Sembrerebbe quasi un esercizio superfluo pubblicare un libro sulla “dottrina Soleimani” (sulla visione geopolitica del generale martire delle Guardie Rivoluzionarie iraniane) in un momento in cui il binomio USA-Israele – già corresponsabile del genocidio e della distruzione a Gaza (che si vorrebbe ripetere nel Libano meridionale) – si appresta a lanciare un attacco all’Iran che taluni vorrebbero rivolto alle infrastrutture militari, altri a quelle petrolifere (con eventuali strascichi nefasti anche per la già disastrata economia europea, ridotta allo sbando dal suicidio collettivo del fallimentare regime sanzionatorio alla Russia), altri ancora (come il candidato presidenziale Donald J. Trump, fresco di tributo alla tomba di Menachem M. Schneerson, capo della setta messianica giudaica Chabad Lubavitch) ai siti nucleari.
Di fatto, dopo il 7 ottobre 2023 e la scelta del regime occupante sionista di utilizzare (coadiuvato dal supporto logistico occidentale) tutto il proprio potenziale militare per “schiacciare” i nemici storici Hamas e Hezbollah, il cosiddetto “Asse della Resistenza” potrebbe sembrare in fase di arretramento, se non prossimo ad una sconfitta definitiva sotto il peso delle tonnellate di ordigni sganciati da Tel Aviv, cui tutto è concesso: atti terroristici in Paesi terzi, attacchi alle sedi diplomatiche, assassinii di capi politici, bombardamenti indiscriminati sulle capitali di Stati vicini.
Le realtà, tuttavia, ci dice qualcosa di diverso. Ad un anno dall’operazione “Tempesta di al-Aqsa”, Hamas è ancora vivo sia politicamente che militarmente, e difficilmente verrà eradicato. Israele non è riuscito a liberare gli “ostaggi” (ma questo rimane un aspetto secondario, di scarso interesse per gli obiettivi reali di Netanyahu e soci, desiderosi di realizzare a Gaza il sogno del genero di Donald J, Trump, quel Jared Kushner che è assai vicino proprio ai Chabad Lubavitch). Hezbollah, nonostante l’uccisione dei suoi vertici e l’inizio dell’“operazione terrestre limitata” (sic!) nel Libano meridionale, sta dimostrando una preparazione ed una capacità di resistenza che renderà la suddetta operazione estremamente sanguinosa, sia militarmente sia economicamente (la conoscenza perfetta di un territorio collinare che ben si presta alla guerra di guerriglia e l’utilizzo coordinato di droni e cecchini stanno impedendo ogni tentativo di avanzata in profondità dei carri Merkava dell’IDF, che si sono coraggiosamente riparati dietro le postazioni del contingente UNIFIL). A ciò si aggiunga che l’opinione pubblica del mondo arabo, nonostante i patetici appelli accompagnati da più o meno velate minacce di Netanyahu, sta apprezzando in modo crescente le capacità di resistenza tanto di Hamas quanto di Hezbollah, senza considerare l’effetto generato dall’attacco iraniano del 1° ottobre (attacco ancora una volta soprattutto dimostrativo, ma che ha svelato la penetrabilità del pur sofisticato triplo sistema antiaereo israeliano). Si badi bene che quando si parla di “mondo arabo” non si fa riferimento ai vertici politici di quest’ultimo, sostanzialmente distaccati dalla realtà dei loro stessi popoli (si pensi al Re di Giordania Abdallah, ma lo stesso discorso vale anche per un al-Sisi in Egitto, con le dovute differenze, o per i sovrani delle Monarchie del Golfo). Un distacco che invece non appartiene né a Hamas né a Hezbollah, che, al contrario, hanno costruito le proprie fortune politiche sul radicamento tra gli strati inferiori e tra le masse popolari.
Dunque, si può realmente parlare di “sconfitta dell’Asse della Resistenza”? La risposta ad una simile domanda richiede una serie di considerazioni preliminari, ed il libro di Daniele Perra La dottrina Soleimani. Formazione ed evoluzione dell’Asse della Resistenza (Anteo Edizioni 2024) risulta fondamentale per meglio comprendere il messaggio e le modalità di pensiero (strategico e geopolitico) di questo sistema informale di alleanze. Così si potrà scoprire che esiste una differenza abissale tra i campi contrapposti per ciò che concerne il significato attribuito ai termini “vittoria” e “sconfitta”; un qualcosa che difficilmente può essere compreso dall’analista occidentale che imposta il suo intero ragionamento sull’efficacia dello strumento tecnico, sulle reciproche capacità distruttive, sul conteggio delle vittime e su costi/benefici militari (ed anche economici) dell’azione.
Scrive Perra, facendo un chiaro riferimento alla storia metapolitica dello sciismo ed alla rivolta dell’Imam Husayn contro Yazid nel 680 d. C., conclusasi con il martirio del primo: “la rivolta di Husayn, nella contemporaneità […] è divenuta un punto di riferimento anche per quell’Asse della Resistenza che mira a contrastare l’oppressione di Stati Uniti e Israele proprio come la fazione di Ali resistette all’arrogante Yazid. E tale esempio, inoltre, implica il messaggio che non vi è mai sconfitta nel sacrificio – non c’è sconfitta nella morte – e che è preferibile una sconfitta (sul piano militare) comunque onorevole ad un compromesso con l’oppressione e l’ingiustizia. Secondo l’impostazione teologica dello sciismo, infine, la battaglia di Kerbala rappresenta la lotta interiore che ha luogo in ogni istante nell’essere umano tra l’aspetto materiale-carnale e quello intellettuale-spirituale”.
