Il massacro dei soccorritori a Rafah

Da quando Israele ha deliberatamente violato il cessate il fuoco il 18 marzo 2025, l’orrore nella Striscia di Gaza ha assunto proporzioni sempre più spaventose. Ogni giorno, la popolazione palestinese è sottoposta a bombardamenti indiscriminati, privazioni estreme e violazioni sistematiche del diritto internazionale. In questo contesto di disumanizzazione crescente, si è consumato un gesto di barbarie senza precedenti: il massacro dei soccorritori nella zona di Tal al-Sultan, a Rafah.

Tra le atrocità più indicibili consumatesi a Gaza, il massacro dei soccorritori nella zona di Tal al-Sultan a Rafah rappresenta un punto di abisso morale difficilmente eguagliabile. Quindici operatori umanitari palestinesi — tra cui otto paramedici della Mezzaluna Rossa, cinque soccorritori locali e un dipendente dell’ONU — sono stati ritrovati in una fossa comune, con le mani legate e colpi d’arma da fuoco al petto. Il loro crimine? Cercare di salvare vite.

Si trattava di professionisti in uniforme, chiaramente identificabili, alla guida di ambulanze contrassegnate con simboli visibili, ben noti all’esercito israeliano, che era stato informato dei loro movimenti. Nonostante questo, sono stati assediati, catturati e giustiziati. Le loro ambulanze sono state distrutte. I loro corpi seppelliti in profondità, in un tentativo macabro di cancellare le prove di un’esecuzione deliberata.

L’eccidio è avvenuto nel primo giorno dell’Eid al-Fitr, festività sacra per il popolo musulmano, mentre l’esercito israeliano intensificava l’offensiva su Rafah con bombardamenti sulle vie di fuga e un ordine di evacuazione forzata che suonava come una condanna a morte. Almeno settanta civili sono stati uccisi in quelle ore, tra cui numerosi bambini. Non c’era nessun luogo sicuro. Nemmeno le cosiddette “zone umanitarie”, come quella di al-Mawasi, hanno garantito protezione: anch’esse bombardate, anch’esse insanguinate.

Non si è trattato di un’azione isolata o accidentale, ma di un gesto che si inserisce in una strategia sistematica e pianificata di annientamento. La terminologia usata dai vertici politici israeliani lo conferma: si parla apertamente di “emigrazione volontaria” dei palestinesi, una formula ipocrita che maschera la volontà di espulsione forzata e pulizia etnica. Un deputato della maggioranza ha dichiarato chiaramente l’intenzione di “occupare il territorio per ripulirlo dal nemico”, lasciando pochi dubbi sul disegno che guida le operazioni militari.

Mentre le immagini satellitari documentano l’orrore e le testimonianze dal terreno raccontano l’impensabile, la risposta israeliana è fatta di silenzio, negazione e ostilità verso qualsiasi intervento umanitario. Le richieste della Mezzaluna Rossa di accedere all’area sono state ignorate. I civili, intrappolati, continuano a implorare aiuto, ma l’assistenza viene sistematicamente ostacolata. La morte dei soccorritori non è solo un crimine di guerra, ma un messaggio di terrore: chi salva vite è un bersaglio.

Gaza City: bombardamenti e vittime civili

A Gaza City, la tragedia continua a consumarsi con una violenza incessante e brutale. Uno degli episodi più devastanti si è verificato nel mercato al-Sahaba, situato nel quartiere di Daraj, a est della città. I missili israeliani hanno colpito il mercato in pieno giorno, provocando la morte di almeno sette persone e causando numerosi feriti tra i civili che stavano svolgendo le loro attività quotidiane. I soccorritori hanno faticato a raggiungere l’area colpita a causa dei continui raid aerei e dei detriti che bloccavano le strade.

L’episodio ha causato un’ondata di terrore e disperazione tra i residenti, già provati da settimane di bombardamenti. Testimoni oculari hanno raccontato scene di caos assoluto: persone ferite che cercavano aiuto tra le macerie, mentre le ambulanze, già sovraccariche di emergenze, cercavano di soccorrere i sopravvissuti. Le esplosioni hanno danneggiato anche numerosi edifici circostanti, lasciando centinaia di famiglie senza riparo.

