a cura di Andrea Foffano e ASCE
I maggiori esperti geopolitici ribadiscono da circa un decennio la “prospettiva europea” per i paesi dell’area balcanica. Ma a dirla tutta, nei maggiori summit di settore del club europeo non vi è attualmente alcun tipo di univocità sulle tempistiche d’ingresso dei nuovi paesi. Uno dei motivi si evince dal fatto che attualmente i Balcani pagano una situazione geopolitica assolutamente destabilizzante. Dopo la scomparsa del Maresciallo Tito, la dissoluzione della Repubblica Federale di Jugoslavia e le guerre civili che ne seguirono, nonostante i tentativi d’intervento diplomatico che si sono via via succeduti, le strutture amministrative delle nazioni nascenti si sono macchiate di crimini orrendi e di massacri indiscriminati ai danni della popolazione civile. Le conseguenze di questi tragici eventi, verificatisi più di venticinque anni fa, influenzano ancora oggi le strategie politiche internazionali relative a questa particolare area geografica. Per molti, infatti, è ancora troppo presto per dimenticare il passato. Accade così che l’Unione Europea, afflitta da una mordente stagnazione economica e impantanata in un’altrettanto evidente crisi politica interna (Brexit in testa), debba far fronte ad un nuovo avversario che avanza dall’Oriente. Tralasciando l’importanza vitale ricoperta dal gasdotto South Stream, che lega a doppio filo l’economia dell’intera area balcanica alla Russia di Putin, molto più interessante risulta la sempre più stretta cooperazione economica che si sta verificando tra il governo serbo e quello cinese. La Serbia, nazione caratterizzata da un’economia interna relativamente piccola ma dotata di una notevole capacità di sviluppo futuro, ha recentemente ricevuto 1,5 miliardi di dollari di finanziamento dal governo cinese. Inoltre, il fatto che Belgrado abbia ospitato nel 2014 il vertice della “Nuova via della seta del 21° secolo” non è un semplice caso. Infatti, nella capitale serba le imprese cinesi hanno già iniziato a costruire autostrade, ferrovie e infrastrutture e i maggiori produttori cinesi di acciaio hanno già rilevato alcuni tra i più importanti stabilimenti produttivi nazionali, strategicamente dislocati nei pressi dei porti sul Danubio. In questo frangente Bruxelles paga l’incapacità di affrontare l’estrema diversificazione socio-politica che caratterizza tutta l’area. La Croazia cattolica, la Serbia ultra-ortodossa e la Bosnia mussulmana, a cui si aggiunge anche l’Albania, costituiscono un vero e proprio terreno minato per l’Unione Europea, che di fatto non riesce a pianificare un percorso politico unico e impersonale per garantire l’ingresso in Europa di ogni singolo stato balcanico. Inoltre, l’espansione europea nei Balcani è ostacolata anche dalla difficoltà da parte della popolazione slava di accettare un’eventuale condivisione della struttura atlantica, cioè proprio in quell’entità militare che venticinque anni fa guidò l’intervento internazionale nella guerra civile.
Detto ciò, viene comunque spontaneo fare alcune considerazioni di natura geopolitica, che indichino la direzione che l’Europa dovrà seguire nell’attuazione della Sua politica estera: a livello economico è strategicamente innegabile l’interesse europeo ad espandersi nell’area dei Balcani, considerata una delle zone di pertinenza europea con il più alto indice di potenzialità di sviluppo economico-industriale per il prossimo futuro; sul piano politico internazionale, la perdita di influenza da parte dell’Europa nelle zone balcaniche oltre l’Adriatico significherebbe l’inesorabile avanzamento del fronte russo-cinese, con evidenti possibili conseguenze negative in tutta l’area; a livello strategico, l’aera balcanica risulta essere oggi più che mai vitale per poter esercitare il controllo degli straordinari flussi migratori provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa diretti in Europa, la cui mancata regolazione potrebbe portare al verificarsi di possibili situazioni di emergenza sociale in tutto il territorio europeo; in ultimo, sul piano della sicurezza non bisogna dimenticarsi che molti dei foreign fighetrs che hanno ingrossato le fila dell’ISIS sono giunti proprio dalle comunità mussulmane balcaniche. Pertanto, se estendere la propria sfera d’influenza nei Balcani è oggigiorno un aspetto strategico irrinunciabile e non più rinviabile per Bruxelles, altrettanto vitale sarà l’impegno di nation-building che l’Unione Europea si dovrà assumere nei confronti di questi stati. Infatti, una rivalutazione degli standard economici d’ingresso e un eventuale allentamento della politica di austerità dovranno obbligatoriamente essere i principi cardine di una prossima ipotetica politica estera europea nell’area balcanica. Inoltre, il processo di stabilizzazione all’interno della comunità europea delle nazioni balcaniche non potrà prescindere da un approccio politico-strategico che colmi l’attuale gap geopolitico nei confronti di tali paesi, gap che l’Europa stessa ha contribuito a creare con l’adozione in passato di talune politiche d’oltralpe. Attualmente, gli “Stati deboli” dell’area balcanica non riescono ad avviare i processi di riforme necessarie per uniformarsi ai parametri europei e quindi non riescono a colmare il divario con Bruxelles. Questo fatto spinge le amministrazioni governative degli stati balcanici, soggette alla pressione interna della popolazione afflitta da tassi di disoccupazione che vanno dal 25% al 30%, a cercare di individuare nuove strade da percorrere che portino allo sviluppo economico. Ecco perché l’Unione Europea deve assolutamente invertire questa tendenza: la perdita geopolitica dei Balcani ridimensionerebbe di molto la già fragile politica economica europea. Pertanto, il processo politico inclusivo europeo dovrà essere per forza di cose dinamico, personalizzato e strategico.
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