Nel cuore della Striscia di Gaza, dove il cielo è solcato incessantemente da velivoli militari e il suolo è ridotto a un dedalo di crateri, rovine e polvere, si consuma una tragedia che supera le categorie della guerra. A Gaza non si combatte un conflitto tra eserciti, ma si assiste all’assedio di un’intera popolazione civile, compressa in una gabbia di fuoco e privazione. Ogni angolo è diventato vulnerabile, ogni luogo – fosse esso casa, rifugio o ospedale – è stato trasformato in bersaglio.
I bombardamenti colpiscono quartieri densamente abitati, campi profughi, punti di raccolta umanitari, senza preavviso e senza distinzione. Interi nuclei familiari vengono spazzati via in un istante, sepolti vivi sotto le proprie abitazioni o dilaniati nei luoghi dove avevano cercato riparo. Il tessuto urbano viene annientato con una ferocia che non ha nulla di strategico: palazzi sbriciolati, strade impraticabili, infrastrutture pubbliche sistematicamente ridotte in cenere. Gaza non è più una città, è un’ombra di ciò che era, un deserto di cemento rotto, pianto e silenzio.
La retorica dell’autodifesa non regge più davanti alla realtà quotidiana di un’aggressione che non risparmia neanche i simboli di umanità e resistenza: ambulanze, cliniche, tende per sfollati, centri religiosi e culturali vengono colpiti con la stessa impassibilità di un’operazione meccanica. Chi fugge da un quartiere raso al suolo viene indirizzato in “zone sicure” che, poche ore dopo, vengono colpite a loro volta. La geografia dell’orrore si estende, si trasforma, ma non si interrompe mai.
La popolazione civile vive sotto un bombardamento costante, priva di vie di fuga e di qualsiasi certezza. I genitori scrivono il nome dei figli sul corpo con un pennarello, per poterli identificare se resteranno vittime di un’esplosione. Le famiglie si dividono, sperando che almeno una parte possa sopravvivere. Si dorme vestiti, con il sacco dell’emergenza pronto. Si mangia quando e se arriva qualcosa. E si muore in silenzio, spesso senza soccorso, senza testimoni, senza neanche il diritto a un funerale.
Dietro la distruzione materiale si consuma anche un disegno più profondo: disintegrare la società, frantumare la coesione comunitaria, cancellare ogni senso di appartenenza. Gaza viene sezionata fisicamente e psicologicamente. Ogni incursione, ogni raid, ogni evacuazione forzata contribuisce ad affermare un messaggio preciso: qui non c’è spazio per nessuno, non c’è futuro, non c’è perdono.
E mentre questo accade, il mondo guarda, spesso senza reagire. Le istituzioni internazionali emettono comunicati sterili, le potenze tacciono o legittimano. Le leggi vengono ignorate, le convenzioni violate, le denunce archiviate. A Gaza non muoiono solo persone: muore la credibilità del diritto internazionale, muore l’idea di giustizia universale, muore la coscienza collettiva.
In questo contesto, ciò che resiste è la volontà di raccontare, di non lasciare che il silenzio copra le voci spezzate. Perché la memoria è l’ultima forma di resistenza che rimane. E finché qualcuno ricorderà i nomi, i volti, le storie di chi ha perso tutto, il tentativo di annientamento non sarà completo. La giustizia è assente, ma la verità, almeno, può ancora essere detta.
Civili senza volto, umanità senza voce
Le cifre raccontano solo una parte dell’orrore. Parlano di decine di morti ogni giorno, ma non possono restituire l’odore acre delle esplosioni, il suono disperato delle urla tra le macerie, la sensazione di impotenza che avvolge chi sopravvive. Dietro ogni numero, c’è una storia interrotta, una famiglia spazzata via, un nome che si perde nel caos. Le vittime sono in larga parte donne, bambini, anziani, soccorritori. Non combattono, non portano armi. Portano la colpa di esistere in un luogo che si vuole cancellare.
Il massacro avvenuto a Shujaiya, dove 37 persone sono state uccise in poche ore, è solo uno dei tanti episodi che mostrano il volto brutale di un’aggressione sistemica. Non si tratta di scontri, ma di esecuzioni su larga scala. I quartieri vengono ridotti in cenere anche quando non ci sono combattimenti in corso. La guerra si svolge contro la sopravvivenza stessa: si mira alla vita ordinaria, al corpo collettivo di una popolazione esausta, privata anche del diritto alla pietà.
