Fin dall’antichità il Mare Nostrum è stato al centro di dispute, guerre e contese tra i popoli. Le preziose risorse energetiche che custodisce e la sua posizione strategica tra alcune delle più importanti vie di comunicazione del mondo continuano a mantenerlo al centro dei dibattiti geopolitici. Attraverso una speciale chiave di lettura, quella della Nuova Geografia Culturale, è forse possibile scoprire le ragioni profonde della sua centralità.

 

 

Se facessimo nostra la prospettiva della Nuova Geografia Culturale che negli anni ’80 riaccese il dibattito geografico sul modo giusto per osservare e descrivere la realtà territoriale che ci circonda, il Mediterraneo più che un mare diventerebbe una distesa di simboli e significati. L’indirizzo di studio semiotico, in particolare, suggerisce di interpretare il territorio e gli elementi che lo contraddistinguono come delle manifestazioni di cultura. Da questo punto di vista ogni elemento osservabile si trasforma in un segno e come tale rimanda a un universo di significati connessi intrinsecamente con il soggetto osservatore. Una prospettiva in netto contrasto con il modo scientifico di osservare la realtà che la geografia tradizionale aveva insegnato fino ad allora e che potrebbe entrare in contrasto con il modo analitico e oggettivo di procedere della geopolitica. Ma in realtà le due discipline potrebbero trovare molto giovamento l’una dall’altra. La geografia culturale insegna a capire il territorio al di là del visibile, aiuta a comprendere gli atteggiamenti delle comunità che lo popolano e le scelte che sono chiamate a compiere in tutti gli ambiti della vita sociale, dalla politica ai mezzi di sostentamento. Lo studio geo culturale delle religioni di un territorio aiuta a comprendere non solo la diffusione di un particolare sistema di culto ma anche i comportamenti civili che ne conseguono.

E questo è tanto più vero quanto più l’oggetto di studio è caratterizzato da un collage etnico, come quello presente sul bacino del Mediterraneo, che per la sua ristretta concentrazione spaziale non ha eguali nel resto del mondo. Le scelte politiche, le dispute sui confini, le strategie energetiche e le alleanze religiose potrebbero essere comprese più nel profondo se accompagnate da uno studio geo culturale che indirizzi in qualche modo la comprensione del territorio e del suo sfruttamento verso una concezione un po’ meno materialista e un po’ più vicina all’affiliazione culturale degli attori sociali.

Israele, una delle Nazioni più problematiche del Bacino, custodisce in seno al suo territorio e agli elementi che lo caratterizzano, le ragioni della sua posizione politica e del suo spirito intransigente. Si pensi ai significati attribuiti dal popolo ebraico alla città di Gerusalemme e al Muro del Pianto, così come il valore altamente simbolico attribuito al monte Sinai o al Gebel Musa.

Senza prendere in considerazioni i mari interni, sul Mediterraneo si affacciano 23 Stati Nazione che per definizione raggruppano al loro interno individui indipendentemente dalla loro appartenenza etnica e che condividono il medesimo progetto politico. Questo progetto politico poggia le proprie basi su un comune bagaglio culturale che ha contribuito a plasmare le coscienze fino a far loro raggiungere la consapevolezza di volersi unire sotto una sola bandiera. È evidente che la condivisione di un bacino di mare limitato tra un numero così alto di attori nazionali abbia comportato storicamente e verosimilmente continui ancora ad alimentare tensioni geopolitiche. Arricchire le analisi geopolitiche di questi territori assumendo alcuni dei presupposti della geografia culturale, potrebbe certamente coadiuvare il lavoro di comprensione territoriale e culturale in vista di un’auspicabile futura e migliore gestione.

 

Gli Stati Uniti, che di fatto non si affacciano sul Mediterraneo e di conseguenza non hanno il diritto di rivendicare alcun tipo di sfruttamento delle sue risorse, detengono un ruolo di primo piano nella gestione del Bacino. Anche in questo caso, il ricorso a una prospettiva geo culturale potrebbe servire per arricchire l’approccio geopolitico. Dalla Dottrina Monroe in poi, cioè dal momento in cui decisero di uscire dal loro isolazionismo per iniziare a tessere legami economico-politici con il resto del mondo, gli Usa non hanno mai nascosto la loro attitudine alla conquista e alla leadership. Il Mediterraneo non rappresenta che un tassello della loro politica di potenza.

 

Da un punto di vista geopolitico la strategia del Dipartimento di Stato è mutata con l’avvicendamento tra Bush e Obama ma da un punto di vista geo culturale, la sostanza è rimasta la stessa. La tradizione culturale degli Usa si basa sulla volontà di controllo del resto del mondo, sia essa applicata attraverso un soft power, come accade con l’Europa dove l’influenza viene esercitata per lo più attraverso dinamiche economico-finanziarie, sia attraverso un hard power, cioè attraverso guerre e strategie militari come accade oggi nel Nord Africa e nel Vicino Oriente e come è accaduto in passato nei Balcani o in Asia Centrale.

