane un mistero difficilmente spiegabile in termini razionali, ma comunque riconducibile a quel sionismo cristiano che, nato in ambito protestante a cavallo della metà del XIX secolo, considerava il ritorno degli ebrei in Terra Santa come il prodromo al Secondo Avvento di Gesù Cristo.

In un discorso tenuto all’hotel King David di Gerusalemme nel 2019, in occasione della conferenza annuale di Arutz Sheva (canale informativo vicino al sionismo religioso), Pete Hegseth presentò in modo chiaro le sue idee. In primo luogo, sostenne l’esistenza di un “eternal bond” (legame eterno) tra Israele e Stati Uniti[6]. In secondo luogo, in linea con il pensiero huntingtoniano ed in contrasto con il “liberale” Fukuyama, affermò che la “storia non è finita” e che “l’America non è inevitabile”[7]. Di conseguenza, è necessario che la stessa America intervenga continuamente nella storia in modo da mantenere il suo primato, eliminando i suoi rivali e quelli di Israele a partire dalla “testa della piovra”: la Repubblica Islamica dell’Iran[8]

Non solo, all’intero del medesimo discorso, Hegseth ha garantito il suo sostegno all’annessione della totalità della Palestina da parte di Israele ed ha elencato una lunga serie di “miracoli” che dimostrerebbero il “sostegno divino” alla causa sionista: “1917 was a miracle; 1948 was a miracle; 1967 was a miracle; 2017, the decoration of Jerusalem as a capital, was a miracle, and there is no reason why the miracle of the re-establishment of the temple on the temple mount is not possible” (non c’è ragione di credere che il miracolo della costruzione del tempio sul “monte del tempio” non sia possibile)[9].

Sulla stessa lunghezza d’onda sembra essere il nuovo ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee, che a più riprese ha sostenuto l’inesistenza e l’insignificanza storica del popolo palestinese e lo scorretto uso del termine “occupazione” per definire il regime sionista nei Territori Occupati.

Ora, il legame del trumpismo con le espressioni (anche differenti) del messianismo ebraico non è una particolare novità. Il genero dello stesso Trump, Jared Kushner, è assai vicino alla setta Chabad Lubavitch. E sempre Trump, in occasione dell’anniversario del 7 ottobre (un nuovo “giorno della memoria”), si è recato in visita al cimitero ebraico di New York dove si trova la tomba del rabbino Menachem Mendel Schneerson, capo della setta, che nel 1991 dichiarò ai suoi seguaci: “Ho fatto tutto il possibile per far arrivare il Messia, ora passo a voi tale missione; fate tutto ciò che potete per farlo arrivare”[10]. Fin qui niente di rilevante. Tuttavia, appare curioso notare come il consenso a tale setta sia in realtà piuttosto trasversale all’interno della politica a stelle e strisce. Lo stesso rabbino, infatti, venne insignito della medaglia d’oro del Congresso USA nel 1994 tra gli applausi dell’allora Presidente democratico Bill Clinton. Ed i Chabad Lubavitch, tra i loro amici di vecchia data, possono annoverare l’ormai ex Presidente Joe Biden, apprezzato per le sue sincere posizioni sioniste. Ad ulteriore dimostrazione del fatto che nella lotta ideologica tra le élite nordamericane, in realtà, esiste, al di là delle apparenze, una notevole continuità di intenti (soprattutto in ambito geopolitico) tra le diverse amministrazioni.

Ora, sul piano pratico, le scelte di Trump indicano una direzione precisa: il riconoscimento della sovranità israeliana sulla Cisgiordania (sulla scia di quanto già fatto con le Alture del Golan nel corso del primo mandato). Questo, nel breve periodo, servirà ad acquietare Netanyahu, dal quale, in cambio, si spera di ottenere un disimpegno dal Libano. La comunità araba statunitense ha infatti votato in larga maggioranza Donald J. Trump grazie all’intercessione del milionario libanese-americano Massad Boulos, il cui figlio Michael è sposato con Tiffany Trump (figlia minore del neoeletto Presidente USA). E lo stesso Boulos sembrerebbe il nome caldo per un ruolo di primo piano all’interno della politica libanese una volta “liberata” dall’ingombrante presenza di Hezbollah[11]. Non dovrebbero sorprendere in questo caso i reiterati inviti di Tel Aviv (finora infruttuosi) alla “ribellione” degli stessi Libanesi contro il Partito di Dio ed alla sua marginalizzazione politica.

Così facendo, il Libano, nel medio-lungo periodo, potrebbe rientrare all’interno del sistema degli “Accordi di Abramo”, garantendo ad Israele un’espansione della sua zona di influenza che potrebbe portarlo fino ai confini della Turchia (altra ragione delle crescenti preoccupazioni di Ankara, visto il sostegno accordato da Tel Aviv alle fazioni curde).

Rinvigorire ed ampliare gli “Accordi di Abramo” significa in primo luogo affermare il ruolo di Israele (e dunque degli USA) come asse portante di un corridoio energetico-commerciale (la “Via del Cotone” pensata dall’amministrazione Biden), che dall’Oceano Indiano arriva fino al Mediterraneo orientale e si pone in diretta concorrenza con il progetto cinese della Nuova Via della Seta e con il ruolo dei porti turchi nell’area.

In secondo luogo, la contemporanea liquidazione della questione palestinese e la riduzione delle capacità del cosiddetto “Asse della Resistenza” di colpire in modo asimmetrico Israele si presentano come funzionali al disegno statunitense di accerchiamento, attacco (diretto?) e distruzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Obiettivo, quest’ultimo, che molto probabilmente verrà lasciato in eredità al successore di Donald J. Trump.


NOTE

[1]C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002, p. 84.

[2]Questi aspetti sono già stati affrontati nell’articolo Paleotrumpismo e neotrumpismo, 18 settembre 2024, www.eurasia-rivista.com.

[3]J. von Leers, Contro Spengler, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, p. 51.

[4]Si veda A. Braccio, Gli USA contro l’Eurasia: il caso Bannon, 20 settembre 2018, www.eurasia-rivista.com.

[5]Si veda Bipartisan group of senators call for repealing UN resolution on Israel, 5 gennaio 2017, www.timesofisrael.com.

[6]Si veda Pete Hegseth at Arutz Sheva Conference, www.youtube.com.

[7]Ibidem.

[8]Ibidem.

[9]Ibidem.

[10]Si veda C. Mutti, Le sètte dell’Occidente, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 2/2021, vol. LXII.

[11]Massad Boulos: the Lebanese billionaire behind Trump’s Arab-American votes, 7 novembre 2024, www.trtworld.com.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).