L’accordo sul nucleare iraniano mediato da Brasile e Turchia sembra inserirsi in un nuovo panorama internazionale caratterizzato dal tentativo di affermazione di nuove potenze emergenti. Un panorama, questo, in cui l’Occidente risulta sempre più debole nel dettare l’imposizione di sanzioni.
Il nuovo asse di interessi e relazioni risulta Teheran-Brasilia-Ankara: la dichiarazione firmata il 17 maggio scorso dai rispettivi ministri degli Esteri comporterà il trasferimento di 1.200 kg di uranio iraniano debolmente arricchito (LEU), al 3,5%, in Turchia, in cambio di 120 kg di uranio arricchito al 20% per sostenere la produzione di isotopi a scopo medico presso il Tehran Research Reactor.
Simili disposizioni erano presenti in una precedente bozza di accordo che l’amministrazione Obama aveva offerto a Teheran lo scorso ottobre, proposta poi rispedita al mittente dalla Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei. Il fallimento fu dovuto alla mancanza di piena fiducia dell’Iran verso l’impegno sancito da Francia e Russia in merito al rifornimento di uranio arricchito.
In realtà, il motivo per il quale Obama spingeva per un simile accordo dipendeva da un report dell’IAEA, dello stesso ottobre, secondo cui l’Iran era in possesso di ben 1.763 kg di LEUi. Con il trasferimento previsto, Teheran avrebbe mantenuto solo il 32% del totale di LEU a sua disposizione. E sulla base dell’attuale capacità di produzione di 3 kg di LEU al giorno, ci sarebbero voluti circa cinque mesi per ottenere LEU sufficiente alla costruzione di una bomba: il periodo di tempo necessario ad Obama per negoziare effettivamente.
Nel frattempo, però, pare che l’Iran abbia aumentato le sue riserve: il giorno dopo la comunicazione dell’accordo turco-iraniano, l’IAEA ha affermato che l’Iran, relativamente al febbraio di quest’anno, possiede ben 2.063 kg di LEU.
Eppure non vi è alcuna evidenza che l’Iran si stia impegnando per l’arricchimento dell’uranio al 95%, nell’ambito di un programma di costruzione della bomba atomica. Ai tempi della proposta statunitense, ciò che è venuto meno è stata la fiducia reciproca tra le parti in gioco – una mancanza che dura ormai da 31 anni – mentre attualmente la novità è stata rappresentata, positivamente, dalla mediazione combinata di Brasile e Turchia.
Entrambi questi Paesi si trovano in mano la possibilità di gestire le fila dei rapporti internazionali più delicati, primo fra tutti proprio il bollente calderone nucleare, lasciando presagire una nuova era in cui la diplomazia potrebbe non essere condotta unilateralmente.
Per l’ambizioso Lula, l’accordo di Teheran rappresenta un’occasione per rafforzare il suo percorso di leader, ormai affermato a livello regionale, ma che potrebbe ampliare i propri orizzonti verso impegni oltre confine di elevato profilo. Quella che egli stesso ha definito “una vittoria per la diplomazia”, risulta la vittoria di un Paese destinato ad essere attore globale e non più periferia dell’Occidente, in grado di essere ago della bilancia nell’ambito delle più delicate questioni internazionali.
La Turchia sembra avere obiettivi ancora più definiti: la politica della profondità strategica e di zero problemi con i vicini mette l’accento sulle ritrovate capacità diplomatiche da utilizzare per riconquistare il ruolo di superpotenza regionale ed asiatica. La dirigenza turca è contraria al bombardamento di Teheran, ad un’altra guerra ai confini come quella in Iraq e si oppone fermamente anche ad eventuali nuove sanzioni economiche, nei confronti di un Paese con cui vanta una significativa collaborazione diplomatica, energetica e di interscambio commerciale.
Non sorprende dunque la profonda irritazione nordamericana, come espressa dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, che, riconoscendo “i sinceri sforzi di Turchia e Brasile”, ha criticato l’accordo, considerandolo del tutto insufficiente. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un quarto round di sanzioni contro l’Iran manifesta la tendenza statunitense a non accettare i negoziati multilaterali ed i loro risultati, nonostante la retorica di Obama lasciasse presupporre un cambio di rotta verso il dialogo e il multilateralismo.
Tutto ciò mentre si è revisionato, dopo il fallimento del 2005, il Trattato di non Proliferazione Nucleare(TNP), con il consenso all’idea di un Vicino e Medio Oriente libero da armi nucleari, e che ha visto l’approvazione anche di Siria ed Iran, ma non di Israele.
A giudizio di Washington, nessuno di questi risulta un segnale di “apertura” da parte dell’Iran, che continua a portare avanti il programma di arricchimento dell’uranio al 3,5%. La decisione di mobilitare la comunità internazionale a favore di nuove sanzioni contro Teheran, senza soffermarsi sulle implicazioni di un accordo come quello mediato dal Brasileii, dimostra l’incessante tendenza statunitense all’unilateralismo e la necessità di non perdere il controllo di un panorama così sfuggente come sembra essere attualmente quello globale.
