Ekh grast kon terdjòl p’ekh fiàlo than préjia, avéla ger pe pinre.
(Un cavallo che sta fermo troppo a lungo in un posto, avrà prurito alle zampe)
Proverbio zingaro
In anni ormai lontani, oltre a raccogliere “sul campo” il materiale necessario per una grammatica di sinto che finora non ha visto la luce, compilai il primo lavoro di raccolta lessicale sul dialetto sinto dell’Emilia, un glossario che venne pubblicato sulla rivista di studi del Centro Studi Zingari (Romanò Sičarimasko Than) (1).
I Sinti sono Zingari che vivono in Italia da una data che la ricerca storica non ha ancora potuto precisare; si distinguono in Sinti piemontesi (un ramo dei Manouches della Francia), lombardi, veneti, emiliani, marchigiani, ai quali bisogna aggiungere i Sinti mucini (“mocciosi”) o smaltaroli (“fangosi”), un piccolo gruppo che si muove tra l’Emilia e il Piemonte. Più recente, all’interno dei confini italiani, è la presenza dei Sinti gagkané, che giunsero dalla Germania attraverso la Francia all’inizio del secolo scorso, nonché dei Sinti estrékharja (“austriaci” dell’Alto Adige), krànarja (“carnici”) e kràsarja (“carsici”), diventati sudditi del Regno d’Italia nel 1918. Questi vari gruppi di Sinti “italiani” (circa 30.000 individui) hanno tradizionalmente esercitato le varie specialità (musicali, acrobatiche ecc.) connesse agli spettacoli circensi e ai parchi di divertimenti itineranti, ma anche mestieri artigianali quali l’affilatura dei coltelli, la riparazione degli ombrelli ecc., nonché il piccolo commercio ambulante e la vendita porta a porta. Ultimamente hanno cominciato a praticare nuove attività, come la rottamazione di automobili e la vendita di bonsai.
Il fondo lessicale del dialetto sinto parlato in Emilia, se si prescinde dai caratteristici imprestiti tedeschi, è quello comune a tutti i dialetti zingari: contiene vocaboli di origine iranica, armena, greca ecc., ma soprattutto voci comuni alle moderne lingue indoeuropee dell’India (hindi, panjabi, idiomi dardici); oltre al lessico, anche la struttura morfologica del dialetto sinto da me esaminato, al pari degli altri dialetti zingari, è molto simile a quella delle lingue ariane neoindiane.
Questo perché la sede originaria degli Zingari (Rom, Sinti, Kalé ecc.) si trovava nel subcontinente indiano: l’India centrale secondo alcuni (R. L. Turner), le zone nord-occidentali secondo altri (W. R. Rishi). “In quel tempo – dice una leggenda nazionale – gli Zingari vivevano tutti insieme in un unico luogo, in un paese meraviglioso. Il nome di quel paese era Sind” (O Roma beshenas o zuman savre kidende ekh thaneste, ekh lače vilayečeste. Kale vilayečesko alav siyas Sind). Secondo l’opinione oggi prevalente, la migrazione degli Zingari avrebbe avuto luogo all’epoca della seconda ondata della conquista musulmana dell’India, quando Mahmud di Ghazna (998-1030) sottomise il Pangiàb e le regioni al di là dell’Indo. Le incursioni di Sultan Mahmud avrebbero provocato l’esodo di una popolazione di lingua indo-ariana che, dopo aver attraversato la Persia e dopo essersi temporaneamente stanziata in Armenia, si sarebbe successivamente spostata sui territori dell’Impero bizantino, dove i nuovi arrivati furono chiamati con l’epiteto greco di athìnganoi, “intoccabili, denominazione che li accomunava ad una setta manichea con la quale venivano confusi. Da tale parola derivano, in italiano, gli etnonimi zingaro e zigano (nonché i vocaboli corrispondenti di altre lingue europee), coi quali sono stati indicati gli appartenenti a questo particolare gruppo etnico, mentre termini come gitano, gypsy e simili rimandano alla loro presunta origine egiziana (2).