Nel corso della stessa giornata, almeno 36 palestinesi hanno perso la vita, la maggior parte dei quali nel nord dell’enclave. Tra le vittime ci sono undici membri della famiglia Al-Balli, i cui corpi sono stati recuperati dalle macerie di un edificio residenziale bombardato a Beit Lahiya. La devastazione lasciata dagli attacchi ha trasformato il quartiere in un cumulo di rovine, con pochi superstiti che scavano tra i resti delle abitazioni nella speranza di trovare ancora qualcuno in vita.

A Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, la violenza non ha risparmiato nemmeno i quartieri residenziali. In pochi minuti, tre abitazioni sono state rase al suolo da bombardamenti mirati, lasciando famiglie intere sepolte sotto tonnellate di cemento e detriti. I sopravvissuti, visibilmente scioccati, raccontano di non aver avuto alcun preavviso e di aver perso tutto in un istante. Le squadre di soccorso locali lavorano incessantemente, ma la mancanza di attrezzature adeguate rallenta drammaticamente le operazioni.

A Zeitoun, un episodio particolarmente toccante ha destato scalpore. Un uomo disabile è stato colpito a morte da un cecchino israeliano mentre tentava di aprire un pacco di biscotti, probabilmente l’unico cibo rimasto a sua disposizione. Il gesto, intriso di crudeltà e disumanità, ha suscitato indignazione e dolore tra la popolazione e ha trovato eco sui media internazionali.

L’emergenza umanitaria: fame e carenza di aiuti

La situazione umanitaria nella Striscia di Gaza è ormai al collasso. Nonostante alcuni feriti siano stati evacuati tramite il valico di Karem Abu Salem, le condizioni di vita rimangono drammatiche e la crisi alimentare si aggrava di ora in ora. Il Programma Alimentare Mondiale ha lanciato un grave allarme, denunciando che centinaia di migliaia di palestinesi rischiano la fame e la malnutrizione a causa del blocco totale imposto da Tel Aviv da oltre tre settimane. Questo periodo di chiusura, il più lungo dall’inizio del conflitto, sta condannando la popolazione civile a una lenta agonia.

Philippe Lazzarini, commissario dell’UNRWA, ha denunciato che i bombardamenti incessanti e l’avanzata delle truppe israeliane impediscono qualsiasi tentativo di distribuzione degli aiuti umanitari. Anche le scorte già presenti nella Striscia sono state in gran parte distrutte o sono impossibili da consegnare a causa delle strade impraticabili e dei pericoli continui. Le poche razioni alimentari disponibili sono state rapidamente esaurite, e in molte aree mancano acqua potabile e medicinali.

Inoltre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che il sistema sanitario è al collasso totale, con ospedali sovraffollati e senza forniture mediche essenziali. L’accesso ai servizi di emergenza è praticamente inesistente, e numerosi pazienti, compresi bambini e anziani, rischiano di morire per la mancanza di cure basilari. Le ambulanze, già gravemente compromesse dagli attacchi, faticano a coprire il fabbisogno e spesso non riescono a raggiungere i feriti in tempo.

Nel contesto di questo dramma umanitario, l’appello delle organizzazioni internazionali alla comunità globale rimane inascoltato. I pochi convogli di aiuti che tentano di entrare nella Striscia vengono respinti o ritardati dalle autorità israeliane. La popolazione civile è lasciata sola, senza prospettive di assistenza e in condizioni igieniche ormai insostenibili. La carenza di carburante ha paralizzato i generatori degli ospedali, costringendo i medici a operare in condizioni di emergenza continua e mettendo a rischio la vita di migliaia di pazienti in terapia intensiva.

Tensioni politiche e negoziati per il cessate il fuoco

Sul fronte politico, la diplomazia internazionale sembra muoversi con cautela e lentezza. Mentre Israele continua a colpire obiettivi legati ad Hamas, alcuni segnali di apertura arrivano da negoziatori egiziani, che hanno riportato reazioni positive da Tel Aviv su una nuova proposta di cessate il fuoco. L’iniziativa prevede il rilascio di cinque ostaggi israeliani ogni settimana e la ripresa delle consegne umanitarie nell’enclave.

La delegazione egiziana si è recata in Qatar per discutere una possibile fase di transizione, che potrebbe includere un accordo temporaneo per stabilizzare la situazione umanitaria e allentare il blocco. Tuttavia, nonostante gli sforzi diplomatici, la situazione rimane estremamente fragile, con continui raid aerei e bombardamenti che rendono difficile qualsiasi progresso verso una tregua effettiva.

