L’area economica è quella in cui sicuramente l’eterogeneità comunitaria è più evidente e, ammortizzare le differenze, sembra la sfida più difficile per l’Europa in quanto l’adeguamento agli standards di riferimento e alla strategia finanziaria spesso stride con la storia economica del singolo paese. Ecco allora che, in un’Europa in cui molti paesi sono alla deriva in termini di debito pubblico, la parola “collaborazione” – da sempre imperativo assoluto – assume i toni di “complicità” con accezione negativa: nel momento in cui si va a prestare soccorso a paesi in bancarotta, attraverso finanziamenti, si diventa automaticamente colpevoli di una condotta lesiva e non conforme alla trattatistica comunitaria. La Germania, paese che più di tutti si è distinto per la notevole ripresa economica in un periodo di crisi e fervente euroscetticismo, non lesina critiche e polemiche nei confronti di questa tattica di “salvataggio in extremis” che va a penalizzare quei paesi e, di conseguenza i loro cittadini, che hanno arginato il problema individualmente evitando di attingere alle casse dei vicini. Le dimissioni di Stark dalla BCE sono apparse allora, inevitabilmente, alla comunità internazionale come la presa di distanza tedesca dal modo di gestire le economie in crisi e intese – dalla stessa Germania – come un modo per testare la propria leadership ed influenza nel mondo finanziario. E visti i risultati negativi in Borsa nei giorni successivi, sembra proprio che la Germania continui ad essere ancora determinante ma, se è vero che l’Europa ha bisogno della potenza tedesca, a sua volta la Germania ha bisogno dell’UE dal momento che solo la compattezza comunitaria può attirare capitali e garantire altrettanta compattezza da parte degli investitori.

Le recenti dimissioni dell’economista Stark dalla BCE – ufficialmente per motivazioni personali ma ufficiosamente per incompatibilità con le linee attuative della predetta istituzione verso i membri europei in difficoltà economica – impongono una riflessione su come si sia evoluto questo rapporto inizialmente privilegiato tra UE e Germania e se, quest’ultima, continui a fungere o meno da ago della bilancia per ciò che concerne la stabilità economica comunitaria.

Storicamente il rapporto della potenza tedesca in Europa è stato molto continuo ma condizionato dalla posizione di alleato, in condizione subalterna, della Francia. Negli anni ’60, però, la Germania è riuscita ad acquisire una maggiore autonomia grazie ad uno status di potenza riconquistato (al pari di Francia ed Inghilterra) in ambito economico, diplomatico e militare e, quindi, mentre dopo la seconda guerra mondiale ha dovuto dare la priorità a se stessa, dopo la ripresa ha dato spazio indiscusso alla politica europea, al punto tale da divenirne uno dei più importanti membri comunitari, mantenendo – comunque – sempre una intensa collaborazione con la Francia.

L’identificazione nell’Europa è apparsa al Paese tedesco come l’unico modo per tornare ad avere un ruolo importante confacente alle sue dimensioni e senza suscitare, nei Paesi vincitori del conflitto, reazioni sfavorevoli. La Germania ha praticamente profondamente interiorizzato la problematica dell’integrazione europea: si potrebbe meglio dire che questa, come anche la Francia, non ha abbandonato ogni interesse nazionale in nome dell’Europa: semplicemente ha inteso l’Europa unita come un elemento della realtà nazionale, facendone un elemento cardine della propria politica estera e del proprio supernazionalismo ufficiale, non il contrario.

Tuttavia, se i primi anni l’eterogeneità europea ha rappresentato per la Germania una sorta di stimolo a fungere da leader e ad incentivare il progetto europeo, negli ultimi anni le “più velocità” dei membri comunitari sembrano, invece, aver inasprito l’idea di cooperazione tedesca al punto che molti hanno visto nella Germania una sorta di svolta egoistica, tradottasi politicamente ora in una condotta ostruzionista ora in isolamento. Non ultimo le dimissioni di Stark, che sembrano essere una esplicita rimostranza – da parte della Germania – di non voler più supportare i paesi in difficoltà. “Finanziare i deficit e tener basso il costo dell’interesse sul debito degli Stati non è compito della Banca centrale”: questo ha sempre sostenuto l’economista tedesco, a sancire come i casi di Germania, Spagna, Grecia e Italia non rientrassero nelle competenze della BCE.

