Non è errato affermare che la prospettiva filosofica di Martin Heidegger ha influenzato l’evoluzione teorica e storica del processo rivoluzionario in Iran. L’inedita fusione tra rivoluzione e tradizione propugnata da larga parte degli intellettuali iraniani che, a torto o a ragione, sono stati considerati come ideologi della Rivoluzione, di fatto, ha un debito non di poco conto nei confronti del pensiero del filosofo tedesco. Heidegger, e con lui diversi altri esponenti della Konservative Revolution, ha ispirato una generazione intera di intellettuali iraniani più ancora della retorica marxista-leninista inscindibile dalla prospettiva della modernità ultra-laica occidentale.

 

Il più importante esito filosofico partorito dal pensiero iraniano del XX secolo, ispiratosi alle elaborazioni teoriche di Martin Heidegger, è indubbiamente il concetto di gharbzadegi (variamente traducibile come “intossicazione da Occidente” o “occidentosi”). Tale concetto, elaborato in primo luogo da Ahmad Fardid, ma reso celebre da Jalal Al-e Ahmad con il suo scritto omonimo del 1962, parte dalla constatazione che “l’essere iraniano” si sia perso ed abbia perso il controllo sulla stessa narrazione storica del suo destino a causa della perniciosa influenza, o meglio invasione, culturale occidentale.

Ora, è importante sottolineare che, nel contesto iraniano, l’idea di “Occidente” rappresenta più una costruzione culturale che una concreta dimensione geografica e spaziale. Tale costruzione culturale è il portato della segreta influenza ancora oggi esercitata dalle scienze tradizionali sull’immaginario collettivo. Di fatto, la geografia sacra delle civiltà tradizionali eurasiatiche percepiva l’estremo Occidente come la “terra dei morti”, il paese del crepuscolo e del tramonto; un luogo di perdizione dal quale non vi è via di uscita per i semplici mortali[1].

Lo stesso Heidegger fa notare come etimologicamente il termine Occidente, come terra dell’occaso/landa della sera, abbia la connotazione intrinsecamente negativa di cadere/tramontare/morire. L’occidentalizzazione del mondo viene dunque percepita come il suo oscuramento nel senso di progressivo depotenziamento dello spirito. E gli stessi occidentali, nella prospettiva del pensatore tedesco, rappresentano gli “ultimogeniti della sera della filosofia occidentale”[2].

Nel contesto iraniano, due eventi storici del XX secolo, con il loro corrispettivo nefasto portato politico, culturale ed economico hanno ulteriormente acuito la percezione negativa nei confronti dell’Occidente: l’invasione anglo-sovietica del 1941 (meglio nota col nome in codice di Operation Countenance), mirante ad evitare un potenziale allineamento, che per affinità culturali sarebbe stato quasi inevitabile, tra l’Iran e le potenze dell’Asse; l’esautorazione del governo nazionalista di Mossadeq ad opera della CIA e dell’MI6 nel 1953.

Bisogna ammettere che sin dai primi anni Venti del XX secolo alcuni intellettuali iraniani, come Ahmad Kasravi, avevano iniziato a notare come la tecnologia moderna ed il secolarismo strisciante avessero prodotto un diffuso sentimento di immoralità ed irreligiosità all’interno della società iraniana[3]. Tuttavia solo sotto il regno dello Shah Mohammed Reza Pahlavi, seguito all’esautorazione di Mossadeq, il progetto di occidentalizzazione del paese assunse i connotati di un reale stravolgimento in senso antitradizionale della società iraniana. In primo luogo il regno di Mohammed Reza fu caratterizzato dalla completa subordinazione dell’interesse nazionale all’interesse dell’Occidente, inteso, questa volta, nel senso della potente struttura imperialistica nordamericana.  A partire dal 1954 il 40% della produzione annuale petrolifera iraniana veniva direttamente destinata al mercato statunitense[4]. Ed il ruolo dello stesso Shah venne ridotto a semplice gendarme degli interessi statunitensi nel Golfo Persico. Di fatto, l’economia iraniana era totalmente dipendente dal controllo nordamericano. In questo contesto, la già perniciosa imitazione degli europei all’interno della società iraniana venne progressivamente a sostituirsi dalla ancora più nefasta imitazione dell’americanità. L’Occidente venne dunque ad identificarsi con l’America e la sua pretesa di superiorità morale che si traduceva apertamente nell’imposizione della sua ideologia messianica globalista, ultra-laica ed anti-tradizionale e di quel liberalismo capitalistico portatore di ciò che Ali Shariati definì “la schiavitù della contingenza”[5]. Il processo forzato di occidentalizzazione e modernizzazione imposto dallo Shah attraverso la retorica della Rivoluzione Bianca e della Grande Civilizzazione ebbe come inevitabile conseguenza lo sradicamento culturale del popolo iraniano. Come ebbe ad osservare proprio Jalal Al-e Ahmad: “l’Iran si stava trasformando nel teatro dell’assurdo”[6].