Nel frattempo, in Cisgiordania, la situazione si fa sempre più tesa. L’esercito israeliano ha intensificato le operazioni militari a Huwara e Nablus, provocando la morte di un ragazzo di 18 anni e il ferimento di altri giovani. Le operazioni militari proseguono anche in altre città, alimentando ulteriormente la rabbia della popolazione e la tensione politica nella regione.

In questo scenario complesso, il mondo continua a osservare impotente, con poche iniziative concrete per fermare l’escalation. Le speranze di un cessate il fuoco duraturo rimangono appese a un fragile filo di negoziati tra le varie parti in conflitto, mentre il popolo palestinese continua a pagare il prezzo più alto di questa guerra senza fine.

L’escalation militare in Libano

La situazione in Libano è tornata a essere estremamente critica, con attacchi israeliani sempre più frequenti e violenti che colpiscono non solo obiettivi della resistenza, ma anche aree civili densamente popolate. Nel primo pomeriggio del 31 marzo 2025, l’aviazione israeliana ha bombardato il quartiere di Hadath, nella periferia meridionale di Beirut, distruggendo un edificio e uccidendo almeno quattro persone, tra cui Hassan Bdeir, dirigente di Hezbollah, e alcuni suoi familiari. Si tratta del secondo attacco aereo su Beirut in meno di cinque giorni, a dimostrazione di un’escalation intenzionale che punta a destabilizzare l’intero paese.

Il quartiere colpito, spesso etichettato da Israele come roccaforte della resistenza sciita, è in realtà abitato da migliaia di civili. L’attacco ha scatenato il panico: l’esercito israeliano ha diffuso un avviso di evacuazione seguito da colpi di avvertimento, provocando scene di caos tra gli abitanti. Centinaia di studenti sono stati visti fuggire precipitosamente da scuole vicine come il Lycée des Arts e la scuola media Saint Georges, situate a meno di cento metri dal punto d’impatto. La città è piombata nel terrore, già logorata da mesi di tensione e violenze.

Israele ha affermato che l’obiettivo era un presunto deposito di droni dell’unità aerea 127 di Hezbollah, ma il movimento ha smentito categoricamente qualsiasi responsabilità nei lanci di razzi. Come già accaduto in passato, Tel Aviv sfrutta accuse infondate per giustificare operazioni militari che colpiscono indiscriminatamente, nel tentativo di fiaccare ogni forma di sostegno alla causa palestinese e alla resistenza regionale.

La risposta israeliana non si è limitata alla capitale. Raid aerei e bombardamenti di artiglieria hanno colpito la valle della Bekaa e località come Yohmor al-Shaqif, Maaroub e la strada tra Barasheet e Beit Yahoun, causando la morte di sei persone, in gran parte combattenti di Hezbollah. A Houla, nel distretto di Marjayoun, anche dei civili sono rimasti feriti da una granata israeliana, aumentando la rabbia popolare contro l’aggressione in corso.

Le autorità libanesi hanno reagito con durezza. Il presidente Joseph Aoun ha denunciato gli attacchi come gravi violazioni della sovranità nazionale, esortando gli alleati del Libano a sostenere il diritto del Paese a difendersi. Il primo ministro Nawaf Salam ha definito i raid “atti di guerra”, mentre nel dibattito politico interno cresce il timore per il tentativo di spingere verso una pericolosa normalizzazione con Israele. Hezbollah, da parte sua, ha ribadito con fermezza che non accetterà alcuna smilitarizzazione. Il numero due del movimento, Naim Qassem, ha affermato che la resistenza rimane l’unico strumento di difesa reale contro le continue aggressioni israeliane.

Ali Ammar, parlamentare di Hezbollah, ha dichiarato: “Non vogliamo la guerra, ma se ci viene imposta, risponderemo con decisione”. Ibrahim Musawi, altro dirigente del movimento, ha accusato apertamente Israele e i suoi alleati occidentali di voler trasformare il Libano in un nuovo fronte di devastazione. Ha parlato di oltre 1.500 attacchi israeliani negli ultimi mesi, con un bilancio pesantissimo in termini di vittime e distruzione.

Parallelamente, a Gaza, l’offensiva israeliana continua a mietere vittime tra la popolazione civile. Secondo l’UNICEF, negli ultimi dieci giorni almeno 322 bambini palestinesi sono stati uccisi e oltre 600 feriti sotto i bombardamenti. I numeri parlano di un vero e proprio massacro: ospedali, tende di sfollati, abitazioni improvvisate sono diventati obiettivi militari. La strage è proseguita anche nel reparto chirurgico dell’ospedale Al Nasser, colpito il 23 marzo. La maggior parte delle vittime erano bambini rifugiati.