Le avanguardie degli athìnganoi appaiono a Creta nel 1322; sempre nel XIV secolo si trovano, in relazione all’Europa occidentale, “accenni sparsi a tartari, ismaeliti ed etiopici, termini usati comunemente in seguito per indicare gli Zingari” (3). Ma fu a partire dal 1417 che contingenti di Zingari cominciarono a percorrere anche la parte occidentale dell’Europa, sostando per qualche giorno in alcuni importanti centri urbani e attirando l’attenzione dei cronisti coevi. Nel 1427 erano giunti alle porte di Parigi; qualche anno dopo venivano segnalati in Lorena e nella Provenza; tra la fine del XV secolo e l’inizio di quello successivo si sparsero per tutta la penisola iberica. Quindi sbarcarono in Inghilterra e in Scandinavia, mentre dalle regioni danubiane si verificava un consistente spostamento verso la Polonia e la Russia. Nei primi anni del XVI secolo gli Zingari erano già sparsi per tutta l’Europa; successivamente sarebbero arrivati anche nei possedimenti d’oltremare della Spagna e del Portogallo.
Per quanto riguarda la durata, quella degli Zingari fu una migrazione permanente, poiché l’etnia migrante è rimasta definitivamente fuori dalla sua terra d’origine; in relazione al numero di individui che vi parteciparono, si trattò di una migrazione di massa, poiché consistenti gruppi umani si spostarono contemporaneamente in un’unica direzione. In base all’ampiezza da essa assunta, la migrazione zingara può essere definita extracontinentale o transcontinentale (qualora l’Asia – cui appartiene la loro sede originaria – e l’Europa – area della loro successiva diffusione – possano essere considerate come due continenti distinti); o intracontinentale (se assumiamo il principio secondo cui continente è un complesso di terre emerse circondate da acque oceaniche).
Un ulteriore tratto distintivo del fenomeno in esame è quello che un’antropologa specializzatasi nello studio socioculturale del mondo zingaro ha chiamato, “senza nessuna intenzione dispregiativa, epidemico” (4), in quanto si è rapidamente diffuso in tutta Europa e successivamente anche nel Nuovo Mondo. Nel caso degli Zingari si è dunque verificato l’esatto contrario di quanto per lo più avvenne nelle migrazioni di popoli della tarda antichità, ciascuna delle quali si concentrò in un’area determinata, risolvendosi nell’insediamento del popolo migrante su un dato territorio.
A questa caratteristica della migrazione zingara se ne accompagna un’altra, che consiste nella scarsa consistenza numerica dei gruppi migranti, nonostante qualche paese presenti cifre relativamente elevate per quanto attiene alla presenza zingara sul suo territorio (5). Di qui una vera e propria diaspora zingara, tale da indurci a pensare che i gruppi di questo popolo si sfuggano reciprocamente, “al punto che la loro dispersione e distribuzione nello spazio potrebbero essere il risultato di una forza di repulsione obbligante ogni gruppo zingaro a cercare un’ ‘area di nomadismo’ propria e pertanto a fuggire quella occupata da altri Zingari” (6). E invece, non di repulsione reciproca si tratta, ma di una conseguenza di quello che la ziganologa citata più sopra ha ritenuto di poter definire, “senza sfumature spregiative, un nomadismo parassitario (…) che vive su di un contatto episodico con una popolazione sedentaria e spesso più o meno alle sue spalle” (7).
