La pace israelo-egiziana, l’ascesa della Cina ed il declino dell’Occidente, il ritorno della Turchia
Il triennio 1978-1980 fu ricco di avvenimenti, tra di loro interconnessi, che avrebbero impresso un nuovo corso alla storia dell’Eurasia e del mondo intero. L’elezione di papa Giovanni Paolo II fu decisiva per il crollo del regime comunista polacco, l’invasione dell’Afghanistan segnerà il declino dell’URSS come potenza militare e l’ascesa del cosiddetto terrorismo islamico internazionale. Le importanti riforme economiche promosse in Cina, negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna a partire dal 1978 daranno il via al processo di globalizzazione. La pace tra l’Egitto ed Israele, la rivoluzione iraniana e lo scoppio del conflitto Iran-Iraq, muteranno gli assetti geopolitici del Vicino Oriente.
Il 17 settembre 1978 con la firma degli Accordi di Camp David, tra il presidente egiziano Anwar al-Sadat ed il primo ministro israeliano Menachem Begin, furono gettate le basi per il successivo Trattato di pace israelo-egiziano firmato a Washington il 26 marzo 1979, in base al quale i due paesi stabilivano normali relazioni diplomatiche. Israele completava il suo ritiro dalla penisola del Sinai in cambio della sua smilitarizzazione mentre l’Egitto garantiva la libera circolazione delle navi dello stato ebraico attraverso il Canale di Suez, lo Stretto di Tiran ed il Golfo di Aqaba. Gli Stati Uniti si impegnavano a versare annualmente ai due paesi diversi miliardi di dollari sotto forma di aiuti.
Questo trattato di pace pose fine ad un ciclo di guerre tra Egitto ed Israele durato trent’anni (la Guerra arabo-israeliana del 1948, la Crisi di Suez del 1956, la Guerra dei Sei Giorni del 1967, la Guerra dello Yom Kippur del 1973).
Per la prima volta dalla sua indipendenza Israele poteva contare su un confine riconosciuto da un vicino, quello sud-occidentale tra il deserto del Negev e la penisola del Sinai.
Ma il trattato suscitò proteste in tutto il mondo arabo. Accusato di aver tradito la causa palestinese, l’Egitto venne espulso dalla Lega Araba e la sede dell’organizzazione trasferita a Tunisi. Tutti i paesi arabi ritirarono i loro ambasciatori dal Cairo. Solo nel 1989 l’Egitto sarebbe stato di nuovo riammesso nella Lega Araba.
Il presidente Anwar al-Sadat venne assassinato il 6 ottobre 1981 durante una parata dell’esercito da alcuni militari membri del gruppo integralista islamico al-Jihad.
La pace israelo-egiziana rappresentò un notevole successo per la politica statunitense nel Vicino Oriente poiché decretò l’uscita dell’Egitto dall’orbita di influenza sovietica.
Sotto la presidenza di Gamal Abd al-Nasser (1956-1970), erano state avviate riforme economiche di stampo socialista come la nazionalizzazione delle più importanti attività economiche, l’avvio di un piano di industrializzazione e la redistribuzione delle terre ai contadini. In politica estera pur avvicinandosi all’URSS, da cui ottenne consistenti aiuti militari ed economici, l’Egitto si affermò come uno dei principali esponenti del Movimento dei paesi non allineati ed il leader della Lega Araba. La presidenza di Nasser resta legata al panarabismo, al tentativo di realizzare l’unità politica del mondo arabo con l’Egitto come paese guida. Il fallimento del breve esperimento della Repubblica Araba Unita (RAU l’unione politica tra Egitto, Siria e Yemen del Nord) e l’umiliante sconfitta inflitta da Israele ad Egitto, Siria e Giordania, con la Guerra dei Sei Giorni (1967) decretarono la fine del panarabismo.