È proprio in questo contesto di sradicamento culturale che diversi intellettuali iraniani rivolsero lo sguardo alla prospettiva filosofica heideggeriana, recependola come strumento utile a superare l’oscurità imposta dal nichilismo occidentale. Ad attirare maggiormente l’attenzione non fu solo la radicale critica della modernità illuministica ed il secolarismo da essa derivato o la narrazione della Konservative Revolution, ma anche la percezione che l’elaborazione teorica del filosofo tedesco fosse culturalmente affine a diversi aspetti della gnosi tradizionale sciita.

La prospettiva filosofica heideggeriana offriva, di fatto, ad una generazione di intellettuali[7], in larga parte educati proprio in Occidente, come nel caso di Ahmad Fardid o di Ali Shariati, un’alternativa alla modernità laica imposta dallo Shah attraverso un’elaborazione teorica misteriosa e pervasa di spiritualità prima ancora che di religiosità. E proprio lo sciismo, nella versione imamita, con la sua enfasi per il pleroma del dodici, rappresenta la “corrente spirituale per eccellenza dell’Islam”[8], come affermava il grande iranista Henry Corbin. 

Gli studi iraniani su Heidegger (introdotti da Ahmad Fardid, che organizzò dei veri e propri gruppi di studio in cui si discuteva sul latente conflitto tra tradizione e modernità, assolutismo e democrazia, liberalismo e comunismo) si concentrarono essenzialmente su due concetti fondamentali del pensiero del filosofo tedesco: l’Eigentlichkeit (autenticità) e l’Ereignis (evento). Le idee di Heidegger vennero, di fatto, recepite e plasmate sul modello culturale iraniano durante tutto il percorso storico prerivoluzionario che va dal coup d’état contro Mossadeq fino alla destituzione dello Shah.

Proprio il concetto di “autenticità” rappresenta il punto di partenza che ha ispirato e polarizzato il discorso dei lettori iraniani di Heidegger. Fardid, così come Al-e Ahmad e successivamente Shariati,  hanno proposto una visione estremamente politicizzata di questo concetto in cui il ritorno all’essere autentico veniva inteso come separazione dagli ideali occidentali e dunque come riscoperta dell’identità culturale perduta. Va da sé che la perniciosa influenza culturale occidentale produsse nella prospettiva di questi pensatori, parafrasando Carl Schmitt che utilizzò questi termini in riferimento all’invasiva influenza nordamericana sull’Europa, uno sradicamento dell’Iran dalla sua naturale collocazione storico-spirituale. 

É stato Fardid a proporre per primo il sistema di pensiero heideggeriano come modello atto a de-costruire la tradizione dominante intesa come l’egemonia culturale occidentale estranea alla natura stessa dell’Iran. E fu Fardid a proporre quel cambio di prospettiva che identificava l’Iran, e non più la Germania, come la “nazione spirituale nel mezzo”, accerchiata nella morsa tra l’Occidente liberale, democratico e capitalistico, ed un Oriente totalitario e comunista. Fardid ricolloca dunque l’originale ed autentica esperienza dell’umanità ad Oriente; luogo della Rivelazione, del sigillo profetico essoterico e del sigillo iniziatico esoterico[9]. Secondo Fardid, fedele alla prospettiva heideggeriana, è necessario abbandonare l’Occidente sia ontologicamente sia nello stile di vita; e per fare ciò è necessario scoprire l’essenza stessa dell’Occidente per riscoprire, in contrasto, l’essenza autentica dell’Islam[10]. Jalal Al-e Ahmad, nella sua già citata opera sul concetto di gharbzadegi, scrisse che il disorientamento iraniano era causato proprio dall’incomprensione della modernità occidentale e della sua frenesia nichilistica. Profondo estimatore di Ernst Jünger, Al-e Ahmad si rese conto dell’impossibilità di tornare indietro ad un passato pretecnologico. Dunque si proponeva come obiettivo la distruzione degli effetti tossici della modernità attraverso la sua trasfigurazione, usando, allo stesso tempo, la tecnologia al servizio di uno Stato sciita rivitalizzato. E dunque subordinare la tecnologia al potere dell’autentica cultura iranica tradizionale[11]. Proprio la prospettiva filosofica di Al-e Ahmad è quella che più si presta all’esplicazione dell’attuale situazione storica dell’Iran; diviso tra l’aspirazione tecnologica nucleare, il suo naturale istinto all’autosufficienza nazionale e la percezione del pericolo insito in una nuova penetrazione culturale occidentale (obiettivo, neanche troppo celato, del pernicioso accordo stipulato sotto l’egida della precedente amministrazione statunitense).