A questo punto però ritengo opportuna una precisazione che non è solo terminologica, ma anche e soprattutto concettuale. Propriamente “nomade” è un popolo che erra in cerca di pascoli, poiché il greco nomás, -ádos proviene da un verbo, némo, che significa “dividere secondo la convenienza o la legge”, sicché “un pascolo spartito secondo il diritto basato sul costume si chiamerà nomòs” (8). Alla stessa famiglia di vocaboli appartiene anche quello al quale Carl Schmitt ha inteso restituire tutta l’efficacia semantica che ad esso compete, ossia nómos, “la parola greca che designa la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria” (9). Ne consegue che il nomadismo è, per riprendere la definizione di Braudel, “un fenomeno totale: greggi, uomini, donne e bambini si spostano insieme, e su distanze enormi, portando con sé tutto l’occorrente alla vita quotidiana” (10).
È dunque evidente che gli spostamenti degli Zingari non rientrano nella tipologia genuina del nomadismo, tanto meno in quella varietà di nomadismo che, secondo René Guénon, “sotto il suo aspetto ‘malefico’ e deviato, esercita facilmente un’azione ‘dissolvente’ su tutto ciò con cui viene a contatto” (11). Infatti, a parte qualche eccezione del tutto insignificante (12), né i Sinti né i Rom hanno mai esercitato il diritto di pascolo all’interno di un territorio, né hanno mai associato la loro mobilità alle altre attività caratteristiche dei popoli nomadi: la caccia e la guerra. Diversamente dagli autentici nomadi che hanno percorso le praterie nordamericane o il deserto arabico, gli Zingari, per i quali userei la definizione di popolo itinerante anziché quella di popolo nomade, non vivono di risorse proprie, ma hanno instaurato con i sedentari (i gagé) un rapporto simbiotico che da alcuni è stato considerato addirittura come una forma di parassitismo. Infatti, a parte quei mestieri che in passato hanno rappresentato le loro specialità (lavorazione dei metalli, commercio dei cavalli, attività circensi e musicali), gli Zingari hanno vissuto di occupazioni marginali, producendo oggetti di scarso valore o trafficando metalli più o meno preziosi, quando non si sono dedicati ad attività quali la predizione dell’avvenire, l’accattonaggio, il furto, la compravendita di automobili rubate.
Il rapporto che per lo più si instaura tra un gruppo zingaro e la popolazione autoctona può dunque essere ascritto, almeno sotto i suoi aspetti essenziali, a quel particolare tipo di coesistenza che Lev Gumilëv ha definito col caratteristico termine di chimera. Nel lessico del grande studioso eurasiatista si configura una chimera allorché convivono e interagiscono entro il medesimo organismo sociale due entità collettive caratterizzate da complementarità negativa: “È il tentativo di unire ciò che non può essere unito, e inevitabilmente genera antagonismo, violenza, distruzione dei legami sociali, concludendosi di solito con la rovina” (13) di una di tali entità o anche di entrambe.
Come ho ricordato più sopra, la migrazione degli Zingari rientra nella categoria delle migrazioni coatte, che si hanno allorché “gli individui o folti gruppi umani sono costretti dal potere politico o in seguito ad eventi bellici o catastrofici a trasferire la loro residenza” (14). Ma per quale motivo, diversamente dagli altri popoli che da Oriente si diressero verso l’Europa, non posero un termine alle loro peregrinazioni stabilendosi in un’unica nuova sede?
L’insufficiente consistenza numerica del popolo zingaro ed il suo frazionamento in piccoli gruppi chiusi in se stessi non costituivano certamente i presupposti più idonei per la conquista di un territorio. Inoltre la loro migrazione avvenne troppo tardi, quando l’Europa aveva già assunto un suo assetto geopolitico e disponeva ormai di una sua capacità di autodifesa nei confronti di elementi estranei, sicché non era più disponibile uno spazio europeo sul quale gli Zingari potessero liberamente insediarsi per esercitarvi una loro propria sovranità.