 

L’interesse geo-strategico degli Stati Uniti nei confronti del Bacino del Mediterraneo non è destinato a cambiare semplicemente perché nemmeno la volontà di potenza è destinata ad esaurirsi, fermo restando che l’approvigionamento energetico resta uno dei motori della politica estera della Casa Bianca. Per quanto gli Usa stiano attraversando un momento di forte difficoltà economica con un deficit che li fa avvicinare alla soglia del collasso, la Diplomazia continua ad agire in funzione di un controllo globale. Con Bush (e quindi con Rumsfeld al Pentagono) la politica estera nel Mediterraneo era rivolta alla conversione all’American way of life attraverso la guerra preventiva, in Iraq come in Afghanistan ma anche nel caso delle cosiddette ‘Rivoluzioni Colorate’. Con questa strategia era possibile prima di tutto allineare politicamente il Paese in questione alla Casa Bianca e in secondo luogo, promettendo libere elezioni, controllare le decisioni dei governi locali. Thierry Meyssan definisce questa strategia ‘Democrazia di Mercato’. Con l’insediamento di Obama ma ancor prima con l’avvicendamento di Robert Gates al Pentagono, la strategia di politica estera è cambiata. Oggi gli Stati Uniti puntano a mantenere saldo il loro ruolo di leader dei paesi sviluppati in tema di sicurezza e, secondo Meyssan, questo sarebbe diventato ancora più possibile da quando la Russia ha accettato di aprire alla cooperazione con la Nato. Il risultato sarebbe un mondo spaccato nettamente in due zone: la prima, ricca e stabile e la seconda, caotica, che fungerebbe da serbatoio di risorse naturali per la prima.

 

Nei corridoi del Dipartimento di Stato non sembra dunque percepirsi uno stato di decadenza, anzi. Le strategie messe in campo dagli Usa proprio nel Bacino del Mediterraneo lascerebbero pensare alla precisa volontà di riprendere il controllo del destino dell’umanità. E proprio il Mediterraneo potrebbe fungere da campo di battaglia su cui combattere per la conquista, o il rinnovo, della governance globale.

 

Se è vero che da un punto di vista economico gli analisti danno per certo il sorpasso della Cina sugli Usa, il soft power che per più di mezzo secolo gli Stati Uniti hanno esercitato sul resto del mondo continuerà a garantire loro un dominio culturale difficilmente scalfibile. Grazie alle pressioni economiche non è stato difficile per loro subentrare dopo la Seconda Guerra Mondiale al Regno Unito nel controllo del Vicino Oriente e di gran parte della sponda Sud del Mediterraneo. Il potere economico della Repubblica Popolare potrebbe però incrinare la posizione di supremazia degli Stati Uniti nella regione e il parallelo programma di sviluppo della flotta navale cinese aumenta maggiormente la credibilità di questa posizione. Con la guerra in Libia, per esempio, la Cina ha avuto l’occasione di realizzare la sua prima missione operativa nelle acque del Mediterraneo inviando al largo del Paese nordafricano la fregata lanciamissili Xuzhou per il rimpatrio dei cittadini cinesi residenti nei luoghi interessati dai bombardamenti. Inoltre se fino agli anni ’90 la presenza cinese nel Mediterraneo era praticamente insignificante, negli ultimi anni sono aumentati in maniera esponenziale i contatti tra i paesi della sponda sud e gli alti rappresentanti del partito comunista. La Cina è diventata uno dei principali fornitori di molti paesi dell’area ed è riuscita ad accaparrarsi importanti commesse pubbliche ritagliandosi una posizione di rilievo anche negli investimenti diretti in diversi settori, oltre a quello degli idrocarburi, tra cui il cemento, le automobili e anche le telecomunicazioni. Non esistono elementi che possano far escludere l’ipotesi dell’individuazione da parte della Repubblica Popolare di un vero e proprio hub di riferimento nel Mediterraneo andando a minare ulteriormente la posizione statunitense.

 

Alcuni sostengono che dietro alle rivolte arabe ci sia lo zampino degli Stati Uniti, altri che essi si siano piuttosto limitati a cercare di cavalcarle per rinnovare la loro alleanza ai nuovi sistemi politici legittimati dal voto popolare. La realtà è che il futuro di Tunisia ed Egitto è incerto e che le sommosse che hanno portato alla destituzione dei leaders storici di questi due paesi sono state precedute da anni di scontri tra la cittadinanza e l’amministrazione pubblica. La leadership dei due paesi era instabile e probabilmente destinata al collasso, appoggiando le rivolte gli Usa hanno provato a garantirsi un margine di manovra e di controllo all’interno del futuro sistema politico di questi paesi. In Libia invece gli Stati Uniti, sotto il cappello della Nato, hanno giocato una partita prettamente economica. Sembrerebbe che anche in questo caso i giochi fossero stati stabiliti a priori e a tavolino, ma in ogni caso la sostanza non cambia. La strategia ‘mediterranea’ degli Stati Uniti continua, decennio dopo decennio, a non lasciare spazio a un possibile disinteresse nei confronti della Regione.

 

Gli Usa possono contare su un numero molto alto di alleati nel bacino del Mediterraneo e nulla, ad oggi, lascia pensare che questa situazione sia destinata a modificarsi. Molto dipenderà anche dal ruolo che la Turchia, potenza emergente dell’area, deciderà di assumere. Se i turchi, come sembra, aspirano a diventare la potenza della regione molti dei fragili equilibri che esistono nell’area potrebbero spezzarsi e le carte del gioco potrebbero essere rimesse in tavola. Se, ancora, il progetto di un’Eurasia unita da interessi sempre più convergenti continuerà a prendere corpo, il ruolo degli Stati Uniti si dovrà scontrare frontalmente con la politica estera cinese. Insomma, gli scenari ipotetici sono molteplici e in molti casi difficilmente prevedibili, soprattutto sul lungo periodo, quello che è certo è che l’interesse degli Stati Uniti per il Mediterraneo non sta cambiando e che una lettura che presti attenzione al background culturale degli attori geopolitici in campo non può che sollecitare la comprensione e la risoluzione delle problematiche in atto.

 

 

* Matteo Finotto è laureato in Antropologia Culturale e laureando in Geografia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’università “Sapienza” di Roma

 


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