Ora, l’approccio iraniano al pensiero di Heidegger nacque dalla constatazione che nel contesto  della modernità si viva una esistenza storicamente inautentica. Cosmopolitismo e democrazia (percepita in modo nietzschiano come fenomeno livellatore e propagatore di mediocrità) sono espressioni dell’intrinseco declino spirituale, dello sradicamento culturale e dell’inautenticità.

Partendo da Essere e Tempo Martin Heidegger cerca di tracciare la via attraverso la quale riscoprire la primordiale interpretazione dell’Essere; quella primordiale verità dell’esistenza da raggiungere tramite la de-costruzione della metafisica tradizionale ed egemonica viziata dal pervertimento dell’originale significato dell’ontologia greca. Un pervertimento che ha prodotto una tradizione storica che nel suo intimo collegamento metafisico con la vita quotidiana diventa sempre più sradicata col passare del tempo. La dicotomia esistenza autentica/esistenza inautentica è alla base del pensare, e per certi versi poetare, heideggeriano. Nella prospettiva del filosofo tedesco, l’autentica esperienza dell’Essere è stata nascosta dall’accumulazione storica di esperienze inautentiche che hanno determinato l’inevitabile declino spirituale. La modernità ha dimenticato l’Essere, e la tradizione primordiale del pensiero è stata sostituita ingiustamente dalla “rappresentazione” e dalla “conformità”.

Il fascino che Heidegger ha esercitato su molti intellettuali iraniani deriva dal fatto che il suo pensiero si dispieghi come una nuova prospettiva intellettuale (la riscoperta dell’Essere nella sua essenza primordiale come “nuovo inizio”) più che come il riappropriarsi di una perduta esperienza storica. La precondizione per un nuovo inizio è la resurrezione della perduta natura primordiale rimasta dormiente attraverso un lungo periodo di tempo.

Una simile costruzione filosofica mostra delle affinità non irrilevanti con la gnosi sciita. Al contrario del sunnismo, portatore di una visione utopico-retrospettiva della storia, lo sciismo si contraddistingue per la forte connotazione salvifica identificata nella figura dell’Imam occulto la cui messianica manifestazione rinnoverà il mondo. E compito di ogni devoto sciita è quello di essere un cooperatore dell’Imam in modo tale da prepararne la sua parusia[12]. La dottrina sciita, oltre che sui versetti coranici e sugli hadith, poggia su di un complesso di speculazioni cosmiche che rappresentano al suo interno la tradizione di una gnosi antichissima. Questo spiega come il percorso filosofico, e la sua stessa evoluzione in pensiero rivoluzionario, di molti pensatori iraniani pre-rivoluzionari fosse permeato di spiritualità religiosa. Si pensi ad Ali Shariati che considerava la liberazione nazionale come intrinsecamente collegata con la rifondazione spirituale della nazione stessa attraverso il ritorno ad un’unità spirituale tra l’uomo ed il divino. Shariati parlava attraverso un linguaggio simbolico tradizionale che, seppur intriso di rimandi terzomondisti (comunque ben più affini alla retorica nazionalsocialista nasseriana che al marxismo-leninismo), sotto diversi aspetti, lo avvicinava alla filosofia del grande pensatore tradizionalista René Guenon. Entrambi miravano infatti a superare lo sradicamento culturale della vita quotidiana inflitto dalla modernità. A tale sradicamento, Shariati, anch’egli in debito nei confronti della filosofia heideggeriana[13], cerco di porvi rimedio articolando lo sciismo come autentica ideologia politica e rivoluzionaria.

Il concetto heideggeriano di Ereignis (Evento), inteso come interferenza/frattura temporale, rappresenta il ritorno dell’Essere nel momento più oscuro della storia (la mezzanotte del mondo). Seppur improvviso, l’uomo deve comunque preparasi a tale evento. In questo senso Heidegger pose particolar enfasi sulla necessità di costruire delle istituzioni capaci di rispondere e sostenere la riscoperta dell’Essere come pratica condivisa. La consapevolezza di tale necessità ha portato alla mai rinnegata adesione del filosofo al nazionalsocialismo tedesco.

