La demografia influenza gli scenari geopolitici tra le potenze così come i rapporti tra le diverse capacità militari. E’ interessante arrivare a chiudere questo triangolo studiando come la demografia può influire sugli aspetti militari e quindi sui teatri geopolitici. I conflitti dell’epoca successiva alla conclusione della Guerra Fredda, sono stati caratterizzati dalla sostituzione del termine “difesa” col termine “sicurezza”. L’aumento delle guerre, delle guerriglie e dei conflitti etnici all’interno degli stati più che dei conflitti tra stati, le operazioni di “polizia internazionale”, i conflitti demandati ad agenzie di sicurezza private e il ruolo consistente della lotta a gruppi criminali e terroristici spesso legati tra loro ha trasformato il ruolo della guerra: dalla difesa, conquista e occupazione del territorio al suo controllo e successivo disimpegno al ristabilimento – almeno in via desiderata – della “sicurezza”. Chi combatte oggi lo fa con l’obiettivo di disimpegnarsi dal conflitto diretto il prima possibile: così hanno agito non solo gli USA in Iraq e Afghanistan ma anche i Russi in Cecenia, che pure in teoria non è entità esterna ma parte del territorio della Federazione.

A livello operativo si tende a “delegare” la guerra ad elementi “altri”, spesso ma non sempre e non solo locali, fino al proprio disimpegno. L’elemento demografico è parte integrante della spiegazione di questo fenomeno strategico. La guerra industriale del XIX e del XX secolo era la guerra di “conquista/difesa”. La guerra era costruita come attrito di masse, supportate dall’impetuosa crescita demografica e dal desiderio di spazi della civiltà industriale. Una società di massa produceva una guerra di massa. Una società con meno nascite e nel complesso più anziana è meno disposta ad accettare perdite umane dal proprio lato. Il potere dei media amplifica e moltiplica la portata emotiva delle perdite stesse. Gli eserciti moderni delle potenze sviluppate abbandonano sempre di più il concetto di esercito di leva per sposare quello di esercito professionista dalla dimensioni più contenute e dall’impiego più efficiente, concentrato nel tempo e nello spazio e meno dispersivo. Un esercito simile tende a tenersi paradossalmente il più distante possibile dal campo di battaglia per ridurre le perdite al minimo e a compensare la minore massa con la maggiore mobilità e potenza di fuoco e quindi con la tecnologia. I costi sempre maggiori della tecnologia militare sono a loro volta causa di una spinta alla razionalizzazione delle dimensioni degli apparati militari e quindi al loro “downsize” con conseguente ulteriore aumento della richiesta di potenza di fuoco.

Una simile constatazione non aggiungerebbe nulla di originale a quanto osservato dagli esperti di strategia militare che – come Edward Luttwak – hanno già notato la repulsione per le alte perdite in guerra delle società più anziane. Occorre quindi rilevare un fatto nuovo: la strategia di sicurezza è strategia di controllo non più di un territorio ma sempre più di un nemico – come Al Qaeda o i gruppi del narcotraffico – che è multiterritoriale. Tale strategia di sicurezza implica un superamento della logica del controllo del singolo territorio ma non un suo annullamento. Eserciti più piccoli si concentrano però su tattiche di “disimpegno” una volta contenuta la capacità combattiva del nemico in loco e una volta che il nemico si è spostato. Dopo le operazioni di “sicurezza” e successivo “disimpegno” il paradigma prevede una terza fase su cui concentrarsi: “la delega”. Questo aspetto è troppo spesso taciuto dai media e sommessamente accettato dagli esperti militari e meriterebbe invece una più estesa problematizzazione che qui proviamo a suggerire. La morte di mercenari o di “alleati d’occasione” è meno problematica dal punto di vista mediatico e più “conveniente”. Eppure la guerra per delega presenta aspetti operativi, tattici e strategici degni di approfondita analisi.

Gli eserciti provenienti da società meno demograficamente dinamiche devono delegare il proseguimento della guerra latente su un territorio dopo lo scontro militare principale a forze locali e/o a forze mercenarie. La delega della guerra in Somalia all’Etiopia da parte degli USA, alle compagnie di sicurezza private in Iraq o ai ribelli libici da parte degli stessi sono un esempio chiaro di questa tendenza che permette un impegno minore, più efficiente anche se spesso meno efficace di risorse umane proprie in guerre dalla durata sempre più lunga, caratterizzate da scontri meno risolutivi e da un controllo non più diretto del territorio.

Un esempio interessante è il mutamento della strategia russa in Cecenia. Nella prima guerra cecena l’esercito russo andò incontro ad una dolorosa sconfitta attaccando frontalmente un nemico che utilizzava una tattica di guerriglia servendosi della guerra di massa, massa sulla quale tra l’altro non poteva più fare forza avendo nelle retrovie una società sempre meno propensa ad accettare perdite. L’uso di carri armati seguiti dai fanti per penetrare nei territori nemici portò i russi di fronte alla sconfitta e fece scemare il sostegno dell’opinione pubblica all’intervento. L’uso dell’artiglieria e dell’aviazione dalla distanza – con conseguente distruzione della capitale cecena Groznij – e la delega della guerra alle forze tribali locali legate al presidente fedele a Mosca Khadirov hanno permesso la trasformazione della guerra cecena in conflitto latente e a minore intensità, impedendo la secessione della repubblica caucasica.

