Come si suol dire, “tanto tuonò che piovve”: “Gli Stati Uniti hanno imposto dazi aggiuntivi del 20% sulle importazioni dall’Italia nell’ambito di una misura straordinaria decisa dal presidente Trump per riequilibrare la bilancia commerciale. Il provvedimento rientra nella strategia «America First» e colpisce 70 Paesi con tariffe differenziate. “Al di là delle lisergiche dichiarazioni di politici e propagandisti longa manus di Trump e delle centrali statunitensi nel nostro paese, i dazi rappresenteranno un serio problema per un paese come il nostro, le cui esportazioni oltreoceano rappresentano una quota molto importante del deficit commerciale statunitense. Tra i settori direttamente più colpiti troviamo la chimica e la farmaceutica, l’agroalimentare, i macchinari, e tra i settori colpiti indirettamente quelli integrati nelle catene del valore di altri paesi daziati, come la Germania. Può essere solo una magra consolazione il fatto di non essere il paese sul quale sono state imposte le aliquote più severe, e sospettiamo non abbia nemmeno troppo senso pensare di andare a negoziare in ordine sparso alla corte del nuovayorkese. L’Italia ha un PIL inferiore a quello di alcuni stati dell’Unione singolarmente presi, e ha negli Stati Uniti un mercato di sbocco importantissimo; cosa potremmo ottenere, nell’illusione di un occhio di riguardo di “The Donald” per una supposta “affinità ideologica”, proprio noi che incidiamo così tanto sull’odiato deficit commerciale a stelle e strisce?
Non è così che si ragiona: occorre risalire la corrente del fiume. Innanzitutto: perché questi dazi? Trump utilizza l’importanza del mercato statunitense per i paesi del resto del mondo, dall’Europa alla Cina passando per Canada e Messico, come arma di ricatto. Il deficit commerciale lo disturba anche se è uno degli strumenti di egemonia globale del dollaro (i dollari che escono dagli USA per importare merci straniere ritornano sotto forma di investimenti nel più florido mercato del mondo: è lì che rendono di più!). Inoltre, è un deficit dato dalle merci: quanto a servizi e ad economia “immateriale” (progettazione di tecnologia o prodotti di intrattenimento) la guida USA sull’economia globale resta intonsa. Lo disturba perché è visto come una perdita di capacità manifatturiera e quindi di mestieri di qualità e di produzioni strategiche. Come fare allora per avere la botte piena – il rientro delle produzioni negli Stati Uniti e il riequilibrio del deficit – e la moglie ubriaca – l’uso internazionale del dollaro come moneta globale? Uso i dazi per far sì che le merci prodotte in patria siano più convenienti di quelle importate, forzando investimenti produttivi nel paese, e ricatto i paesi del mondo all’uso del dollaro con l’accesso al mercato statunitense, e minacciando ogni tipo di sanzione. Una certa svalutazione del dollaro all’annuncio di tali misure e l’inflazione che seguirà dall’implementazione delle stesse portano anche ad una minore onerosità del debito pubblico a stelle e strisce in ordine sparso – tanto più che l’altro ricatto, quello di cui meno si parla, consiste nell’obbligare i paesi esteri ad acquistare titoli del debito pubblico di Washington a lunghissima scadenza. Trump vuole un riequilibrio della mappa geoeconomica globale, non tanto e non solo meno deficit commerciale.
