Il subcontinente indiano, una delle più antiche culle della civiltà, vanta una straordinaria diversità etnica, culturale e comunitaria. Il mosaico delle religioni presenti in questa regione è così complesso che spesso l’interpretazione di una particolare fede genera esiti antitetici. Nel caso indiano, il contrasto tra il monoteismo e il politeismo delle due più diffuse religioni del subcontinente, l’Islam e l’Induismo, e lo scontro teologico che ne deriva hanno ulteriormente accentuato la disparità di percezione e di proiezione della loro immagine nei media. In più, a partire dagli anni ’80, la rapida diffusione dell’ideologia dell’Hindutva ha contribuito a distorcere la rappresentazione pubblica delle religione minoritaria, quella islamica in particolar modo, e ha dato vita a un clima di faziosa propaganda che forse non si sarebbe realizzata se il paese fosse rimasto ancorato alla tradizione secolare evolutasi nei primi quarant’anni seguiti all’indipendenza sotto l’influsso della Costituzione del 1949.
I tentativi di reinventare l’Islam, in quanto ideologia polarizzante e intrinsecamente contraria all’Induismo, hanno creato, in una parte dei media indiani, un punto di vista assai peculiare. Congiuntamente, la formazione di una scissione ha rafforzato le identità intimamente distinte delle due religioni, identificando l’Islam come la fede dell’estraneo. Sulla scia degli eventi della moschea Babri, infatti, l’intera nazione fu sommersa da una propaganda di natura comunitaria, in cui l’Islam era presentato come la religione degli invasori, che ha scatenato una sanguinosa repressione contro i fedeli musulmani.
Nel caso indiano è d’obbligo considerare come la funzione di propaganda (o costruzione del consenso) abbia sovvertito le funzioni di credibilità, critica, investigazione e contraddittorio. In Necessary Illusions: Thought Control in Democratic Societies, Chomsky spiega che nel modello di propaganda i media servono agli interessi dello Stato e dei poteri corporativi, inquadrando il loro ruolo e le loro analisi a sostegno dei poteri costituiti e limitando il dibattito e le discussioni. In una società altamente sviluppata, l’immagine del mondo che i maggiori gruppi d’informazione presentano tende a “riflettere i punti di vista dei venditori, dei compratori e dei prodotti” (p. 19) È necessario chiederci, a questo punto, se tale modello di propaganda sia applicabile ai mezzi di informazioni indiani.
Il caso che più mette in luce la complicità di una parte influente della stampa indiana è la demolizione della moschea Babri. In un interessante studio, Rajagopal offre un prospettiva comparatistica della stampa in lingua inglese e lingue vernacolari durante la campagna di Ram Janmabhoomi e sostiene che “il linguaggio della stampa in lingua inglese e lingue vernacolari si è trasformato in una risorsa strategica per il nazionalismo dell’Hindutva” (p.36) che lo sfruttò per mimetizzare i reali intenti del raduno.
Nel caso invece delle rivolte in Gujarat del 2002, l’atteggiamento è nettamente opposto tra la stampa in lingua inglese e quella in lingue vernacolari. Mentre la copertura dei media nazionali è stata applaudita per la sua imparzialità e per aver denunciato le violenze avvenute con il beneplacito del governo locale, i più importanti quotidiani in lingua vernacolare del Gujarat hanno utilizzato la funzione di costruzione del consenso come strumento di vendetta verso la popolazione di fede islamica, attirandosi le critiche del Sindacato degli Editori Indiano. “Il ruolo malevolo di certi quotidiani del Gujarat” conclude il rapporto del Sindacato “non può essere ignorato. Alcuni di loro si sono macchiati di irresponsabilità e immoralità professionale in passato e, purtroppo, non hanno imparato nulla, ma anzi hanno dimenticato tutto. Istigazione volontaria di reato, incitamento all’odio e fomentazione dei disordini sono reati penali”.
L’islam è la seconda più diffusa religione del sud-est asiatico. Le sue comunità e le sue molteplici manifestazioni si sono prestate a numerose interpretazioni, quasi sempre foriere di uno scontro intercomunitario. L’immagine che è stata proiettata dai media ha plasmato le menti di milioni di lettori, influenzandone la comprensione e la raffigurazione dell’Islam nell’ambiente indiano. I media, corroborati dal lavoro dalla stampa islamica indiana, hanno utilizzato il fervore dell’ortodossia islamica indiana per pilotare lo scontro di civiltà in una paese culturalmente ed etnicamente eterogeneo.