Il nuovo presidente Anwar al-Sadat (1970-1981), spinto dalla grave crisi economica provocata dal fallimento delle riforme del suo predecessore, iniziò il riavvicinamento agli USA. Il parziale successo militare ottenuto contro Israele durante la Guerra dello Yom Kippur (1973) permise a Sadat di rafforzare la sua leadership interna e di avviare trattative di pace con lo stato ebraico (fondamentale per un riavvicinamento a Washington) da una posizione di relativa forza. Col trattato di pace israelo-egiziano del 1979, l’Egitto poté finalmente beneficiare degli aiuti economici statunitensi necessari per risollevare l’economia.
La pace con l’Egitto rappresentò una svolta anche per lo stato ebraico. Accantonato il sogno di un Sinai israeliano e stabilizzato il confine con il suo più potente vicino, Tel Aviv concentrò i suoi sforzi nel combattere l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) di Yasser Arafat in libano e nel rafforzare il suo controllo sui Territori Occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Di fatto la colonizzazione ebraica dei Territori prese il via all’indomani della pace con l’Egitto.
Washington considerava l’alleanza con l’’Egitto di importanza strategica per una molteplicità di fattori. Oltre ad essere il centro culturale e politico del mondo arabo, a controllare il Canale di Suez (vitale per i trasporti marittimi tra l’Europa e l’Asia), il Cairo rivestiva un ruolo di primo piano all’interno del Movimento dei paesi non allineati e dell’OCI (l’Organizzazione della Conferenza Islamica) che riuniva tutti i paesi musulmani del mondo. Inoltre, alla sua tradizionale dimensione vicino orientale, l’Egitto affiancava anche una dimensione africana.
La pace fu raggiunta nelle stesse settimane in cui nasceva la Repubblica Islamica dell’Iran. Il Cairo sostituì l’Iran come principale paese islamico del Vicino Oriente alleato degli USA. Nei tre decenni successivi sotto la presidenza di Hosni Mubarak (1981-2011), successore di Anwar al-Sadat, l’Egitto diventerà il capofila dei “paesi arabi moderati” finendo con l’avallare tutte le iniziative intraprese dagli USA nella regione. Abbandonata la politica terzomondista e panaraba dell’epoca di Nasser, l’Egitto ripiegò per una dimensione regionale che avrà i suoi cardini nel rispetto degli accordi di pace con Israele e nel ruolo di mediatore del conflitto israelo-palestinese. Ma la stagnazione economica e la dipendenza dagli aiuti stranieri spingeranno la presidenza Mubarak ad appiattirsi sulle politiche regionali degli USA erodendo l’influenza e la capacità di iniziativa regionale del paese.
Il 1978 segna l’inizio dell’ascesa della Cina come potenza globale. L’evento che nel lungo periodo risulterà essere decisivo per il destino del Paese di Mezzo e per il mondo intero fu una decisione di politica economica presa dalla terza sessione plenaria del Comitato Centrale eletto all’ XI Congresso del Partito Comunista Cinese nel mese di dicembre: l’avvio dal primo gennaio 1979 della cosi detta “economia socialista di mercato.” Iniziava la privatizzazione dell’economia; inoltre il mercato cinese del lavoro si apriva agli investimenti internazionali. Il merito di questa svolta storica spetta a Deng Xiaoping.
Nel 1976, con la morte di Mao Zedong e l’arresto della “Banda dei quattro,” la Cina era uscita dalla turbolenta epoca della Grande Rivoluzione Culturale lanciata da Mao nel 1966. L’economia cinese, prostrata dagli effetti della Rivoluzione Culturale, necessitava di riforme strutturali, soprattutto di acquisire tecnologie e capitali occidentali. Queste riforme economiche consentiranno al Partito Comunista Cinese di superare la tempesta che tra il 1989-1991 travolse i regimi comunisti dell’Europa orientale e poi la stessa Unione Sovietica. Gli eventi di Piazza Tienanmen spinsero la dirigenza comunista ad accelerare le riforme.
Agli inizi degli anni settanta, con la cosiddetta “Diplomazia del Ping Pong,” ebbe inizio il riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti. Sia l’amministrazione repubblicana di Richard Nixon che quella democratica di Jimmy Carter puntavano a migliorare i rapporti con la Cina al fine di contenere l’espansione sovietica in Asia. Da parte sua Pechino, sempre più timorosa per l’enorme potenziale bellico di Mosca, cercava di aprire una nuova era nelle relazioni con Washington non più ritenuta una minaccia alla propria sicurezza nazionale. L’invasione dell’Afghanistan nel dicembre 1979, spinse i due paesi ad una più stretta collaborazione.