Di conseguenza, possono essere considerate vittorie dell’oppressione tanto l’assassinio del generale Soleimani (al quale si potrebbe collegare l’inizio dell’attuale “conflitto mondiale a pezzi”) quanto quello di Hassan Nasrallah (schiacciato sotto le macerie del bombardamento sionista su Beirut insieme ad altre centinaia di persone)? Da entrambi il martirio era vissuto come un’ambizione. Soleimani affermava che diventa martire solo chi lo è stato anche in vita (chi ha dedicato la propria vita, interamente, alla causa della lotta contro l’oppressione); Ismail Haniyeh ha sempre dichiarato che per al-Quds ed al-Aqsa il sacrificio di sé è contemplato e giusto; mentre Nasrallah, già in occasione della morte del figlio, come riporta ancora una volta Perra nel suo lavoro, ebbe modo di dichiarare: “Mio figlio non è stato ucciso mentre bighellonava per la strada. Affrontava il nemico con una pistola in pugno, marciava verso il fronte con determinazione e fiducia in sé stesso, ispirato dal desiderio di distruggere il nemico. La sua morte non è una vittoria per Israele ma una vittoria per Hezbollah. Siamo orgogliosi di questa morte […] Mentirei se cercassi di farle credere che la morte di mio figlio non faccia male, ma bisogna guardare alle cose in questo modo: è morto da martire; e questa è la gioia più grande che un padre possa provare […] noi crediamo in Dio e, in base al nostro credo, i martiri cominciano una nuova vita, molto migliore, in Paradiso. Essi hanno un posto speciale presso Dio”.
Dunque, si può considerare una vittoria del regime sionista l’assassinio di capi politici (Nasrallah e Haniyeh) legati a movimenti profondamente radicati, da decenni, nelle società dei rispettivi Paesi o entità parastatali (il caso della Striscia di Gaza)? O, più semplicemente, questa si può leggere come una mossa dettata dalla necessità di un “successo eclatante” da sbandierare al pubblico occidentale – sempre più anestetizzato da mezzi di informazione che falsificano scientemente il presente e negano la storia – dopo un anno di fallimentare azione genocida a Gaza? Si utilizza il termine “fallimentare” perché, ad oggi, grazie proprio alla capacità resistenziale del popolo di Gaza, Israele, nonostante l’uso sproporzionato della forza, non è riuscito ad ottenere quello che è da sempre il suo reale obiettivo: cacciare i Palestinesi dalla loro terra. E si utilizza il termine “fallimentare” perché Israele (e più in generale l’intero Occidente egemonizzato dagli USA), a differenza dei suoi rivali, non ha il tempo dalla sua parte. È assetato di obiettivi immediati che difficilmente potrà raggiungere se non a costi gravissimi ed a spese di quell’aspetto demografico che costituisce la sua vera ossessione.
Ancora, i suddetti mezzi di informazione occidentali non perdono occasione per sottolineare la superiorità tecnico-militare di Israele rispetto ai suoi avversari diretti. Tuttavia, ben pochi mettono in luce il fatto che Israele, senza il costante ed incondizionato sostegno occidentale, difficilmente riuscirebbe a reggersi sulle proprie gambe (ed oggi, senza tale sostegno, Tel Aviv sarebbe incapace di colpire direttamente la Repubblica Islamica). Ciò a differenza dell’Iran, che nonostante 45 anni di regime alternato (ad intensità variabile) di sanzioni ed embargo e svariate aggressioni, è riuscito ad avviare un programma missilistico e nucleare di tutto rispetto. L’ha fatto in primo luogo con le proprie forze; grazie ai suoi tecnici, ai suoi ingegneri, ai suoi fisici. Caso unico nel desolante panorama del Vicino Oriente e, soprattutto, delle Monarchie del Golfo, dove (come dopo tutto era in Iran prima dell’avvento della Rivoluzione) simili posizioni vengono ricoperte da occidentali.
Qui, allora, entra in scena la geopolitica. E qui la “dottrina Soleimani” si palesa per quello che è realmente: ovvero, come il primo tentativo di un Paese realmente sovrano della regione di attuare una progettualità che si ponga (e si è posta) in netto contrasto con i diversi piani (Piano Yinon, Progetto Grande Medio Oriente, “primavere arabe”, Accordi di Abramo, senza considerare alle aspirazioni messianiche della “Grande Israele” dal “fiume d’Egitto all’Eufrate”) attraverso i quali l’Occidente ha cercato di ridisegnare la mappa geopolitica dell’area a proprio esclusivo vantaggio egemonico ed utilizzando gli schemi dello “scontro tra civiltà” e della “geopolitica del caos”, volta a favorire la parcellizzazione etnico-settaria del Levante. Il libro di Perra descrive nel dettaglio questi processi; e descrive alla perfezione storia e ruolo dei membri più importanti dell’Asse (o Fronte) della Resistenza, fornendo una visione di insieme su passato, presente e possibili scenari futuri di questo spazio geografico fondamentale per la trasformazione dell’ordine globale dall’unipolarismo al multipolarismo. Si pensi, ad esempio, alla naturale opposizione tra la Nuova Via della Seta (di cui l’Iran, per la sua particolare posizione tra le direttrici nord-sud ed est-ovest dell’Eurasia, è perno centrale) ed il progetto sionista della “via del cotone” che non può prescindere dal latrocinio delle risorse idriche e gassifere sia del Libano (altro obiettivo dell’“operazione terrestre limitata”) che di Gaza.
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