Tra gli attacchi più efferati vi è quello alla scuola Dar al-Arqam, nel quartiere di Tuffah a Gaza City, trasformata in rifugio per sfollati. Colpita da quattro razzi in rapida successione, la scuola è stata bersagliata una seconda volta mentre erano in corso i soccorsi. Almeno 29 persone sono state uccise, tra cui 18 bambini, donne e anziani. Tra le vittime anche il fotoreporter Youssef Hassouna. Anche in questo caso, l’esercito israeliano ha giustificato l’attacco affermando di aver colpito una postazione militare di Hamas. Ma le immagini e i testimoni parlano di un massacro: corpi di bambini in pigiama, madri con i figli in braccio, volti bruciati, silenzi insopportabili.
A Jabalia, nel nord della Striscia, una clinica dell’ONU utilizzata come rifugio per civili è stata colpita da un bombardamento. Almeno 22 persone sono morte sul colpo, tra cui nove minori. I sopravvissuti descrivono scene apocalittiche: pareti crollate, fumo nero, bambini bruciati al punto da poterli riconoscere solo dai vestiti. Non c’erano combattenti, né armi, ma solo famiglie in cerca di un luogo sicuro. Anche in questo caso, le autorità israeliane hanno parlato di un obiettivo militare, senza fornire prove, mentre le immagini dal campo documentano l’opposto.
La violenza si esercita con precisione chirurgica e disumana. Nessun luogo è risparmiato: chi tenta di curare viene eliminato, chi tenta di documentare viene silenziato, chi tenta di soccorrere viene giustiziato. Come a Rafah, dove quindici operatori sanitari – medici, paramedici, vigili del fuoco, membri di organizzazioni internazionali – sono stati sterminati in un attacco deliberato. Un video, recuperato da uno dei cellulari delle vittime e diffuso dal New York Times, mostra la scena in tempo reale: le ambulanze percorrono la via di Tal al-Sultan con fari e lampeggianti accesi, le scritte di soccorso ben visibili, tutto documentato con chiarezza.
Quando il convoglio si ferma accanto alla carcassa di un’altra ambulanza già colpita, alcuni soccorritori scendono. Un membro della Mezzaluna Rossa, riconoscibile dalla divisa catarifrangente rossa con il simbolo medico, si avvicina al veicolo. Fa solo pochi passi, poi iniziano le raffiche. Sei minuti ininterrotti di spari, urla in arabo, ordini gridati in ebraico, una voce che prega, che chiede perdono alla madre: “Scusami mamma, questa è la strada che ho scelto per salvare le persone”. È la voce di chi sa che morirà non per errore, ma per scelta altrui. Quando tutto tace, restano solo i corpi insanguinati. Alcuni verranno ritrovati legati, con colpi sparati a distanza ravvicinata, gettati in una fossa comune, coperti di sabbia.
La versione ufficiale, secondo cui si sarebbe trattato di un errore in un’area di combattimento, è stata smontata da immagini inequivocabili. Quelle ambulanze non avanzavano “in modo sospetto”: erano chiaramente identificate, visibili, riconoscibili. Non c’erano combattenti, ma volontari. Non c’erano armi, ma barelle e bende. Eppure, sono stati trattati come nemici. In quell’episodio, come in tanti altri, l’etica della guerra è stata cancellata, sostituita da una logica in cui tutto ciò che si muove a Gaza è considerato colpevole.
Non si tratta di incidenti, ma di una sequenza coerente di atti pensati per disumanizzare. Uccidere chi salva, chi documenta, chi protegge non è una deviazione, è un messaggio. È la volontà di far sprofondare Gaza in un silenzio totale, dove nessuno possa più testimoniare, raccontare, ricordare. Dove nessun corpo abbia più un nome, e nessun nome abbia più diritto a essere pronunciato.
A rendere ancora più atroce questo episodio, vi è l’occultamento stesso della verità. Israele ha negato per giorni qualsiasi informazione sul destino dei soccorritori. Solo dopo una settimana ha permesso l’accesso alla zona, dove le autorità palestinesi hanno scoperto la fossa comune. Le immagini satellitari mostrano tre bulldozer e un escavatore dell’esercito al lavoro per seppellire i mezzi e i corpi, circondati da barriere di terra. Nessuna delle vittime apparteneva a gruppi armati. Nessuna prova, solo bugie, macerie e sabbia.