D’altronde gli Zingari non hanno mai aspirato, come altri popoli senza terra, ad organizzare politicamente e giuridicamente la loro società su un territorio determinato. Non si può infatti prendere in seria considerazione il cosiddetto “sionismo zingaro”, ispiratore di progetti come quello formulato negli anni Trenta dal re zingaro Janusz I Kwiek, il quale, dopo essere stato consacrato dall’arcivescovo di Varsavia, chiese a Mussolini di poter fondare uno Stato indipendente tra la Somalia e l’Abissinia, o come quello postbellico di Vaida Voievod III (alias Ionel Rotaru), secondo il quale le Nazioni Unite avrebbero dovuto “aiutare il popolo degli zingari a creare un’Israele gitana, il Romanestan” (15). A sostenerne le spese dovevano essere ovviamente i Tedeschi, in quanto colpevoli, secondo le stime aritmetiche di Sua Maestà, della scomparsa di ben 3.500.000 Zingari (16). L’ipotesi di una “soluzione” di tipo “sionista” è stata comunque accantonata dai successori di Vaida Voievod; Ion Cioabã I, che si fregiava del titolo di “rege international al rromilor” (sic), mentre suo cugino Iulian Rãdulescu rivendicava quello di “imperatore di tutti gli Zingari di tutti i paesi del mondo”, mi disse testualmente nel corso di un colloquio concessomi poco prima di morire: “Ci sono già altri popoli che hanno occupato territori altrui. Noi non vogliamo fare lo stesso” (17).
Infine, tra le cause che hanno dissuaso gli Zingari dall’optare per un tipo di vita sedentario, non va trascurato un importante fattore spirituale: la convinzione secondo cui la mobilità sarebbe la forma necessaria e normale della loro esistenza. Tale convinzione persiste anche tra certi gruppi zingari diventati sedentari, i quali talvolta considerano la vita condotta dai loro avi in illo tempore nei termini di una peregrinazione sacra perenne e quindi si sforzano di riviverla periodicamente in modo simbolico attraverso un rito salvifico di migrazione (18). Questa tendenza alla mobilità è riaffiorata, ad esempio, tra i Rom stanziali dell’Abruzzo, il gruppo zingaro meglio integrato nella società italiana: recentemente alcuni piccoli nuclei si sono rimessi in viaggio e si sono diretti verso l’Italia settentrionale.
Diversi tentativi di indurre gli Zingari ad un’esistenza sedentaria hanno avuto luogo in varie parti d’Europa: dalla penisola iberica, dove sul finire del XV secolo il vagabondaggio venne vietato e ai Gitanos fu imposto di trovar lavoro e di eleggere stabile dimora, alla penisola balcanica, dove il Sultano Murad (1633-1640) cercò di impedire agli Zingari gli spostamenti sul territorio serbo, mentre gli Zingari dei principati romeni rimasero servi della gleba dalla fine del XIV secolo fino al 1856. Nell’Europa centrale, Maria Teresa e Giuseppe II praticarono in Ungheria e in Transilvania una politica di insediamento forzoso che proseguì anche nei periodi successivi, finché nel 1971 un ricercatore zingaro dell’Istituto di Sociologia di Budapest poteva riassumere in questi termini la situazione dei suoi connazionali: “All’epoca di Horthy la polizia costrinse definitivamente i nostri Zingari nomadi alla sedentarizzazione. Però il loro tenore di vita non è sostanzialmente mutato: vivono nei loro insediamenti ai margini dei villaggi con così poche cose, così isolati, così provvisoriamente, che potrebbero anche domani partire di lì” (19). Nella Germania nazionalsocialista, prima che gli Zingari venissero internati nei campi di concentramento, alcuni proponevano che agli Zingari venissero riservati appositi quartieri cittadini, mentre altri ne suggerivano la deportazione in territori in cui potessero agevolmente condurre la loro esistenza errabonda (20). Intanto nell’URSS veniva concepito il progetto di trasformare gli Zingari in proletari di fabbrica, finché, nel secondo dopoguerra, in tutti i paesi socialisti furono istituiti piani organici per costringere la popolazione zingara alla vita stanziale e scolarizzarla. Così nell’URSS venne proibito alle carovane zingare di circolare sulle strade, anche se il divieto fu rispettato soltanto in parte; in Cecoslovacchia poteva capitare che la polizia procedesse all’abbattimento degli equini di proprietà degli Zingari o facesse staccare le ruote dai carrozzoni per impedir loro il proseguimento del viaggio; in Romania, il paese con la popolazione zingara più numerosa, le iniziative del governo ricevettero un certo sostegno da parte dei membri dell’élite zingara (21), che dopo la caduta del regime nazionalcomunista hanno potuto esibire i simboli del loro status privilegiato di sedentari milionari: centinaia di enormi ville incredibilmente grottesche, “costruzioni neoclassiche, appesantite dai capitelli in uno stile misto tra il corinzio e lo ionico (foglie di acanto e decorazioni a doppia voluta affastellate sulle colonne). Oppure castelloni da fiaba, che sembrano arrivare direttamente da Disneyland” (22).