Il riavvicinamento tra Washington e Pechino aveva anche motivazioni economiche. L’economia cinese e statunitense erano perfettamente complementari tra loro: in cambio dell’accesso dei capitali statunitensi al mercato cinese del lavoro, i prodotti industriali del “Paese di Mezzo” sarebbero stati aperti al mercato degli USA.
Le decisioni prese dalla terza sessione plenaria del Comitato Centrale gettarono le basi per una nuova divisione del lavoro su scala globale.
La decisione di passare all’economia socialista di mercato impose una serie di riforme destinate a trasformare la società cinese e ad aprire il paese al mondo. L’industrializzazione ha avuto come conseguenza l’esodo di decine di milioni di persone dalla campagna verso le città. La costruzione di una gigantesca rete infrastrutturale, indispensabile per un’ordinata crescita economica, ha notevolmente facilitato i trasporti interni permettendo ai cinesi di spostarsi più facilmente all’interno del paese, cosa che fino alla fine degli anni novanta era preclusa dalle autorità comuniste.
La crescita economica della Cina è stata accompagnata da un sempre maggiore attivismo sul piano internazionale. Negli ultimi tre decenni la necessità di garantire un costante afflusso di materie prime, necessarie per la sua crescita industriale, ha spinto la Cina verso aree del pianeta (Africa, America Latina, Pacifico Vicino Oriente ed Asia Centrale) dove la sua presenza è sempre stata marginale o ininfluente. I nuovi legami economici e politici con paesi storicamente rientranti nell’orbita di influenza altrui, come il Sudan o le repubbliche centroasiatiche, ha attirato atteggiamenti di diffidenza o di aperta ostilità delle altre grandi potenze: USA, Unione Europea, Russia. La politica estera cinese ha dimostrato di essere molto più pragmatica ed efficiente di quella occidentale o russa.
Mentre la politica estera degli Stati Uniti e dell’Unione Europea è almeno ufficialmente dettata da motivazioni ideologiche quali l’esportazione della democrazia e la difesa dei diritti umani, (in realtà pretesti per intervenire negli affari interni altrui) la Cina fa del principio della non ingerenza negli affari interni di altri paesi uno dei cardini della sua politica estera.
Inoltre mentre Bruxelles e Washington pongono come condizione ai paesi destinatari di aiuti economici la trasparenza amministrativa, la lotta alla corruzione, il buon governo (pretesti per interferire negli affari interni) Pechino non pone nessuna pregiudiziale. La sola condizione richiesta dalla Cina ai suoi interlocutori è l’adesione al “principio di una sola Cina” che comporta l’interruzione delle relazioni diplomatiche con Taiwan. Ma sono le enormi disponibilità finanziarie a rendere il paese di mezzo particolarmente attraente per i paesi in via di sviluppo. Gli investimenti e gli aiuti economici hanno reso la penetrazione cinese in Africa particolarmente efficace.
Mentre gli USA continuano a perseguire una politica estera “militare” finalizzata all’apertura di nuove basi in giro per il mondo che finiscono per rendere “la corazza militare” statunitense sempre più pesante per un’economia in forte difficoltà, la Cina persegue una politica di espansione “mercantile” finalizzata ad aumentare l’interscambio commerciale creando in questo modo ricchezza per tutte le parti contraenti. È molto probabile che nel lungo periodo questa strategia si rivelerà vincente permettendo a Pechino di ridimensionare la presenza degli USA e della Federazione Russa in diverse aree strategiche ad es. l’Asia Centrale grazie al soft power economico.
Nell’ultimo ventennio l’implosione dell’URSS e l’ascesa economica cinese, hanno mutato i rapporti di forza in Eurasia. La Cina sta rilevando il primato di “potenza continentale” che fu dell’Unione Sovietica ma con una sostanziale differenza.