Oggi, a Gaza, l’umanità viene strappata non solo alla vita, ma anche alla memoria. I morti non vengono sepolti con rito, non hanno tombe, spesso neppure identità. I vivi non hanno il tempo di piangere: scavano, fuggono, lottano per l’acqua o un tozzo di pane.
Fame, terrore e propaganda
Accanto alla violenza armata, si dispiega una strategia altrettanto devastante e deliberata: quella della fame. Israele ha imposto un blocco totale degli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, sospendendo l’ingresso di cibo, carburante, acqua potabile e medicinali essenziali. Dal 2 marzo, nulla entra senza l’approvazione delle autorità militari israeliane, che filtrano ogni carico, rallentano i convogli, respingono intere spedizioni con pretesti burocratici o accusano le organizzazioni umanitarie di “collaborazionismo” con Hamas.
La fame è diventata un’arma politica, usata per spezzare la volontà di un’intera popolazione. E non si tratta più di una conseguenza indiretta della guerra, ma di un meccanismo intenzionale di soffocamento sociale. Già durante la breve tregua tra gennaio e marzo, è stato dimostrato che l’ingresso di aiuti su larga scala era logisticamente possibile: in due mesi sono passati più camion di quelli entrati nei sei mesi precedenti. Questo dimostra che la carestia a Gaza non è il frutto di un collasso del sistema, ma di una scelta consapevole e selettiva. Un assedio calcolato.
Oggi, l’85% della popolazione non ha accesso regolare al cibo. I bambini soffrono di malnutrizione acuta, le madri non riescono più ad allattare, gli anziani muoiono per disidratazione o per complicazioni legate alla mancanza di cure. Le farine distribuite spesso sono avariate, infestate da insetti, eppure vengono consumate comunque. I panifici sono stati colpiti nei raid. Le serre, distrutte. I magazzini bruciati. Nei pochi mercati ancora attivi si scambiano cipolle, polvere e rassegnazione.
Il sistema sanitario è al collasso. Gli ospedali, se ancora in piedi, non hanno farmaci, né anestetici, né carburante per far funzionare le apparecchiature. I malati cronici vengono lasciati morire. I bambini dializzati, i pazienti oncologici, i diabetici: per loro non ci sono più prospettive. Secondo dati forniti da organizzazioni mediche internazionali, la mortalità per insufficienza renale ha superato il 42%. E mentre la popolazione agonizza, le autorità israeliane dichiarano pubblicamente che “non entrerà nemmeno un chicco di grano”. Non è un’esagerazione retorica: è un atto di guerra contro civili.
Ma non basta colpire i corpi: bisogna anche controllare la narrazione. Per questo Israele ha portato avanti una campagna metodica per oscurare ciò che accade a Gaza. Le ONG vengono ostacolate, screditate, accusate di parzialità o addirittura di complicità con il “terrorismo”. Molte sono state espulse o non autorizzate a operare. I giornalisti indipendenti vengono uccisi o feriti. Le postazioni stampa vengono colpite, come accaduto all’ospedale Nasser a Khan Younis, dove una tenda allestita dai reporter è stata centrata da un missile, causando la morte di più giornalisti. Dall’inizio del conflitto, sono 211 i reporter uccisi. Un numero che rende Gaza il luogo più letale al mondo per chi racconta.
In parallelo, le fonti ufficiali israeliane dominano i canali internazionali con comunicati quotidiani, giustificazioni automatiche, etichette che cercano di trasformare le vittime in minacce. Ogni ospedale colpito viene descritto come un “nodo operativo”. Ogni scuola come una “base logistica”. Ogni ambulanza come un “veicolo sospetto”. In questa guerra delle parole, anche il linguaggio è diventato uno strumento di occupazione.
