Fonte:  Strategic Culture Foundation http://en.fondsk.ru/print.php?id=2824 02.03.2010

Questo inverno è stato freddo per le relazioni Cina-USA. Tanti e seri disaccordi tra i due paesi, non sono emersi contemporaneamente, per decenni: gli Stati Uniti stanno esercitando una pressione senza precedenti sulla Cina, affinché rivaluti lo yuan, per la cyber guerra scoppiata tra Google e l’amministrazione cinese, l’intenzione di Washington di vendere armi per 6,4 miliardi di dollari a Taiwan, il dumping della Cina sulle obbligazioni statunitensi, per un valore di 34,2 miliardi di dollari, entrambe le parti minacciano di introdurre dazi punitivi sull’importazione, e il presidente Usa, B. Obama, ha ricevuto 14° Dalai Lama Tenzin Gyatso alla Casa Bianca. In passato la Cina e gli Stati Uniti hanno evitato di prendere una serie di misure severe contro l’altro, ma evidentemente le cose sono cambiate, oltre il riconosciuto, nel corso degli ultimi mesi.

In particolare, la serie di tensioni è stata una sorpresa – proprio di recente, gli analisti statunitensi hanno pubblicato previsioni completamente diverse per quanto riguarda i rapporti con la Cina. L’economista statunitense e direttore del Peterson Institute for International Economics, Fred Bergsten, coniò il termine G-2, come la formula della nuova economia globale, nel suo ‘The United States and the World Economy’ (2005). Nel primi mesi del 2009, il concetto è stato accolto dai guru della politica estera degli Stati Uniti come l’ex segretario di Stato, H. Kissinger e l’ex consigliere alla Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Z. Brzezinski. La loro idea era che la Cina dovrebbe assumere l’onere dell’egemonia globale, congiuntamente con gli Stati Uniti, il che implica che l’amministrazione Obama darebbe avviare un atteggiamento generalmente benigno verso il paese.

La visita a Pechino, nel novembre 2009, del presidente statunitense B. Obama, ha suggerito che l’istituzione del G-2, ma l’offerta è stata accompagnata da raccomandazioni piuttosto imperiose, affinché la Cina rivalutasse lo yuan ed aderisse al regime delle sanzioni da imporre all’Iran. La Cina ha declinato sulla base del fatto che la sua autosufficienza non è ancora abbastanza matura, che è necessario un serio ammodernamento e che, in politica estera, credono a Pechino, dovrebbe mantenere l’indipendenza e stare lontano da qualsiasi alleanza. Al momento della visita di Obama, la Cina aveva abbastanza tempo per conoscere nel dettaglio il concetto di G-2, e il rifiuto ufficiale della offerta di diventare un partner, minore, degli Stati Uniti è stato il prodotto di ampio consenso, raggiunto già in precedenza.

La visita di Obama del Novembre 2009, dovrebbe essere considerata come il punto di partenza del gelo tra la Cina e gli Stati Uniti. La dimensione iraniana merita particolare attenzione, nel contesto. La Cina è l’unico ostacolo ancora presente sulla via della crociata contro l’Iran, e dipende dalla posizione di Pechino, se la risoluzione del problema “iraniano” seguirà il programma degli Stati Uniti. E’ altamente improbabile, però, che sotto qualsiasi combinazione di circostanze, la Cina si astenga dal porre il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sulla proposta degli Stati Uniti di imporre sanzioni contro l’Iran. La spiegazione dietro tale posizione è che l’Iran è per la Cina, uno principali partner commerciali e strategici. Oltre il 15% delle importazioni di petrolio della Cina, (per un totale di circa 450.000 barili al giorno) è fornito dall’Iran, con solo due paesi – Angola e Arabia Saudita – che forniscono quantitativi maggiori. La Cina ha preso due importanti nuove iniziative, per rafforzare la sua cooperazione con l’Iran nel settore dell’energia, alla fine del 2009. L’azienda statale della Cina, Sinopec, ha firmato un contratto con Teheran per sviluppare la prima fase del campo petrolifero di Yadavaran, uno dei più grandi dell’Iran, e per  investire 6,5 miliardi di dollari per l’aggiornamento delle capacità di raffinazione dell’Iran. Pechino ha calcolato che non avrebbe alcun senso di abolire tali piani, in nome dell’assunzione del ruolo di partner minoritario, nel duetto con gli Stati Uniti.

