Il generale Fabio Mini ha realizzato la prefazione all’opera La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze di Daniele Scalea (redattore di “Eurasia”), che uscirà in aprile dai tipi dell’editore Fuoco di Roma.
Fabio Mini, generale di corpo d’armata in ausiliaria dell’Esercito Italiano, laureato in Scienze strategiche, ha comandato tutti i livelli di unità meccanizzate e ricoperto diversi incarichi presso lo Stato Maggiore. È stato alla guida della missione KFOR in Kosovo e del Comando Meridionale della NATO in Europa.
Ha scritto o curato numerose opere di strategia, sicurezza internazionale e storia militare. Collabora abitualmente con “Eurasia“, “Limes“, “Repubblica” e “l’Espresso“.
Riportiamo di seguito uno stralcio della sua lunga ed interessante prefazione, intitolata Dalla geopolitica degli stati a quella dei flussi:
Se questa fosse una recensione si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno, la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è nient’altro da dire. Anche lui probabilmente non ha nient’altro da dire.
Ma questa non è una recensione e il modo in cui l’esame geopolitico è stato condotto in questo libro, per mole, intensità, chiarezza e approfondimento, non merita soltanto l’apprezzamento, ma anche un commento e, se si vuole, una sorta di “avvertenze prima dell’uso”.
La geopolitica non è una scienza esatta. In verità nessuna scienza lo è in modo assoluto: abbiamo passato gli ultimi tre secoli a smantellare le certezze e le verità scientifiche dei millenni precedenti. Quelle poche che resistono sono valide soltanto in un ambito limitato di riferimento. La geopolitica, poi, non è neppure ritenuta da tutti una scienza e sono molti quelli che ritengono che appoggiare l’interpretazione politica alla geografia non sia più valido perché con la globalizzazione la geografia sarebbe scomparsa o superata. […] E allora si sono trovate nuove interpretazioni per ciò che si ignorava, non si capiva o non si poteva spiegare con la semplice geografia: nuove chiavi di lettura dei fenomeni politici e sociali, delle relazioni internazionali e della politica stessa. Il prefisso geo è stato quindi applicato a qualsiasi cosa si volesse ritenere globale ma disgiunta dalle caratteristiche geografiche. […] Sono valse a poco le rimostranze dei geopolitici che facevano notare come la geopolitica moderna non sia molto diversa da quella del passato: deve soltanto essere più inclusiva e non limitarsi alla morfologia terrestre. Deve comprendere nuovi fattori economici come la trasparenza e la corruzione, i debiti oltre che i crediti, la credibilità oltre alla fede. […] Rimane però da vedere quanto i vecchi parametri della continentalità, della ricerca dei mari caldi, del potere marittimo, dell’insularità siano diventati obsoleti. Di certo l’Asia Centrale riflette ancora in modo drammatico un gioco al massacro antico di secoli e che presenta sorprendenti analogie con quello che succede in questi giorni. Il mare è ancora il dominio dell’intraprendenza e gli Stati Uniti hanno semplicemente sostituito l’impero britannico nell’esercizio del potere oceanico mutuandone le non-leggi, il mercantilismo e il dispregio dei confini: esattamente come avevano fatto gli imperi europei e asiatici e le repubbliche marinare. Gli Stati Uniti hanno ereditato dalla Gran Bretagna, nonostante l’idealismo e le raccomandazioni di George Washington, anche il colonialismo, trasformato dagli inglesi in scienza politica dal nome più politicamente corretto a seconda della situazione, ma non ne hanno modificato le logiche di preda e razzia che hanno sempre caratterizzato gli imperi del mare e i pirati saraceni. Di certo è ancora valido il nomos della terra che Carl Schmitt individua come fonte del diritto se non altro perché, da quando è stato piantato il primo paletto a delimitare la proprietà o la prima palizzata difensiva, la minaccia alla legalità si è materializzata in quelli che non rispettavano alcun limite, come sul mare o nelle pianure ostili al di sopra della isoieta dei 400 millimetri: il confine naturale tra pastorizia e agricoltura, tra stanzialità e nomadesimo, tra città (da cui civiltà) e villaggio mobile, tra mausolei e tumuli di sassi. Ed è ancora questo nomos legato alla terra, questo Diritto, a guidare la politica occidentale nonostante i colpi mortali inferti dalle incursioni dei barbari di turno che comprendono sia quelli che definiamo tali solo perché sono diversi e dinamici, sia quelli che noi stessi produciamo e che effettuano continue incursioni e sciami offensivi con il terrorismo, la speculazione, la criminalità e la corruzione. Di certo, il cuore oceanico non ha ancora soppiantato quello continentale ed è quasi un paradosso che quest’ultimo abbia ricevuto nuova energia proprio dalla Legge sul Mare, la convenzione che stabilisce la sovranità sulle acque partendo da qualsiasi superficie emersa, così come attribuisce ai paesi senza sbocco sul mare (i.e. Afghanistan) eguali diritti di sfruttamento dei fondali oceanici. Non è invece un paradosso che qualsiasi interpretazione politica costruita sulla sola economia o sul cuore finanziario del mondo non riesca a durare più di venti anni.
La geopolitica, dunque, rimane vitale e lo sarebbe ancor di più se gli sforzi diretti a contestarla fossero convogliati verso la comprensione dei fattori che devono essere aggiunti a quelli tradizionali…
Per leggere integralmente la disamina del generale Mini non resta che procurarsi La Sfida Totale
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