Sul fronte della giustizia, la situazione non è meno desolante. Il Meccanismo di Accertamento e Valutazione dei Fatti (Ffam), organismo militare israeliano incaricato di indagare sulle violazioni compiute dalle proprie forze armate, archivia l’81,6% delle denunce senza aprire indagini, e solo lo 0,17% dei casi porta a un processo. Si tratta, nei fatti, di un dispositivo pensato non per garantire giustizia, ma per ostacolarla. Uno scudo formale volto a impedire che la Corte penale internazionale possa intervenire. E, intanto, l’impunità dilaga.
La risposta della comunità internazionale resta debole, frammentaria, spesso ipocrita. Grandi potenze che si dicono difensori dei diritti umani chiudono gli occhi di fronte a ciò che accade, o si limitano a comunicati generici che parlano di “equilibrio”, “autodifesa”, “necessità di evitare escalation”. Ma mentre si discute di retorica diplomatica, la fame continua a consumare la carne, e la propaganda a divorare la verità.
La “zona cuscinetto”: un eufemismo per l’annessione
Tra le giustificazioni più ricorrenti dell’offensiva israeliana c’è quella della “sicurezza”. È sotto questa etichetta che si cela un progetto ben più ampio e radicale: la ridefinizione permanente della geografia di Gaza. Il ministro della Difesa Israel Katz e il capo di stato maggiore Eyal Zamir lo hanno detto senza mezzi termini: l’obiettivo è creare “zone cuscinetto”, aree interdette lungo i confini e all’interno della Striscia, concepite per separare, isolare e controllare la popolazione palestinese.
Uno degli esempi più emblematici è l’“asse Morag”, un corridoio scavato con mezzi blindati e bulldozer per dividere Rafah da Khan Younis, due delle ultime aree ancora densamente popolate nel sud della Striscia. Questo varco taglia in due il tessuto urbano e umano, impedisce gli spostamenti, frantuma la coesione sociale. Ma non è l’unico: l’espansione delle cosiddette zone di sicurezza riguarda ampie porzioni di territorio che vengono sgomberate, minate, spianate. Quartieri interi vengono cancellati, trasformati in spazi neutri militarizzati, dove ogni movimento è vietato, ogni vita è sospetta.
Il linguaggio impiegato – “fasce protettive”, “cordoni sanitari”, “zone demilitarizzate” – serve a mascherare l’effettiva natura del piano: un’occupazione permanente di territorio palestinese, che non si limita a prevenire attacchi ma ambisce a disegnare una nuova mappa, priva di continuità territoriale, funzionale solo al controllo unilaterale israeliano. Secondo l’ONG Breaking the Silence, formata da ex soldati dell’IDF, ciò che sta emergendo non è una zona di contenimento, ma una vera e propria kill zone: un’area in cui ogni presenza umana può essere considerata legittimamente eliminabile.
A sostegno di questa trasformazione territoriale non agisce solo la forza militare, ma anche la strategia diplomatica e geopolitica. Gli analisti internazionali lo definiscono “Corridoio di Davide”: un asse ideologico e operativo che mira a collegare, attraverso alleanze militari e accordi segreti, il sud di Gaza, le alture del Golan occupate e i territori curdi del nord Iraq. Israele brandisce il diritto alla difesa come giustificazione ufficiale, ma in realtà lo utilizza come pretesto per portare avanti un disegno coloniale che mira a smembrare il mondo arabo, costruire alleanze opportunistiche con alcune minoranze e imporsi militarmente sui nodi strategici della regione.
Questo piano si inserisce in una logica di disarticolazione degli Stati-nazione arabi, puntando a creare entità semi-autonome e militarmente dipendenti da Tel Aviv. In Siria, ad esempio, Israele ha colpito più volte basi militari che avrebbero dovuto ospitare truppe turche, interrompendo così un possibile accordo tra Ankara e Damasco. In Iraq, ha intensificato i contatti con fazioni curde per garantirsi accesso e influenza. E mentre tutto questo avviene, il linguaggio ufficiale continua a parlare di “sicurezza”, spostando l’attenzione dalle reali implicazioni territoriali e politiche.
Anche la diplomazia parallela gioca un ruolo decisivo. Quando l’Ungheria ha annunciato il suo ritiro dalla Corte Penale Internazionale proprio nel giorno della visita di Netanyahu a Budapest, non si è trattato di una coincidenza. È stata una dichiarazione di complicità, un messaggio rivolto alla comunità internazionale: i vincoli del diritto possono essere elusi attraverso alleanze strategiche. Israele, isolato sul piano giuridico, si circonda di governi che legittimano le sue azioni, normalizzano l’annessione e delegittimano le istituzioni internazionali.