La rivalutazione dello yuan è un tema ricorrente, sin dall’inizio del decennio in corso. La Cina ha accettato un compromesso sulla questione nel 2005, quando si fissò un tasso flessibile per lo yuan, sincronizzato con un paniere di valute, e lo yuan ha effettivamente aggiunto il 21%, entro il luglio 2008. Il processo si fermò alla vigilia della crisi economica globale. Attualmente il tasso di cambio è di circa 6,82 yuan per un dollaro statunitense, rispetto ai 8,2 yuan nel 2005. I paesi occidentali industrializzati assorbono la maggior parte delle esportazioni cinesi, e perciò sono insoddisfatti della situazione: B. Obama, presidente degli Stati Uniti, e diversi altri leader occidentali, credono che l’artificialmente sottovalutato yuan protegga il mercato cinese dalle importazioni occidentali, dando agli esportatori cinesi un vantaggio sleale.

Gli analisti occidentali sostengono che la Cina deve rivalutare lo yuan per guidare la sua continua crescita economica. Anche se il rafforzamento dello yuan ridurrebbe l’esportazione della Cina e le corrispondenti entrate, apporterebbe un benefico effetto nell’ostacolare l’afflusso nel paese di investimenti speculativi, che acuiscono l’inflazione. Nel febbraio scorso, gli analisti della Goldman Sachs prevedevano una rivalutazione del 5% dello yuan a breve, ma Pechino è rimasta insensibile.

Pechino ha trovato un approccio alternativo al contenimento dei rischi finanziari – secondo il Dipartimento del Tesoro statunitense, nel dicembre 2009 la Cina ha venduto obbligazioni degli Stati Uniti per 32,2 miliardi di dollari e ha quindi ridotto le sue riserve di obbligazioni degli Stati Uniti a 755 miliardi di dollari. Di conseguenza, oggi – per la prima volta dall’agosto 2008 – il Giappone, e non la Cina, è titolare più grande al mondo di obbligazioni degli Stati Uniti (per un totale di 769 miliardi di dollari).

La versione ufficiale è che il dumping delle obbligazioni degli Stati Uniti da parte della Cina, è un tentativo di diversificare le sue riserve monetarie. Per evitare un’eccessiva iniezione di liquidità, la Cina, probabilmente, non opterà per decisi tagli agli investimenti in titoli statunitensi. Continueranno a svolgere un ruolo importante nelle riserve valutarie cinesi – i titoli degli Stati Uniti rappresentano circa il 70% del totale della Cina, che ha superato i 2,3 mila miliardi di dollari. Ancora, l’azione della Cina di sbarazzarsi di una parte della sua attività in dollari, ha avuto ripercussioni in tutto il mondo e può essere indicativo della strategia del paese, a lungo termine.

Un nuovo problema nelle relazioni Cina-Stati Uniti è emerso durante l’inverno, con Google che accusa la Cina d’inondare il mondo di spyware. Secondo Google, gli attacchi informatici contro le sue infrastrutture aziendali sono stati lanciati dalla Cina. Vale a dire, sono stati fatti tentativi di irrompere nelle mailbox dei dissidenti cinesi registrate su Google. Google ha risposto levando la censura richiesta sul suo motore di ricerca, e quindi, momentaneamente, conquistare una quota maggiore del mercato cinese. I cittadini cinesi hanno avidamente colto l’occasione per esaminare le versioni alternative del 1989 sulla tragedia di Piazza Tian’anmen, la situazione in Tibet, Xinjiang, il problema di Taiwan e altri temi, ai quali i funzionari di Pechino sono sensibili.

Funzionari cinesi, dell’esercito e ambienti accademici, negano ogni coinvolgimento negli attacchi cibernetici, spostando automaticamente i sospetto su Baidu, la principale compagnia nazionale in concorrenza con Google. Analysis International dice la quota di mercato Baidu era circa il doppio di quello di Google, nella seconda metà del 2009 – 61,6% contro 29,1%. Mentre il divario persiste, il divario tra le due aziende è in costante decrescita di anno in anno. Al momento, il ritiro di Google dal mercato cinese come un suo compromesso con il governo cinese – cioè il ripristino della censura – sembrano ugualmente possibile. Considerando che la Cina è la patria di circa il 20% dei navigatori su Internet del mondo, è chiaro che la società statunitense odierebbe perdere aderenza in tale mercato.