I più ritengono che la Banca Centrale Europea sia nata quasi sulla stessa scia della Bundesbank e, viene da sé, che i destini e le strategie di entrambi gli organismi finanziari si siano inevitabilmente intrecciati. Entrambe perseguivano una condotta di evidente stampo tedesco basata innanzitutto sulla indipendenza (eludendo quindi pericolose connivenze con le parti politiche) ed una politica monetaria costantemente orientata a servirsi di tutti i mezzi possibili per combattere i rischi dell’inflazione [1].

Non suoni strana allora la connessione vigente tra le dimissioni di Stark e quelle di Axel Weber. In una intervista del febbraio 2011, l’ex presidente della Banca tedesca oltre ad una polemica specifica nei confronti dei bonds non risparmiava critiche nei confronti della politica generale europea e, soprattutto, induceva a riflettere sul concetto di “compromesso” a livello comunitario. Se è vero che in Europa bisogna sempre cercare il compromesso, allo stesso tempo bisogna conoscere le barriere che lo regolamentano, l’Europa compete globalmente con altre aree economiche e, chiaramente, non può che guardare costantemente a quelli che sono i suoi “concorrenti”, spesso indiscutibilmente anche più dinamici come la Cina. Il raggiungimento dell’equilibrio all’interno dell’Ue non può essere visto come il costante e prioritario obiettivo da raggiungere [2].

Hans Werner Sinn, consigliere di Angela Merkel, ha tratteggiato la situazione in maniera netta, appellandosi a quella che sarebbe stata la violazione per eccellenza compiuta dalla BCE: quella di non proibire i finanziamenti agli Stati, clausola che la Germania ha virtualmente sottoscritto in vista dell’abbandono del marco per l’euro. In realtà – già nel 2008 – la Banca Europea aveva fatto sua questa condotta interventista, agendo rapidamente ma, a detta del presidente dell’Ifo, avrebbe dovuto smettere comprando titoli di Stato, in quanto vietato dagli stessi Trattati di Maastricht. I programmi di salvataggio verso i paesi con cospicuo debito pubblico, dal punto di vista tedesco, dovrebbero consistere, invece, in strategie volte a fornire ma allo stesso tempo pretendere garanzie, evitando il totale sobbarcarsi dei debiti dei vicini rischiando in prima persona la bancarotta [3].

Ciò che appare evidente è che la scelta di Stark non può dirsi una scelta isolata, bensì è da contestualizzarsi nella più ampia dimensione politica di una Germania che vuole prendere le distanze dall’Europa, se farvi parte significa adeguarsi ad una condotta comune fallimentare anziché poter fungere da modello per una politica di risanamento. E politicamente la Merkel è consapevole che, imporre sacrifici ai propri cittadini per le insolvenze altrui, significa alimentare l’idea di una Germania soggiogata.

Al di là delle sottese o meno motivazioni etiche e personali di Stark e delle connessioni politiche, la principale dimostrazione di quanto la Germania conti in Europa è deducibile da quanto la diffusone della notizia delle dimissioni dell’economista tedesco abbia influenzato l’andamento dei mercati finanziari nei giorni successivi. Il crollo delle Borse in Europa ed il seguente ribasso delle quotazioni dell’euro sul dollaro e la sterlina è abbastanza esaustivo del ragionamento che gli attori del mondo finanziario hanno compiuto: Stark boicotta la BCE, quindi la Germania boicotta l’Europa e di conseguenza, la mancanza di compattezza attuale a livello di strategia economica impone di non rischiare collettivamente bensì a salvaguardare il proprio. Questo basti a poter affermare che qualsivoglia azione da parte della Germania non passa in sordina nel resto d’Europa: ancor più quando tutto ciò avviene in concomitanza con delicati eventi internazionali come il G7 di Marsiglia. In un forum di discussione che fa della cooperazione e della stabilità finanziaria il suo obiettivo principale, è chiaro che una notizia del genere sia apparsa assolutamente destabilizzante ed altrettanto chiara la necessità, per evitare pericolosi contraccolpi economici, di ribadire pubblicamente la piena fiducia ai mercati. Inizialmente si era pensato ad un comunicato finale, con il beneplacito dei Ministri delle Finanze, proprio per inviare un messaggio forte e chiaro di sostegno all’economia mondiale; tuttavia, ciò non è avvenuto, con il conseguente ridursi delle aspettative ancor prima dei lavori ed il diffondersi della dilagante paura “stagnazione”. A ciò si aggiunga che nello stesso periodo ad Atene sono giunte le delegazioni del FMI, della BCE e dell’Unione Europea per vagliare lo status della politica di risanamento a cui la Grecia si è dovuta forzatamente piegare per salvarsi dal pesante tracollo economico in cui versava.