La “zona cuscinetto”, dunque, non è un perimetro di sicurezza, ma un progetto di ridefinizione etnico-territoriale. È lo strumento attraverso cui si svuota Gaza dei suoi abitanti, si spezza il suo tessuto sociale, si cancella la sua continuità urbana e politica. È l’architrave di una nuova fase dell’occupazione, non più temporanea, non più difensiva, ma strutturale. E dietro ogni metro di terra spianata, dietro ogni mappa ridisegnata, c’è la cancellazione di un diritto, di una memoria, di un popolo.
Netanyahu, il primo ministro in fuga dalla giustizia
Nel cuore dell’offensiva contro Gaza si muove un uomo sempre più solo: Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano, al potere da oltre quindici anni, affronta oggi uno dei momenti più critici della sua carriera politica. Travolto da scandali, isolato diplomaticamente, contestato persino da una parte dell’opinione pubblica israeliana, Netanyahu appare più come un politico in fuga dalla giustizia che come un primo ministro in pieno controllo.
Al centro del terremoto politico vi è il cosiddetto Qatargate, lo scandalo che ha coinvolto alcuni dei suoi collaboratori più stretti – Jonatan Urich ed Eli Feldstein – accusati di aver ricevuto fondi da ambienti legati al Qatar per influenzare l’opinione pubblica israeliana e internazionale durante le trattative per una tregua a Gaza. Netanyahu, pur non formalmente incriminato, è stato interrogato dalla polizia, e ha reagito come spesso ha fatto in passato: attaccando i media, delegittimando la magistratura, parlando di “caccia alle streghe”.
Ma questa volta, lo scudo dell’intoccabilità politica vacilla. Sull’uomo forte di Israele pende anche un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte penale internazionale, che lo accusa di crimini di guerra e contro l’umanità per le operazioni a Gaza: bombardamenti indiscriminati, uso sistematico della fame come arma, attacchi a strutture mediche e civili. Accuse gravi, che collocano Netanyahu tra i leader più contestati a livello globale. Eppure, continua a muoversi liberamente tra capitali alleate, protetto da governi complici o da meccanismi internazionali troppo lenti per essere efficaci.
In Israele, intanto, il consenso intorno a lui si sgretola. La “distrazione bellica” – l’uso della guerra per distogliere l’attenzione dai processi e dalle contestazioni – non regge più. Le manifestazioni di piazza si moltiplicano, soprattutto per l’assenza di trasparenza riguardo agli eventi del 7 ottobre 2023, quando l’attacco di Hamas colse di sorpresa l’intero apparato di sicurezza israeliano. Le famiglie delle vittime e degli ostaggi chiedono verità e responsabilità. Netanyahu ha evitato di istituire una commissione d’inchiesta indipendente, alimentando il sospetto che vi siano gravi negligenze da nascondere.
A tutto ciò si aggiungono le contestazioni per la controversa riforma della giustizia, che mira a ridurre l’indipendenza del potere giudiziario e rafforzare il controllo dell’esecutivo. Una manovra che ha spaccato la società israeliana, già polarizzata, e che ha scatenato scioperi e proteste di massa in tutto il Paese. Anche tra i militari e nell’intelligence emergono segnali di malcontento, con ex alti ufficiali che denunciano l’uso strumentale dell’esercito per scopi politici.
Nemmeno sul piano regionale Netanyahu può dirsi al sicuro. L’apertura di nuovi fronti di guerra, come in Siria, e i ripetuti raid aerei che colpiscono anche territori sotto influenza turca o iraniana, sembrano rispondere più a una logica di disperazione politica che a una strategia militare coerente. Ogni nuova esplosione nei cieli del Medio Oriente appare sempre più come un tentativo di sopravvivenza politica.
In questo contesto, la figura di Netanyahu non è più quella del leader stratega ma del politico assediato, che cerca rifugio tra le macerie che lui stesso ha contribuito a generare. La sua politica, fondata sullo scontro permanente e sulla militarizzazione del conflitto, si scontra ora con la realtà: un paese più diviso che mai, una comunità internazionale che comincia a incrinare il muro del silenzio, e un intero popolo, quello palestinese, che continua a pagare il prezzo più alto della sua permanenza al potere.