La responsabilità nel provocare l’ennesimo grave conflitto spetta agli Stati Uniti. Washington aggredisce la Cina nel settore in cui l’amministrazione del paese non è meno sensibile della questione della libertà di parola – il programma degli Stati Uniti di portare avanti l’accordo per la fornitura di armi per 6,4 miliardi, a Taiwan. L’arsenale che Washington intende vendere all’isola, che Pechino guarda come una sua provincia, comprende 60 elicotteri UH-60M Black Hawk, 114 missili intercettori Patriot PAC-3, 12 sistemi missilistici anti-nave Harpoon Block II, 2 cacciamine classe Osprey, e il modernizzato sistema di controllo e comando Po Sheng, progettato specificamente per soddisfare le esigenze delle forze armate di Taiwan.

Pechino ha reagito prontamente, e la risposta è stata dura. Una nota di protesta è stata consegnata all’ambasciatore degli Stati Uniti in Cina. Una dichiarazione ufficiale accusa gli Stati Uniti d’interferire negli affari interni della Cina, minacciando la sua sicurezza nazionale. La protesta diplomatica è stata accompagnata da una serie di misure che certamente faranno arrabbiare gli Stati Uniti. La Cina ha annullato il programma di cooperazione militare con gli Stati Uniti e impone sanzioni alle imprese statunitensi coinvolte nella trattativa con Taiwan. L’elenco delle società interessate include Boeing, United Technologies, Raytheon e Lockheed Martin. Le prime due sono stati soggetti attivi sul mercato interno cinese.

Anche l’amministrazione del presidente taiwanese Ma Ying-jeou, si torva di fronte una situazione difficile. Lo scorso gennaio la Cina e Taiwan avevano avviato dei negoziati su una proposta di accordo quadro per la cooperazione economica (ECFA), e il presidente del Kuomintang, Ma Ying-jeou, in realtà cercava di mobilitare tutta la sua influenza politica, per sostenerla. Il raggiungimento dell’accordo è in cima alla lista delle priorità economiche di Taiwan. L’accordo Cina-ASEAN è entrato in vigore il 1° gennaio 2010, e nel caso in cui l’ECFA non riesca a materializzarsi, Taiwan si troverà svantaggiata nelle rigide rivalità economiche regionali, con i suoi prodotti che non saranno in grado di competere con quelli dei paesi dell’ASEAN. Il regime di libero commercio della Cina con Indonesia, Vietnam e altri paesi dell’Asia sud-orientale, rappresentano per l’economia di Taiwan un duro colpo. Mentre Pechino è il primo partner commerciale di Taipei, questa città è da qualche parte, sotto ai top 20 di Pechino.

l’incontro del presidente Usa, B. Obama, con il 14° Dalai Lama Tenzin Gyatso, poteva rivelarsi un evento periferico, nel contesto dell’escalation globale tra Cina e Stati Uniti. Inoltre, la visita del Dalai Lama ha avuto luogo durante la normale e non troppo movimentata vacanza del capodanno cinese, ma Pechino non smette mai di monitoraggio le visite del Dalai Lama, e la reazione è seguita senza indugio. Le spiegazioni di Obama, che ha ricevuto il suo ospite come leader religioso, piuttosto che leader politico del Tibet, sono state spazzate via dalla Cina, che percepisce la riunione alla Casa Bianca dei due vincitori del premio Nobel, come un gesto politico. Va notato che, a differenza di G. Bush, B. Obama ha parlato con il Dalai Lama nella camera delle carte, invece che nello Studio Ovale, e non si è presentato con la Congressional Gold Medal.

E’ ampiamente condiviso che la visita del Dalai Lama negli Stati Uniti, riflette il tentativo di Washington di seminare discordia geopolitica in Asia meridionale, e d’infiammare le tensioni tra i due pesi massimi della regione, l’India e la Cina. La Cina prevede di diversificare le rotte attraverso il quale importa petrolio e gas dal Golfo Persico e dall’Africa. La costruzione di un oleogasdotto di 1.100 km per collegare la Birmania e la provincia cinese dello Yunnan, inizierà nel settembre 2010. Il progetto sarà gradualmente terminato nel 2012 e ridurrà la via i rischi derivanti dalla necessità di passare lo Stretto di Malacca, attuale via di transito per la Cina, afflitto dalla pirateria. La nuova via di transito attraverserà lo Sri Lanka, il paese la cui amicizia con la Cina è ravvivata dalla presenza di ingenti investimenti cinesi nella sua economia. In contrasto con la Birmania e lo Sri Lanka, l’India è un paese che hanno rapporti tesi con la Cina, a causa delle dispute di confine e dell’attività pubblica del Dalai Lama. L’India è chiaramente preoccupata per la marcia delle imprese cinesi in tutti i paesi vicini. In cima a ciò, le relazioni di New Delhi con Colombo e Naypydaw sono tutt’altro che ideali.