Esempi non di mutata strategia durante un medesimo conflitto – o meglio, di un medesimo teatro – ma di impegno quasi esclusivo dell’arma aerea con il supporto di terra di forza alleate sono rappresentati, in tempi più recenti, dalle operazioni americane in Somalia ed in Libia. In Somalia gli USA hanno impiegato il bombardamento mirato con aerei Hercules armati per l’attacco al suolo per colpire le milizie islamiste degli Shabab. Il ripristino di condizioni di controllo del territorio e la cacciata dei gihadisti è stato demandato all’Etiopia, potenza militare locale che ha interesse ad una stabilizzazione del teatro somalo o quantomeno a contrastare in loco le influenze degli Shabab. Con ogni evidenza il moderno nemico non-statale si fa forza della propria multiterritorialità: gli Shabab e le formazioni minori da loro distaccatesi hanno esteso l’area dei loro attacchi a Kenya e Uganda. Il collasso di un’entità statale ad opera di combattenti “delegati” non in grado – o non interessati – ad offrire poi un controllo solido del territorio come era – come era preteso essere – nelle vecchie guerre di annessione favorisce il diffondersi di instabilità. In Libia i ribelli hanno sconfitto Gheddafi solo grazie all’aiuto remoto della coalizione a guida USA-Francia-UK, ma non hanno saputo ripristinare l’ordine e la sicurezza – permettendo il drenaggio degli arsenali del colonnello verso gli altri teatri di conflitto africani – e non hanno voluto ricostituire un forte stato centrale, restando divisi in aree tribali l’un contro l’altro armate. La guerra tra stati sostituiva Stato a Stato. La guerra per delega rischia di non avere tale forza, come dimostra il sorgere anche in Kosovo di una terra di nessuno – nei fatti un porto franco per ogni traffico illegale – quando i guerriglieri albanesi dell’UCK sono riusciti con l’aiuto dal cielo della NATO ad eliminare il controllo jugoslavo (cioè dell’avversario geopolitico della NATO nei Balcani) e a consolidare una base territoriale fondata su liberi traffici illeciti.

L’esempio finale dei rischi che la guerra per delega combattute dalle “potenze militari refrattarie alla guerra” è dato dalla Siria. Nel teatro Siriano si è arrivati direttamente ad una guerra per procura tra le tre potenze militari globali – Russia, Cina ed USA – e le potenze regionali – Iran, Turchia ed Arabia Saudita. Il conflitto si trascina ormai da anni senza che se ne intravedano sbocchi. Lo stato siriano come area unitaria non esiste più ma il regime degli Assad mantiene un vantaggio militare che lo porterà ad ogni negoziato in posizione di forza – paradosso della creazione di un “regime senza stato” o quasi. La Russia e l’Iran sperano di contenere in quel teatro il gihadismo che invece si estende all’Iraq grazie alla frustrazione di masse sunnite deluse dall’abbandono occidentale. L’opposizione laica al regime del Baath ha visto svanire i propri sogni di rivoluzione democratica mentre le potenze wahhabite, gli stati del Golfo, mantengono sul Grande Medio Oriente il potere di ricatto dato dal loro ambiguo rapporto con il gihadismo. Ogni potenza ha scelto di impegnarsi militarmente nella guerra civile siriana perseguendo il massimo utile con il minimo sforzo relativo. Usa e alleati occidentali hanno appoggiato i ribelli laici. L’Arabia Saudita e il Qatar hanno armato e finanziato i ribelli fondamentalisti. L’Iran con la propria propaggine libanese, gli Hezbollah, ha scelto di impegnarsi direttamente nei combattimenti proprio per tenere lontana la guerra stessa dal proprio territorio, sempre l’Iran impiegando in via semisegreta agenti delle forze speciali dei Pasdaran e quindi agendo come le potenze occidentali in Libia e forse nella stessa Siria; si noti che l’Iran è una nazione molto giovane ma che soffre un cospicuo calo della propria natalità. La Russia dal canto proprio arma e tutela Assad per evitare la ricaduta nel Caucaso del gihadismo, che però si è esteso all’Iraq.

La guerra per delega ha in definitiva questo difetto, definibile con una tautologia: senza controllare direttamente un territorio è impossibile controllarlo direttamente. E’ quindi impossibile anche solo illudersi di risolvere i conflitti ed evitarne l’espansione o evitare la generazione di aree più estese di instabilità. Le potenze militari avanzate e moderne soffrono un calo demografico che le rende riluttanti all’impiego in guerra di forze determinanti e – almeno nelle intenzioni – risolutive. Vogliono combattere senza combattere: il preludio ad un’era di pace? Al contrario: la guerra per delega è meno “pesante” ed impegnativa anche dal punto di vista etico. Le società coinvolte direttamente nelle operazioni belliche e che subiscono quindi il maggior numero di perdite sono quelle più giovani, arretrate e povere ma che dispongono di maggiori risorse umane da impiegare nello scontro diretto e prolungato sul campo e per le quali le perdite hanno un maggiore livello di accettabilità relativa. Quindi, anche grazie a fondi e appoggio tattico e operativo delle grandi potenze, i conflitti locali a minore intensità sono destinati a trascinarsi per più tempo, così come le situazioni di instabilità.


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.