Gaza, dove anche le parole muoiono
Mentre nei palazzi del potere occidentali si continua a parlare di “incomprensioni”, di “fuoco incrociato”, di “diritto alla sicurezza”, nella polvere di Gaza si muore in silenzio. Si muore sotto le macerie di scuole ridotte in macelli, dentro ospedali trasformati in obitori, accanto ad ambulanze distrutte con chirurgica precisione. Si muore mentre il mondo discute, media, tergiversa. E con ogni bomba che cade, con ogni corpo che resta senza nome, muoiono anche le parole: svuotate di significato, svendute alla propaganda, rese incapaci di dire la verità.
Dall’altra parte dell’oceano, il linguaggio ha ormai smarrito ogni traccia di umanità. Donald Trump, nel pieno di una conferenza con Benjamin Netanyahu, ha avuto l’audacia di definire Gaza “una splendida proprietà immobiliare”. Con una frase, ha spogliato un’intera popolazione della propria esistenza, riducendo terra, case, cimiteri e bambini in un concetto da speculazione edilizia. Quelle parole, pronunciate accanto a un uomo accusato di crimini di guerra, hanno squarciato ogni illusione di neutralità o equidistanza. Gaza, nella narrazione dominante, non è un luogo abitato da esseri umani: è un ostacolo da rimuovere, un problema da gestire, un terreno da sfruttare.
In questa visione coloniale e spietata, non c’è spazio per i diritti dei palestinesi. Il dolore dei civili non è un’emergenza da affrontare, ma un danno collaterale da giustificare. Ogni madre che piange il figlio ucciso viene trasformata in un elemento di “propaganda nemica”. Ogni giornalista che documenta la distruzione viene accusato di complicità. Ogni soccorritore che si avvicina a un ferito rischia di essere abbattuto, sepolto con i propri strumenti. Così, giorno dopo giorno, non si annienta solo la vita, ma anche la possibilità di raccontarla.
Oggi Gaza è più di un campo di battaglia: è lo specchio deformante e crudele del fallimento globale. Il fallimento del diritto internazionale, incapace di imporsi quando le vittime non hanno un passaporto occidentale. Il fallimento delle istituzioni umanitarie, paralizzate, isolate, colpite. Il fallimento della diplomazia, che si rifugia in una neutralità sterile mentre i crimini si moltiplicano sotto gli occhi del mondo.
La complicità non è fatta solo di bombe o silenzi politici. È fatta anche di parole usate per coprire, distorcere, negare. Parole come “de-escalation”, “dialogo”, “proporzionalità” – parole che fluttuano in ambienti ben climatizzati mentre a Gaza si muore di sete, di dolore, di abbandono. Persino la parola “pace” è stata svuotata: oggi suona come una beffa, come un’arma di distrazione.
Nel cuore di questa tragedia, alcuni simboli restano scolpiti come ferite aperte: il sangue dei bambini senza volto, le mani legate dei soccorritori giustiziati, i giornalisti bruciati vivi sotto una tenda allestita per raccontare. Sono immagini che non hanno bisogno di didascalie, perché gridano ciò che la diplomazia tace: qui non si tratta di un conflitto tra pari, ma di un’aggressione asimmetrica contro una popolazione in trappola.
E se Gaza è diventata una prigione a cielo aperto, con i suoi confini chiusi, i suoi cieli sorvegliati, le sue voci ridotte al silenzio, allora è l’indifferenza globale a fare da carceriere. Chi può intervenire ma sceglie di non farlo, chi può denunciare ma preferisce tacere, chi può salvare ma volta lo sguardo altrove, è parte del sistema che tiene Gaza sotto assedio.
Nel silenzio di chi ha perso tutto, resta un ultimo appello: che almeno le parole non muoiano davvero. Che almeno la verità, fragile ma testarda, continui a farsi strada tra la sabbia e le macerie, tra i crolli e i roghi. Perché solo se il mondo ascolterà – senza filtri, senza scuse, senza interesse – qualcosa potrà ancora cambiare. E forse, un giorno, Gaza potrà tornare a essere ciò che ogni popolo ha diritto di essere: libera, viva, rispettata.
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