Parlando dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, la domanda chiave è: quali sono le ragioni che improvvisamente fanno inasprire e costringere entrambi i paesi a indurire le loro politiche estere. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, però, ci si dovrebbe rendere conto che la sorpresa nella sua posizione più rigida, deve essere attribuita esclusivamente al contrasto con la promessa di una politica più morbida, che è stata fatta nella campagna elettorale di Obama. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, ha fatto dei tentativi di nuovi approcci, nel suo primo anno in carica: ha negato l’approvazione dell’accordo per le armi a Taiwan, e non ha ricevuto il Dalai Lama durante la precedente visita negli USA del leader tibetano. Inoltre, anche H. Clinton era impegnata a domare le critiche a Pechino sui diritti umani.

Il ritorno alla politica internazionale in stile Bush, deve essere legata alla pressione cui B. Obama è esposto in connessione con una serie di questioni di politica interna, soprattutto la riforma del sistema sanitario, che doveva diventare il punto culminante della sua carriera politica. Inoltre, l’establishment degli Stati Uniti avanza un’inflessibile resistenza a qualsiasi cambiamento che abbia il potenziale di influenzare il primato statunitense. Perciò, il presidente ha dimostrato una determinazione senza compromessi, per mantenere la leadership globale degli USA, e la politica internazionale di Washington sta divenendo sempre più aggressiva.

La motivazione dietro l’evoluzione della posizione di Pechino, non è così facile da seguire, e vi coesistono diverse spiegazioni, più o meno realistiche, sul passaggio dalla politica di “ascesa morbida” nello stile degli stratagemmi di Mao Zedong. I commentatori conservatori occidentali sono convinti che la Cina stia mostrando il suo vero volto di potenza, negando i diritti desiderati e chiedendo la revisione dell’equilibrio globale. Gli analisti cinesi dicono che la crisi finanziaria mondiale, cui danno la colpa all’occidente, spiega i vantaggi del modello cinese di sviluppo economico e, quindi, rende la leadership del paese più assertiva. Un’altra spiegazione è che il corso più duro della politica estera, è un sottoprodotto del processo di transizione in Cina, che il potere ha già avviato in previsione del XVIII Congresso del Partito Comunista, in programma nel 2012. Il punto è che la politica nazionalista migliora discretamente la posizione dei candidati al vertice. Un punto di vista alternativo è che, l’esercito e gli ambienti conservatori in Cina, prevalgono sui riformisti e chiedono una politica più autoritaria.

Il conflitto tra i due paesi, per affermare la leadership a livello mondiale, è in corso, ma alcune conclusioni intermedie possono già essere tratte. Gli Stati Uniti, come attuale leader incontrastato, impiega una strategia basata sulla forza, mentre la Cina – il leader del futuro – si basa principalmente sulla pressione economica. A partire da oggi, gli Stati Uniti hanno perso di più, nel gioco: Boeing, United Technologies e molto probabilmente Google, si trovano ad affrontare il rischio di essere espulsi dal lucroso mercato cinese. Inoltre, il dumping delle obbligazioni degli Stati Uniti da parte della Cina, ha avuto l’effetto di minare la fiducia nelle obbligazioni degli Stati Uniti su scala globale. Al contrario, i danni per la Cina sembrano essere limitata al livello di immagine. L’episodio della cyber-guerra, la manifestazione di forza delle società degli Stati Uniti e il sostegno a Teheran, condiziona i commentatori e i media occidentali, con pretesti per varie accuse contro la Cina, e vi è la probabilità che le campagne medianiche, infine, parleranno della capacità della Cina di attrarre investimenti.

Nel complesso, uno scontro in piena regola tra la Cina e gli Stati Uniti è improbabile. Nessuno di loro ha bisogno di perderci economicamente da tale conflitto. Le economie dei due giganti sono intrecciate e interdipendente, l’accordo si è rivelato stabile nel corso dei decenni, e nessuna alternativa ad essa si profila all’orizzonte. Eppure, è difficile prevedere la durata del gelo attuale. Ma una cosa è certa: almeno per i prossimi molti anni, il concetto di G-2 non ha chance.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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