In questo situazione di limbo economico il primo passo è stato quello di colmare il vuoto istituzionale e, la mancanza di alternative e soprattutto i tempi stretti. hanno portato ad optare per Mario Draghi che – se da una parte è forte dell’esperienza maturata in organismi finanziari – dall’altra la sua formazione (il passato alla Goldman Sachs) alimenta sospetti di logiche “atlantiche” e strategie troppo “angloamericane”. E sebbene a rassicurare gli europei ci pensino gli stessi americani, che più volte nel corso di meeting economici hanno ribadito la loro assoluta non volontà a far saltare il sistema euro, (perché, benché non manchino casi di speculazione ad opera di banche statunitensi, le incertezze sui mercati sono pur sempre da evitare) all’interno dei confini della UE qualcosa sembrerebbe essersi spezzato. La nomina di un italiano a capo della BCE – è stata sicuramente accettata a denti stretti da parte della Germania non solo perché il candidato più accreditato era il tedesco Alex Weber – ma soprattutto perché, da parte tedesca, la scelta è in un certo senso paradossale se si va a pensare, come gli economisti dell’entourage della Merkel fieramente sostengono, che la Germania perseguendo la sua strategia finanziaria in quindici anni ha tagliato prezzi e salari del 21% per essere più competitiva mentre l’Italia è diventare più cara del 48%.

A distanza di dieci anni dall’adozione dell’euro, che allora era sembrata la massima forma di unità europea, l’Ue scricchiola e molti governi si comportano come se avessero ancora la loro valuta: c’è chi consuma anziché risparmiare, creando pesanti disavanzi nella spesa pubblica.
Tale frammentarietà non è riuscita, tuttavia, ancora a minare totalmente la consapevolezza che essere “Europa unita” rimane sempre e comunque un vantaggio, sia per il paese “in ritardo” che risulta notevolmente avvantaggiato da questa appartenenza, sia per il “primo della classe” che, invece, spesso deve rallentare la sua scalata in virtù del progetto comune. E se, come osservano i paesi del G7, stanno aumentando i divari economici non solo tra i Paesi sviluppati e quelli emergenti ma anche tra gli stessi sviluppati, nel caso dell’Europa vige la convinzione che l’incertezza finanziaria possa essere arginata affidandosi a dei paesi leader che vedano il loro ruolo di guida non come sacrificio o rinuncia bensì come sfruttamento costruttivo del loro potenziale per un obiettivo collettivo. E in Europa, la Germania, malgrado i recenti attriti, per tradizione finanziaria e capacità reattiva rimane l’indiscusso modello a cui guardare: basti la recente dichiarazione della Merkel a tal proposito “la Germania continuerà ad essere la locomotiva della crescita dell’Unione europea” per prendere atto che al di là degli scossoni che la potenza tedesca imprime alla politica comunitaria, da questa Europa unita – di cui è stata fautrice – alla fine vuole continuare a far parte, a prezzo di un delicato compromesso tra individualità e diversità e con la consapevolezza di essere un membro scomodo ma assolutamente indispensabile.

Cristiana Tosti – Laureata in Storia della Istituzioni politiche (Università di Bari) – Dottore di ricerca in “Storia dell’Europa contemporanea” (Università di Bari).

NOTE
[1] Peter Müller, Christoph Pauly and Christian Reiermann, “Jürgen Stark’s resignation is setback for Merkel”, Spiegel Online International, 12/9/2011.
[2] Interview with Alex Weber, “It Is Not Important Which Nation Puts Forward the ECB President”, Spiegel Online International, 14/02/2011.
[3] Intervista ad Hans-Werner Sinn, “La BCE non può acquistare bonds: lo vietano i Trattati di Maastricht”, www.larepubblica.it, 19/09/2011.


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