I Rom che dalla Romania hanno raggiunto l’Italia insediandosi in diverse città (soprattutto Milano, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Genova) si sono venuti ad aggiungere ad altri gruppi zingari, arrivati anch’essi in Italia nell’ultimo ventennio. In particolare, bisogna menzionare i Dasikhané, Zingari ortodossi provenienti dalla Romania e dalla Bulgaria, e i Khorakhané musulmani di provenienza bosniaca e cossovara, giunti in Italia tra la seconda metà del 1991 e l’estate del 1993. In totale, secondo una stima fornita nell’ultimo rapporto ISPO la popolazione zingara in Italia dovrebbe attualmente aggirarsi intorno ai 140.000 individui, 41.195 dei quali cittadini italiani registrati nelle prefetture; sul totale complessivo della popolazione dell’Italia, gli Zingari rappresentano dunque lo 0,25%, ossia l’equivalente di una città di provincia. Siccome la cosiddetta aspettativa di vita non supera in media i cinquant’anni, solo il 2,5% o il 3% di loro ha un’età superiore ai 60 anni, mentre circa la metà è composta di minorenni.
L’arrivo incontrollato di consistenti gruppi zingari dalla Romania non soltanto ha creato in Italia situazioni difficili e problemi particolarmente complessi e delicati, che il governo centrale e le amministrazioni locali non hanno saputo affrontare in maniera adeguata, ma ha anche causato una certa tensione tra Roma e Bucarest, rischiando di compromettere le tradizionali relazioni di amicizia fra Italia e Romania. Tra le diverse carenze che questa vicenda ha messo in luce, quella più grave riguarda l’Unione Europea, che non solo ha riconfermato la propria incapacità di disciplinare e razionalizzare i flussi migratori – sia quelli provenienti da aree esterne alla UE, sia quelli dei gruppi itineranti sui territori dell’Unione stessa – ma ha addirittura legittimato gli oscuri intrighi dello speculatore e mestatore internazionale George Soros, il quale, indossata l’inedita veste di paladino dei diritti degli Zingari, è venuto a Bruxelles a soffiare sul fuoco nel “Primo vertice sui Rom” del 17 settembre 2008.
1. Claudio Mutti, Glossario sinto emiliano (con una Nota di Giulio Soravia), “Lacio drom. Rivista bimestrale di studi zingari”, a. XXV, n. 2, marzo-aprile 1989.
2. Claudio Mutti, Gli Zingari e l’Egitto, in: Achim von Arnim, Isabella d’Egitto, principessa degli Zingari, Arktos, Carmagnola 1984. Sulle denominazioni etniche assunte dagli Zingari cfr. Slobodan Berbeski, La coscienza dei Rom del proprio nome. La coscienza dei Rom di se stessi, “Lacio drom. Rivista bimestrale di studi zingari”, a. X, n. 3-4, maggio-agosto 1974, pp. 6-12.