Mentre gli USA, “potenza talassocratica,” sembrano aver abbandonato l’espansione commerciale come fulcro del proprio potere (caratteristica degli imperi che fondano sul mare e sul commercio la propria potenza: Venezia, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna) per privilegiare la potenza militare (la classica distorsione generata dalla preminenza complesso militar-industriale sull’economia) la Cina, come potenza continentale, non privilegia la potenza militare ma punta all’espansione commerciale come strumento di affermazione.
La Gran Bretagna di fine anni settanta era una potenza di secondo rango. L’impero coloniale ed il dominio sugli oceani, erano un lontano ricordo. La decolonizzazione iniziata nel 1947, con il ritiro dal subcontinente indiano, e proseguita durante gli anni cinquanta e sessanta, ridimensionarono lo status internazionale del paese. L’adesione alla CEE (Comunità Economica Europea) nel 1973 indicava l’avvenuto ripiegamento su scala europea degli interessi politico-economici di Londra. Come era prevedibile la perdita delle colonie ebbe un impatto molto negativo sull’economia del paese.
L’economia britannica negli anni settanta è segnata da una forte recessione economica, da un’inflazione a due cifre e da un’altissima disoccupazione. Il momento più difficile fu tra il 1976 ed il 1979 quando il governo laburista si vide costretto a chiedere un prestito al FMI (Fondo Monetario Internazionale) a fronte di pesanti garanzie. Nel paese si giunse addirittura a dover razionare l’elettricità ed a ridurre la settimana lavorativa.
L’importanza storica del governo Tory di Margaret Thatcher è legata alle riforme economiche ed all’impatto che esse ebbero sulla Gran Bretagna e sul mondo intero. Queste riforme, prese a modello nel resto del mondo, daranno il via ad una delle più importanti svolte nella storia dell’economia occidentale.
Il principio che le funzioni dello Stato in una società moderna, liberale e democratica, devono essere ridotte al minimo si tradusse nella privatizzazione di ampi settori dell’economia. Un tale obiettivo richiedeva il ridimensionamento del ruolo dei sindacati. La privatizzazione dei settori dell’economia controllati dallo stato ed il depotenziamento dei sindacati, divennero i marchi del governo Thatcher.
Le riforme in campo economico della “Lady di Ferro” troveranno il corrispettivo in quelle avviate negli Stati Uniti dal repubblicano Ronald Reagan (eletto il 4 novembre 1980). Già dal suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, quando affermò che “il governo non è la soluzione al nostro problema, il governo è il nostro problema” fu subito chiaro l’indirizzo della nuova amministrazione. Strenuo difensore della libertà individuale, egli riteneva che lo Stato non dovesse in alcun modo intralciare la libertà di iniziativa.
Le direttrici della politica economica reaganiana furono: la detassazione dei redditi personali e delle imprese, la deregolamentazione delle attività economiche (deregulation), una politica monetaria per frenare la crescita dell’offerta di denaro in modo da abbattere l’inflazione, massicci tagli al bilancio federale e riduzione del deficit pubblico. L’obiettivo di tagliare la spesa pubblica non fu raggiunto ma al contrario si registrò un aumento causato dai massicci investimenti militari nell’ambito del confronto con l’Unione Sovietica.
Simbolo di questa corsa agli armamenti fu il SID (Strategic Initiative Defense) lanciato nel 1983 e comunemente conosciuto col nome di “guerre stellari.” Questo fantascientifico sistema d’armi con base sia al suolo che nello spazio puntava a proteggere gli Stati Uniti da eventuali attacchi missilistici sovietici (alla dimensione terrestre, aerea e marina della guerra, veniva affiancata quella dello spazio). Anche se non venne mai sviluppato, il SID obbligò l’URSS ad una corsa agli armamenti che finì con l’acuire la sua crisi economia accelerandone il tracollo. Il grande merito storico dell’amministrazione Reagan sta nell’aver intuito che costringere l’URSS ad una dispendiosa corsa agli armamenti l’avrebbe costretta a scendere a patti con gli USA. Le politiche liberiste, avviate dal primo ministro Margaret Thatcher e dal presidente Ronald Reagan, furono perpetuate anche dai loro successori di diverso orientamento politico, il laburista Tony Blair in Gran Bretagna ed il democratico Bill Clinton negli USA. Le politiche economiche di questi governi si sono concentrate soprattutto sulla deregulation dei mercati nella convinzione che il mercato come un demiurgo non avesse bisogno di regole imposte dallo Stato poiché capace di autoregolamentarsi.