In quasi 18 mesi di guerra, l’UNICEF ha contato almeno 15.000 bambini palestinesi uccisi, 34.000 feriti e quasi un milione di minori sfollati e privati dei servizi essenziali. Israele, nel frattempo, continua a impedire l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia, bloccati dal 2 marzo. È una punizione collettiva che viola ogni norma del diritto internazionale, e che viene tollerata dall’inerzia delle potenze occidentali.

L’aggressione israeliana contro Libano e Palestina non è un insieme di episodi scollegati, ma un’unica strategia espansionista che punta a soffocare ogni forma di resistenza. Ma né Gaza né Beirut resteranno in silenzio. La resistenza continua, radicata nella memoria, nella dignità e nella volontà incrollabile dei popoli di non cedere all’oppressione.

Violazioni dei diritti umani e uso di scudi umani

Nel contesto della guerra genocida condotta da Israele contro la popolazione di Gaza, continuano ad emergere prove inquietanti sull’uso sistematico di civili palestinesi come scudi umani da parte dell’esercito israeliano. Le testimonianze, raccolte da giornalisti, organizzazioni per i diritti umani e persino da militari israeliani, rivelano una pratica diffusa, radicata e pianificata all’interno della macchina bellica sionista.

Un’inchiesta della CBS News ha portato alla luce la testimonianza di un soldato israeliano, identificato con lo pseudonimo “Tommy”, il quale ha dichiarato che la sua unità ricevette ordini diretti di utilizzare civili palestinesi per entrare negli edifici sospetti prima dell’arrivo delle truppe. Questa procedura, definita “protocollo delle zanzare”, prevede l’invio forzato di persone disarmate e terrorizzate all’interno di potenziali trappole esplosive o nascondigli, sostituendo strumenti di ricognizione come cani, robot o droni. L’obiettivo è semplice e brutale: salvare vite israeliane a costo di vite palestinesi.

A rafforzare queste accuse, è giunta anche una testimonianza pubblicata da Haaretz, nella quale un alto ufficiale israeliano ha ammesso che l’uso dei cosiddetti “shawish” — civili palestinesi costretti a camminare davanti ai soldati — è diventato una pratica quotidiana sul campo. “Ogni plotone ha un suo shawish. Nessuna unità entra in una casa prima che un palestinese l’abbia ‘ripulita’. Abbiamo creato un esercito di schiavi,” ha affermato l’ufficiale, aggiungendo che questa strategia è ormai considerata il modo più “efficace” per ridurre le perdite tra i militari israeliani.

Secondo queste fonti, ogni brigata impiega decine di “shawish”, utilizzati ripetutamente nelle operazioni, trattati come strumenti sacrificabili piuttosto che come esseri umani. La logica che guida queste pratiche è disumanizzante e criminale: ridurre al minimo il rischio per i soldati israeliani trasformando i civili palestinesi in scudi mobili, carne da sacrificio.

L’organizzazione israeliana Breaking the Silence, composta da veterani dell’IDF, ha confermato che simili procedure erano già utilizzate durante operazioni precedenti a Gaza. La giustificazione dell’esercito israeliano, che ufficialmente nega l’uso di scudi umani ma si rifiuta di indagare in assenza di “dettagli verificabili”, appare sempre più come una strategia di copertura, di rimozione della responsabilità.

L’uso di scudi umani è un crimine di guerra, vietato dalle Convenzioni di Ginevra e da tutte le norme del diritto internazionale umanitario. Eppure, nonostante l’illegalità e la brutalità di queste pratiche, continuano a essere messe in atto con sistematicità e impunità. Secondo un’inchiesta del Guardian, molti palestinesi hanno raccontato di essere stati costretti con la forza a entrare in tunnel, a camminare davanti ai blindati, o a sostare accanto ai soldati durante le incursioni, esponendosi al fuoco nemico.

La Corte Suprema e la crisi legale

Ad aggravare ulteriormente il quadro della guerra contro la popolazione palestinese, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che le leggi internazionali sulla guerra non si applicano alle operazioni militari nella Striscia di Gaza. È una decisione dirompente, che fornisce una copertura giuridica all’annientamento sistematico di un popolo. Israele si arroga così il diritto di agire senza alcun vincolo, ignorando deliberatamente le convenzioni internazionali che vietano l’attacco a civili, ospedali, infrastrutture mediche e umanitarie.