3. Donald Kenrick – Grattan Puxon, Il destino degli zingari, Rizzoli, Milano 1975, p. 18.
4. Françoise Cozannet, Gli zingari. Miti e usanze religiose, Jaca Book, Milano 1975, p. 33.
5. I calcoli demografici di una quindicina d’anni fa davano le seguenti cifre di popolazione zingara: ex URSS 260.000, Cecoslovacchia 800.000, Romania 2.000.000, Bulgaria 800.000, Turchia 500.000, Grecia 90.000, Albania 62.000, ex Jugoslavia 800.000, Ungheria 600.000, Germania 80.000, Italia 80.000, Francia 250.000, Spagna 500.000, Portogallo 92.000, Gran Bretagna 50.000 (Guido Ambrosino, Europa a caccia di zingari, “il manifesto”, 25 settembre 1992, p. 9).
6. Françoise Cozannet, op. cit., p. 34.
7. Françoise Cozannet, op. cit., ibidem.
8. Emile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Volume I, Einaudi, Torino 1976, p. 62.
9. Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, p. 54.
10. Fernand Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani, Milano 2007, p. 26.
11. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, p. 180, n. 1.
12. Per esempio quella dei Gurvari, un gruppo di Zingari dell’Ungheria il cui nome significa “mandriani”, nonostante non svolgano più tale attività. Cfr. Menyhért Lakatos, La verità sugli Zingari in Ungheria, “Lacio drom. Rivista bimestrale di studi zingari”, a. VII, n. 6, novembre-dicembre 1971, p. 3.
13. Martino Conserva – Vadim Levant, Lev Nikolaevič Gumilëv, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005, p. 30.
14. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, Società Editrice Barbarossa, Milano 1997, p. 97.
15. Donald Kenrick – Grattan Puxon, op. cit., p. 229.
16. Per un’indagine critica sulle cifre leggendarie dell’ “olocausto” zingaro: Otward Müller, Sinti e Rom: storie, leggende e realtà, in AA. VV., Del presunto sterminio di zingari e omosessuali, Effepi, Genova 2006, pp. 23-43.
17. Claudio Mutti, Il Re degli Zingari non vuole un regno, “Pagine libere”, a. XV, n. 11-12, novembre-dicembre 1995, p. 19.
18. E. Pittard, A propos de la nomadisation cérémonielle des Tsiganes, “Journal of the Gypsy Lore Society”, 3, XIII (1934), pp. 23-26.
19. Menyhért Lakatos, La verità sugli Zingari in Ungheria, cit., p. 6.
20. J. Römer, Zigeuner in Deutschland, “Volk und Rasse”, 1934, pp. 112-113; dello stesso autore cfr. Fremdrassen in Deutschland, “Volk und Rasse”, 1936, pp. 88-95; Fremdrassen in Sachsen, “Volk und Rasse”, 1937, pp. 281-288.
21. In un’intervista rilasciata dopo la caduta del regime nazionalcomunista, Ion Cioaba, non ancora “re internazionale dei Rom” ma semplicemente “presidente dei Rom nomadi e calderai di Romania” nonché rappresentante del Consiglio dell’Unione Mondiale dei Rom presso l’ONU, raccontava: “[Negli anni ’50] ci siamo trasferiti a Târgu Cãrbuneºti. Là ci siamo costruiti una casa, siamo stati i primi a costruire una casa invece che una tenda, a Târgu Cãrbuneºti. Gli altri Rom hanno seguito l’esempio. In seguito sono riuscito a ottenere da Gheorghiu Dej un lotto di 36 case per i Rom a Râmnicu Vâlcea, perché anche loro vivessero meglio, in maniera più civile” (“De 600 de ani ne-am ajutat cu românii”. Interviu cu domnul Ion Cioabã realizat de Vlad Enache, “Neo drom. Revistã de culturã si informare a Romilor” (Sibiu), a. I, n. 1, marzo 1990, p. 3).
22. Giuseppe Sarcina, Il tesoro degli tzigani, “CorrierEconomia” (inserto del “Corriere della sera”), 22 dicembre 1997, p. 3.
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