Così potrebbe risultare vacillante lo stesso appoggio ottenuto dalla Casa Bianca da Mosca e Pechino, in effetti fortemente condizionato dagli interessi economici di russi e cinesi in territorio iraniano. “No” alla linea intransigente sostenuta dagli USA, dunque, nonostante il recente passaggio del Cremlino a posizioni di maggiore fermezza. La diffidenza tra iraniani e russi nasce soprattutto dalla competizione geopolitica nell’area caspica: l’obiettivo è quello di una effettiva stabilità in Asia centrale e nel Caucaso che non leda gli specifici interessi delle due potenze. Forte è la paura che un eventuale conflitto con l’Iran avrebbe conseguenze disastrose per la tenuta del Caucaso, già abbastanza destabilizzato al suo interno.
Pechino, invece, teme soprattutto i danni economici che deriverebbero dall’irrigidirsi del braccio di ferro tra Occidente ed Iran: la Cina risulta infatti il secondo mercato di esportazioni iraniane, dopo l’Iraq, e vede nella Repubblica Islamica un fornitore di energia pressoché insostituibile.
L’attacco all’Iran è una linea rossa da non varcare; quanto alle sanzioni, l’isolamento imposto all’Iran potrebbe essere addirittura vantaggioso per i giganti euroasiatici: l’embargo tiene le esportazioni energetiche iraniane lontane dai mercati europei evitando la competizione con quelle russe, e dirigendole automaticamente verso la Cina. Per quanto concerne invece le transazioni finanziarie e gli scambi commerciali, l’Iran potrebbe aprire il proprio mercato a mercati alternativi a quello occidentale, contenendo così la mannaia economica delle sanzioni – ricordando come le sanzioni del 2007 contro le banche iraniane garantirono paradossalmente una sorta di immunità dall’incombente crisi finanziaria globale.
È inoltre da tenere in considerazione il fatto che, seppure gli Stati Uniti abbiano avuto l’appoggio di Russia e Cina al CdS, non sono riusciti ad ottenere l’unanimità nell’approvazione della risoluzione, dato che sono attualmente membri non permanenti del Consiglio proprio i fautori dell’accordo del 17 maggio, Brasile e Turchia, insieme al Libano, guidato da un governo di cui fa parte anche Hezbollah, da sempre noto sostenitore di Teheran.
La crisi nucleare iraniana si pone al centro di un panorama di profonda incertezza, aggravata ancor più dal recente attacco israeliano contro una nave umanitaria di attivisti pro-Palestina che tentava di superare il blocco imposto a Gaza. In effetti, il durissimo confronto che si sta sviluppando complica di molto la strategia statunitense nei riguardi dell’Iran e mina sensibilmente la fattibilità di sanzioni solide approvate dalle Nazioni Unite. Il no votato dagli Stati Uniti, insieme all’Italia, relativamente alla richiesta di un’indagine sui fatti accaduti, ribadisce la volontà di evitare esposizioni rischiose contro un alleato che sente ormai il fiato sul collo e nota attorno a sé il definirsi di un nuovo scenario di forze e poteri regionali.
Risulta paradossale che, dei nove attivisti uccisi, ben otto fossero turchi, laddove la Turchia resta l’unico alleato militare di Israele nella regione, con il quale conduce anche esercitazioni militari congiunte. Se a queste tensioni si aggiunge il ruolo preminente giocato da Ankara nella questione iraniana, sicuramente emerge la graduale frattura dei legami turco-israeliani e la difficoltà di ricompattare un unico e solido fronte anti-iraniano da parte statunitense.
In un panorama in cui si scontrano il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio per scopi civili e il diritto della comunità internazionale a difendere e garantire la propria sicurezza da eventuali colpi di testa, ciò che è chiaro è l’inadeguatezza del vecchio ordine mondiale, incapace di riaffermare un clima di fiducia reciproca in grado di sostenere il peso delle nuove relazioni regionali e globali.
Il nuovo ordine che sembra emergere, fatto di potenze regionali per la prima volta sul gradino più alto delle relazioni internazionali, ha il delicato compito di condurre ad una soluzione pacifica primo fra tutti il delicato caso iraniano, tassello determinante per gli equilibri mondiali. Sarà questo nuovo ordine in grado di essere forte e solido non solo da reggere la transizione dal “passato” ma da risultare duraturo e fruttuoso?
Le vicissitudini mediorientali sono all’ordine del giorno, e la risposta è nelle loro mani.
* Chiara Felli è dottoressa in Relazioni internazionali (Università LUISS “Guido Carli” di Roma)
i Per fare una bomba è necessaria una quantità compresa tra i 1.000 e i 1.200 kg di LEU, che potrebbero poi essere trasformati in 25 kg di uranio ad alto arricchimento (HEU), sufficienti per una bomba.
ii Secondo una lettera inviata dallo stesso Obama agli inizi di maggio, l’azione diplomatica di Lula avrebbe avuto il via proprio da Washington. Notizia questa confermata dalla stessa amministrazione statunitense che ha rimproverato la stampa brasiliana di aver reso pubblici le corrispondenze tra i due Presidenti.
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