La possibilità di trasferire nei paesi emergenti, dalla fine degli anni settanta, settori sempre più ampi dell’industria, ha fatto si che l’economia britannica e quella statunitense finissero con il privilegiare le attività finanziarie.
La delocalizzazione rispondeva ad nuova divisione del lavoro su scala globale imposta dalla globalizzazione che prende le mosse proprio dalle riforme economiche avviate in Cina e negli Stati Uniti dalla fine degli anni settanta. Mentre la Cina sarebbe diventata la “fabbrica del mondo,” Stati Uniti e Gran Bretagna sarebbe stati i centri del capitale delle grandi banche e corporation che traevano enormi guadagni dai loro investimenti in Cina e negli altri paesi in via di sviluppo. La globalizzazione, che doveva quindi perpetuare l’egemonia anglosassone nel mondo, ha decretato l’ascesa economica della Cina. Per meglio spiegare ciò che la globalizzazione sta provocando basterebbe citare il terzo principio della dinamica: “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.”
La finanziarizzazione dell’economia, il prevalere dell’economia finanziaria su quella reale, ha scatenato un effetto perverso all’intero del sistema capitalistico anglosassone ed occidentale. La speranza di creare sviluppo mediante la deregolamentazione del mercato del lavoro, il cui esito è stato una riduzione generalizzata dei salari, ha comportato la necessità di drogare l’economia ricorrendo ai prestiti delle banche e delle finanziarie per sostenere i consumi garantendo alle famiglie un tenore di vita simile a quello degli anni passati ma che alla lunga si sarebbe rivelato essere insostenibile. L’esito finale sono state montagne di debiti che hanno finito per travolgere grandi banche come Lehman Brothers e nazioni come Grecia, Irlanda e Portogallo. L’aumento delle diseguaglianze tra ricchi e poveri, l’indebolimento della classe media, il divario sempre più ampio fra paesi ricchi e paesi poveri, sono gli “effetti collaterali” della globalizzazione. L’eccessivo potere economico concentrato nelle mani di pochi super ricchi e delle istituzioni finanziarie potrebbe avere conseguenze negative sulle istituzioni democratiche dell’Occidente poiché l’effettivo potere politico ed economico sarebbe gestito da una oligarchia.
Non si considera che esiste una stretta correlazione tra la crisi dei valori che ha investito l’occidente (in particolare i paesi anglosassoni) e la crisi economica. La scomparsa di quell’etica del lavoro descritta da Max Weber nella sua celebre opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, è uno degli aspetti che meno viene trattato per offrire una possibile chiave di lettura dell’attuale disastro economico dell’Occidente.
Il 12 settembre 1980 i militari presero il potere per la terza volta nella storia della Turchia repubblicana. Il Consiglio Nazionale di Sicurezza presieduto dal generale Kenan Evren, assunse il controllo per porre fine alle violenze che stavano dilaniando il paese. Nel corso degli anni settanta la Turchia era sprofondata in un vortice di violenze da cui non si intravedeva via di uscita; inoltre la gravissima crisi economica ne acuiva l’instabilità politica. L’obiettivo della giunta militare era porre fine alla violenze, assicurare la stabilità, ripristinare il kemalismo ed avviare un ciclo di riforme economiche strutturali in grado di risollevare il paese dalla condizione di estrema prostrazione in cui versava.
La Costituzione del 1961 fu abolita e sostituita da una nuova varata nel 1982. Come era accaduto con i precedenti golpe del 1960 e del 1971, la giunta militare restò al potere il tempo necessario a riformulare il panorama politico nazionale.