Cosa può andare storto nel piano di Trump? Potenzialmente tutto. Per investire produttivamente in un paese servono innanzitutto certezze, e The Donald non sta creando un clima felice oltre oceano. Reindustrializzazione: come non essere favorevoli? Si tratta però di un percorso lungo e difficile, e non è detto che i dazi lo rendano più semplice. Ipotizziamo che l’azienda italiana (o tedesca, o danese) “X” decida in questi mesi di portare negli USA una parte della propria produzione: per attivare uno stabilimento servono macchinari, molti dei quali provenienti a loro volta da paesi daziati, e materie prime forse sottoposte agli stessi dazi. Comprare solo americano avrà un costo che si scaricherà sui prodotti di quella fabbrica. Dazi alti e barriere renderanno forse i prodotti che ne usciranno, comunque, nel complesso più competitivi di quelli importati; ma quell’aggravio generale di costi lo pagheranno i clienti di quella fabbrica, oppure decideranno di fare a meno di quei prodotti. Manca una terza risorsa: i lavoratori, che per processi industriali moderni dovranno essere lavoratori ad alta competenza. Escluso quindi di rivolgersi ad immigrazione latino-americana non qualificata, bisogna sottrarre lavoratori ad altre aziende (l’occupazione negli USA è alta e la disoccupazione bassa) con conseguente pressione sui salari, oppure formare nuovi lavoratori, con pressione sui tempi di messa in opera. Ovviamente si può ricorrere alla massima automazione possibile (ma allora ci sono meno benefici occupazionali): in entrambi i casi, costi alti e investimenti alti. Chi sostiene investimenti così onerosi? Chi prevede ragionevolmente che un mercato c’è e ci sarà, e badate, che c’è e ci sarà per prodotti che saranno relativamente più costosi di quelli odierni. Tutti ragionamenti che impattano sul (e sono impattati dal) lungo periodo. Si aggiunga che, anche volendo, comprare solo americano dall’oggi al domani a volte non si può, perché gli USA non producono certe categorie di macchinari e componenti. Non basta quindi attivare una fabbrica o mille fabbriche, ma bisogna ricostruire intere catene del valore. Che fare se i paesi del resto del mondo non cedono al ricatto e non comprano tonnellate di titoli del debito pubblico USA? Perché sostenere la valuta di un paese che non è più mio cliente? Perché usare il dollaro negli scambi tra paesi terzi? In Asia e in Europa non vediamo, per ora, né panico né reazioni isteriche, ma riflessioni sul da farsi e vertici persino tra pesi spesso ostili tra loro come Giappone, Repubblica Popolare Cinese e Repubblica di Corea. Degli effetti inflativi dei dazi su famiglie e imprese abbiamo già parlato. Interessante nota a margine per i nostri trumpisti nelle istituzioni della Repubblica, nei partiti patriottici e sovranisti (specie quelli votati nel Nord produttivo) e nelle redazioni di giornali e riviste italiane di geopolitica: no, forse gli statunitensi non avranno, grazie al lavoro rimpatriato oltreoceano per via dei dazi, più risorse da spendere da noi come turisti.
Che fare, quindi?
Proseguiamo con gli effetti monetari. I paesi europei esporteranno di meno negli Stati Uniti: questo porterà giocoforza ad una lenta ma inesorabile svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, con conseguente sostegno proprio delle esportazioni del Vecchio Continente. Immaginate se tale svalutazione potesse essere ulteriormente sostenuta dalla BCE con una riduzione dei tassi, che potrebbe comunque rivelarsi necessaria a sostegno degli investimenti e delle imprese. Chiaramente ciò avrebbe effetti inflativi sull’Europa, ma non vi è guerra che non faccia feriti. Come Europa, la cosa migliore da fare è, nel breve termine, nulla. Non reagire con dazi simmetrici, semmai con qualche stoccata mirata alle aziende tecnologiche o forse nemmeno quello, per non sovraccaricare di ulteriore inflazione le nostre imprese che usano servizi digitali statunitensi. Nel medio e lungo termine, tutelare le filiere produttive europee (abbandonando scriteriate e inefficaci politiche ambientali e l’iper-regolamentazione ormai assurta a prodotto tipico brussellese più delle praline) ed esplorare nuovi accordi commerciali con il Vicino Oriente, con l’Asia, con l’America Latina, e rinforzare gli accordi già esistenti o in corso di negoziazione. Come singole imprese italiane, muoversi autonomamente alla ricerca di mercati nuovi, riducendo la dipendenza da quello statunitense. Nessuno si illuda che la guerra commerciale dichiarataci dall’alleato d’oltreoceano non ci farà soffrire. Nondimeno, “mai sprecare una buona crisi”: si colga l’occasione per una maggiore unità ed autonomia strategica del Vecchio Continente. Chiunque si sia misurato con gli Stati Uniti ha potuto saggiare la loro convinzione di non avere il minimo bisogno del resto del mondo, dal più ottuso uomo della strada repubblicano al più illuminato politico democratico. Chissà che non sia giunta l’ora di mettere in discussione tale convinzione!
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