La sentenza ha suscitato indignazione tra esperti di diritto, istituzioni internazionali e organizzazioni per i diritti umani, che hanno denunciato l’istituzionalizzazione dell’impunità. Si apre una nuova era in cui la forza bruta prevale sulla legge, in cui il diritto alla vita del popolo palestinese viene cancellato non solo con le bombe, ma anche con le sentenze.

In parallelo, un documento trapelato ha rivelato l’esistenza di un’intesa segreta tra Israele e i vertici dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), guidata da Majed Faraj. Secondo quanto emerso, l’ANP si sarebbe impegnata a collaborare con Israele fornendo informazioni di intelligence su Hamas e facilitando accordi di sicurezza mirati a garantire gli interessi israeliani in Cisgiordania. In cambio, Tel Aviv avrebbe concesso benefici economici e politici ai funzionari dell’ANP.

Ma non finisce qui: l’accordo includeva anche una campagna mediatica pianificata, volta a screditare Hamas e le altre formazioni della resistenza palestinese, attivando la diaspora di Fatah per promuovere propaganda ostile attraverso social media e reti online.

Questa realtà ha fatto esplodere tensioni profonde all’interno della società palestinese. Mentre Gaza resiste con tutte le sue forze all’invasione, mentre Hamas guida sul campo una lotta per la sopravvivenza, c’è chi — pur rivestendo ruoli istituzionali — lavora per indebolire la resistenza, collaborando con l’occupante. Una dinamica che non fa che acuire la frattura tra chi combatte per la liberazione e chi per la gestione del potere sotto occupazione.

In questo contesto, Hamas continua a rappresentare per milioni di palestinesi un punto di riferimento nella difesa della dignità nazionale. La criminalizzazione della resistenza da parte dei media occidentali, delle istituzioni israeliane e — ora — di settori della stessa leadership palestinese, non fa che rafforzare l’urgenza di un fronte coeso per l’autodeterminazione, la liberazione e il ritorno.

Il silenzio complice della comunità internazionale

Mentre il popolo palestinese viene massacrato, affamato e privato dei suoi diritti fondamentali, la comunità internazionale assiste in silenzio, prigioniera della sua ipocrisia e della sua viltà. Gaza brucia sotto le bombe, intere famiglie vengono spazzate via, i bambini muoiono per fame e per le ferite, i soccorritori vengono giustiziati e sepolti in fosse comuni — eppure, dai palazzi delle Nazioni Unite e delle capitali occidentali arrivano solo parole vuote, dichiarazioni generiche, appelli alla “moderazione” che offendono chi lotta ogni giorno per sopravvivere.

Questo silenzio non è neutrale: è una forma di complicità attiva. È l’ennesima conferma di un ordine internazionale che si piega ai diktat di Israele e dei suoi alleati, incapace di tutelare i più elementari principi di giustizia e umanità. L’occupazione, l’assedio, la pulizia etnica e il genocidio in corso sono resi possibili anche e soprattutto dall’immobilismo delle istituzioni globali e dall’ipocrisia delle potenze che continuano a rifornire Israele di armi, fondi e legittimità politica.

Gli appelli delle organizzazioni umanitarie, le denunce delle ONG, le richieste disperate della popolazione assediata cadono nel vuoto. Ogni bomba che cade a Gaza è anche responsabilità di chi avrebbe il potere di fermare tutto questo e non lo fa. Ogni bambino che muore per mancanza di cibo, ogni ambulanza distrutta, ogni rifugio colpito è una macchia indelebile sulla coscienza del mondo.

Eppure, nonostante l’orrore, il popolo palestinese non cede. Resiste con dignità, con coraggio, con la consapevolezza di non essere solo vittima, ma anche simbolo di una lotta più ampia per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione. La resistenza palestinese, in tutte le sue forme, è l’espressione viva di un popolo che rifiuta di essere cancellato, che continua a lottare anche quando il mondo finge di non vedere.

Non c’è pace senza giustizia. Non c’è stabilità senza libertà. La comunità internazionale deve scegliere da che parte stare: con gli oppressi o con gli oppressori. Ogni giorno di silenzio è un giorno di sangue, e la storia giudicherà duramente chi ha preferito voltarsi dall’altra parte.

Il tempo della solidarietà simbolica è finito. È il momento dell’azione concreta, della responsabilità morale, della verità. Il popolo palestinese ha diritto alla vita, alla terra, al ritorno — e non smetterà di rivendicarlo, a qualsiasi costo.


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