Il golpe del 12 settembre si caratterizzò per il suo carattere conservatore e nazionalistico. Il kemalismo, l’identità etnica turca e l’Islam Sunnita, sarebbero stati una sorta di “trinità” che doveva guidare la nazione turca. Qualsiasi altra appartenenza era vista come potenziale minaccia o peggio un vero e proprio tradimento.
L’esito più importante del golpe del 1980 fu la vittoria elettorale dell’Anap (il Partito della Madrepatria) di Turgut Özal alle prime elezioni libere del 1983. In realtà la vittoria elettorale della Madrepatria non rientrava nei piani dell’esercito per il nuovo esecutivo.
Uno dei primi atti della giunta militare fu l’arresto dei principali leader politici; Bülent Ecevit, Süleyman Demirel, Necmettin Erbakan, Alparslan Türkeş, con il conseguente azzeramento dell’intera classe politica nazionale. Nei mesi che precedettero le elezioni del 1983 gli stessi militari fondarono un loro partito di destra; inoltre consentirono la fondazione di un partito di sinistra e di un partito liberale, l’Anap di Özal, convinti di una facile vittoria elettorale. Ma l’esito, l’opposto di quello previsto dai militari, decretò una schiacciante vittoria dell’Anap.
Il governo Özal avviò una serie di riforme economiche liberali che dovevano aprire il paese agli investimenti esteri; furono intraprese le prime privatizzazioni e le esportazioni aumentarono. Si trattò di una vera e propria rottura con le politiche economiche dei decenni precedenti. Le riforme economiche promosse dal governo dell’Anap misero in moto dei cambiamenti all’interno della società turca. Esse gettarono le basi per l’ascesa di nuovi ceti borghesi ed imprenditoriali di origine anatolica diversi dalle tradizionali classi dominanti delle città e delle province della costa occidentale.
Il golpe del 12 settembre aveva tra i suoi punti l’Islam Sunnita come elemento di identità nazionale. Il governo Özal, che fece propri numerosi punti della giunta militare, promosse una riscoperta dell’identità islamica del paese rivalutando la grande tradizione culturale della civiltà Osmanide (giudicata da Atatürk e dai kemalisti come un’epoca di decadenza della stirpe turca). La valorizzazione delle sue radici islamiche ed ottomane in termini geopolitici si tradusse nella riscoperta della propria dimensione vicino orientale.
Le istituzioni laiche e repubblicane mutuate dal’Occidente e l’identità culturale e religiosa vicino orientale, ponevano la Turchia come naturale ponte tra Occidente ed Oriente, tra Europa ed Asia. Le radici islamiche e vicino orientali non erano finalizzate ad allontanare il paese dal blocco euro-atlantico ma al contrario a rafforzare la posizione della Turchia all’interno del suo blocco di appartenenza trasformandola in un vettore dell’influenza statunitense nel Vicino Oriente.
Poiché i grandi cambiamenti in politica sono sempre il risultato delle trasformazioni sociali, l’affermazione degli islamici moderati dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) di Erdogan può in parte spiegarsi con le riforme avviate dal governo Özal.
Le nuove forze emergenti originarie dell’Anatolia interna, nate dalle riforme promosse dalla Madrepatria e profondamente legate ai valori islamici, sono portatrici di esigenze sociali, politiche ed economiche alternative a quelle delle tradizionali classi occidentalizzate detentrici del potere politico ed economico. Dotati di notevole forza economica, questi nuovi ceti sociali ed imprenditoriali erano alla ricerca di una forza che desse voce ai propri interressi politici. Il successo politico dell’AKP testimonia quindi i cambiamenti avvenuti all’interno della Turchia a partire dal 1980.
L’AKP ha ripreso alcuni punti salienti del governo Özal: l’identità islamica, la riscoperta di una dimensione vicino orientale, le politiche economiche liberiste, l’idea di una Turchia ponte tra le civiltà.
Il golpe del 1980 permise quell’azzeramento della classe politica turca senza la quale l’affermazione della Madrepatria di Özal e il conseguente avvio delle riforme economiche sarebbero stati impossibili.
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