È universalmente noto che fedi differenti creano un contesto dicotomico in seno a culture differenti e, spesso, danno nuova identità a stili di vita preesistenti. In India la cultura vive una plurisecolare condizione di costruzione, distruzione e ricostruzione identitaria delle religioni che vi si sono diffuse, in particolare dell’Induismo e dell’Islam. Dal saccheggio del tempio di Somnath in Gujarat per mano dell’invasore Mahmud di Ghazna (XI secolo) alla demolizione del tempio (XVI secolo) su cui, successivamente, fu eretta la moschea Babri, gli hindu, nei secoli, hanno metabolizzato l’immagine dei musulmani come invasori e dominatori, avvertendo l’Islam come religione estranea al contesto indiano. I media, soprattutto quelli più vicini all’ideologia dell’Hindutva, hanno attinto a questa immaginario per colpire la psiche dei loro lettori e far affiorare in loro le immagini di usurpazione e tirannia islamica, oramai del tutto irrilevanti nel contesto dell’India contemporanea, partecipando così al processo di marginalizzazione e criminalizzazione dei cittadini indiani di fede islamica intrapreso dai partiti nazionalisti a partire dagli anni ’80.
La demolizione della moschea Babri, la strage di Godhra e gli scontri che ne sono seguiti hanno perpetuato una divisione sociale e psicologica nelle masse indiane, tracciando una linea netta tra gli hindu e i musulmani in termini di identità culturale. In Gujarat, dopo la strage di Godhra, i quotidiani locali sono stati il megafono dei sentimenti e degli istinti delle organizzazioni nazionaliste hindu, ampliando e fomentando l’astio intercomunitario ogniqualvolta ve ne fosse stata occasione. Facendo eco al mito dell’Hindutva, hanno drammatizzato le violenze contro gli hindu e ridimensionato quelle contro i musulmani, ingigantendo il fanatismo religioso che educherebbe tutti i musulmani ad ostilità e antagonismo contro ogni altra cultura o gruppo. I faziosi reportage che hanno riempito le pagine della stampa locale all’indomani della strage di Godhra hanno attribuito ai musulmani un orientamento antinazionale che deriverebbe dalla loro aggressività religiosa e dalla riluttanza a identificarsi come indiani prima che come musulmani.
L’idea che la nazione hindu sia minacciata dall’elemento islamico era onnipresente sulle prime pagine del quotidiani vernacolari degli stati dell’Uttar Pradesh e del Gujarat, dove i rapporti tra le due comunità sono da sempre sul filo del rasoio. Dall’altro lato i più diffusi quotidiani indiani hanno riportato i massacri avvenuti in Gujarat nel 2002 descrivendo invece il ruolo di primo piano che le organizzazioni e i partiti nazionalisti hanno avuto nel colpire i membri delle comunità musulmane, sottolineando i tentativi compiuti per propagandare la supremazia dell’Hindutva mascherandola da programma politico. Mostrando come il primo ministro del Gujarat dell’epoca, Narendra Modi, opprimesse i musulmani del suo Stato esacerbando le contrapposizione tra le due comunità, la grande stampa ha tentato di riaffermare la loro natura imparziale e laica.
Data la molteplicità delle manifestazioni sociali, politiche e confessionali, la Weltanschauung islamica comporta una miriade di interpretazioni; ma queste spesso sfuggono ai media indiani, i quali considerano l’Islam come un soggetto monolitico. Siccome le identità dell’Islam sono molteplici e non sono nettamente separate le une dalle altre, coloro che cercano una chiave di lettura obiettiva dell’Islam in generale e di quello indiano in particolare non riescono nel loro intento. L’errore dei media risiede nell’utilizzare l’Induismo come pietra di paragone dell’Islam, generando in tal modo rappresentazioni caotiche e incomplete di una fede molto complessa, rappresentazioni che sono scisse dal reale Islam che quotidianamente i fedeli indiani vivono.
Malgrado ciò, i media non possono essere incolpati completamente per i chiaroscuri che l’immagine dell’Islam comporta. L’Islam spesso produce contesti più esclusi che inclusivi; ciò vale in particolar modo per la sua componente più conservatrice, la quale, che, a differenza dei segmenti più secolarizzati delle comunità musulmane dell’India, svolge un ruolo di maggior rilievo sui media di grande diffusione.
Lasciare che i media continuino ad esplorare l’aspetto funzionale dell’Islam e delle sue comunità è forse più utile della mera interpretazione ideologica. Ciò garantirebbe all’India la pacifica e proficua convivenza delle numerose fedi che la animano; in questo i media avrebbero un compito di grande importanza, quello di interpretare e presentare i musulmani come una forza unificatrice piuttosto che separatrice. Si tratta di un compito che i media islamici indiani non hanno saputo svolgere, o forse non hanno avuto interesse a fare.
Superate le miriadi di frammentazione sociali, economiche, politiche, religiose, castali ed etniche, di cui per troppo tempo sono stati la cassa di risonanza, ai media indiani è affidato il delicato compito di trasmettere all’opinione pubblica i concetti più idonei a combattere il settarismo comunitario.
*Sebastiano Garofalo, dopo aver conseguito la laurea magistrale in Studi arabo-islamici all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” con una tesi sulla rappresentazione e l’immagine delle minoranze musulmane nella stampa indiana in lingua inglese, ha iniziato a collaborare con la rivista “InStoria” e col sito d’informazione “ArabPress” ed a lavorare come traduttore per agenzie nazionali ed estere.
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