Appare dunque evidente come la prospettiva filosofica heideggeriana mostri una notevole affinità culturale con la dottrina sciita volta a preparare il ritorno dell’Imam dal suo occultamento. Scrive Heidegger: “Gli dei che ci sono stati una volta tornano solo nel tempo opportuno, al momento giusto, cioè quando gli uomini, per quanto sta in loro, si saranno rivolti al luogo giusto nel momento giusto”[14]. E questi dei, alla pari dell’Imam, si sono occultati perché l’assenza, o il pervertimento, di una visione metafisica dell’universo, storicamente eventuata nell’evo del mondo, è percepita come un male assoluto al quale bisogna porre rimedio. L’Imam è nascosto perché gli uomini si sono resi incapaci di vederlo, afferma ancora una volta Henry Corbin[15]. L’evo del mondo è la mezzanotte del mondo: l’epoca in cui, come scrisse proprio Ahmad Fardid, “la realtà lunare è sorta mentre la verità solare si è eclissata”[16].

La Rivoluzione è dunque percepita come strumento atto a preparare questo “Evento” (interferenza/ frattura temporale) che, tramite il ritorno dell’Imam, dispiegherà l’essenza originale della verità e della giustizia. Non si può dimenticare che, proprio nella dottrina sciita imamita, all’ultimo Imam è attribuito l’epiteto di Sahib al-zaman; ovvero il “signore del tempo” o colui che “temporalizza il tempo”[17]

In questo senso deve essere interpretata l’enfasi riposta dalla guida rivoluzionaria sulla costruzione di istituzioni sociali e di una forma di governo corrispondente alla precisa missione che la Rivoluzione si era prefissata: ovvero il riappropriarsi della dimensione sacrale propria della tradizione iranica estirpata dall’imposizione forzata della modernità occidentale. Afferma l’ayatollah Khomeini:“Il governo dell’Islam è il governo della Legge. Esso non è né democratico né assolutista; è un governo costituzionale nel senso che i governanti, nell’esecuzione delle leggi e nell’amministrazione dello Stato, sono vincolati a una serie di condizioni rese esplicite dal nobile Corano e dalla Sunna del nobile Messaggero. Nell’Islam il potere legislativo e la facoltà di legiferare sono prerogative esclusive di Dio”[18]. E nell’immediato istante post-rivoluzionario l’hojjatoleslam Hashemi Rafsanjani, recentemente venuto a mancare, affermò la necessità di rafforzare lo Stato e le sue istituzioni, al contrario di quanto sostenuto dai marxisti che invece puntavano alla loro estinzione[19].

L’Iran post-rivoluzionario si è imposto dunque come sistema che sfida apertamente il dominio unipolare dell’ideologia modernizzante e progressista occidentale. L’Occidente viene percepito come antitesi di ogni aspirazione nazionale, ed il suo progetto globalista come intrinsecamente intollerante nei confronti delle specifiche identità culturali. L’Iran, riappropriandosi della peculiare dimensione sacrale del suo percorso storico, si pone in evidente contrasto rispetto alla presunzione di superiorità morale del progetto di imposizione a livello globale della pax democratico-capitalistica nordamericana.


 

[1]    A. Dugin, Terra verde: l’America, in Continente Russia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1991, p. 52.

[2]    M. Heidegger, Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Bologna 2014, p. 759.

[3]    H. Katouzian, The Persians: Ancient, Medieval and Modern Iran, Yale University Press, New Haven 2009, p. 294.

[4]    Farhang Rajaee, Islamism and Modernism: The changing discourse in Iran, University of Texas Press, Austin 2007, p. 92.

[5]    A. Mirsepassi, Political Islam, Iran and the Enlightenment: Philosophies of Hope and Despair, Cambridge University Press, New York 2011, p. 95.

[6]    F. Rajaee, op. cit., p. 96.

[7]     Si veda “La fortuna di Heidegger in Iran”, in: C. Mutti, Esploratori del Continente, Effepi, Genova 2011.

[8]    H. Corbin, L’Imam nascosto, Edizione SE, Milano 2008, p.29.

[9]    Ibidem, p. 18.

[10]  A. Mirsepassi, op. cit., p. 128.

[11]  Ibidem, p. 131.

[12]  H. Corbin, op. cit., p. 30.

[13]  É famosa la sentenza di Ali Shariati: “E’ stato Heidegger a dire che diventiamo parte di ciò che conosciamo, perciò l’unica speranza per noi di essere salvati da questa intossicazione occidentale e dalla modernità contemporanea è capire il vero volto e lo spirito stesso dell’Occidente”.

[14]  M. Heidegger, op. cit., p. 627.

[15]  H. Corbin, op. cit., p. 68.

[16]  A. Mirsepassi, op. cit., p. 127.

[17]  H. Corbin, op. cit., p. 29.

[18]  R. Khomeini, Il Governo Islamico, Il Cerchio, Rimini 2007, p. 41.

[19]  E. Abrahamian, A History of Modern Iran, Cambridge University Press, Cambridge 2008, p. 155.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).