Le “rivolte” del mondo arabo e quella in Egitto in particolare hanno colto di sorpresa molti osservatori e politologi occidentali. Per anni, la stabilità del Paese, nella quale Stati Uniti e Unione Europea avevano investito ingenti somme e dalla quale dipende la loro capacità di realizzare politiche utili alle strategie occidentali nell’area, non era mai stata messa in dubbio. Gli eventi che hanno dato avvio, il 25 gennaio 2011, alla “rivoluzione egiziana” non solo hanno rivelato ancora una volta la contraddizione esistente tra l’interesse occidentale per la democratizzazione dei regimi arabi e l’interesse alla loro stabilità, ma hanno anche dimostrato che il regime egiziano era molto più fragile di quanto alcuni studiosi occidentali potessero immaginare.
I segni di queste debolezze iniziarono ad esere visibili dopo l’introduzione del modello neo-liberale che ha avuto conseguenze devastanti sulla società causando contestazioni e repressioni. L’ondata di scioperi iniziata nel dicembre 2006 ha dato vita al più vasto movimento sociale degli ultimi cinquant’anni, il movimento operaio che ha coinvolto più di 1,7 milioni di persone. Per rispondere alle tensioni sociali, al fine di mantenere la propria stabilità, il regime riuscì a inibire e riassorbire il potenziale destabilizzante dei suoi antagonisti attraverso una miscela di cooptazione, strategie di divide et impera e repressione. Tuttavia, i fatti di cui siamo stati testimoni nel gennaio 2011 hanno dimostrato che, al contrario di quanto si pensava, un regime la cui stabilità si basa su questi principi può essere travolto dall’emergere di un’opposizione popolare. Tali eventi non hanno rappresentato un momento isolato e spontaneo né l’inizio di una nuova fase di mobilitazioni, ma lo sviluppo di una serie di proteste anti-regime cominciate più di dieci anni fa.
È possibile capire il successo della “rivoluzione” solo se la si ricollega al tessuto politico egiziano iniziato nel 2000, anno in cui, dopo circa dieci anni di smobilitazione politica, l’attivismo politico risorse con lo scoppio in Palestina della seconda Intifada. Nello stesso anno venne fondato l’Egyptian Popular Committee for the Support of the Palestinian Intifada (EPCSPI) che promosse campagne di raccolta fondi per i convogli medici e alimentari destinati ai Territori Occupati e sostenne un boicottaggio di prodotti statunitensi e israeliani stimolando una partecipazione popolare senza precedenti. Il 10 settembre 2001 si tenne la prima manifestazione non autorizzata vicino all’ambasciata degli Stati Uniti, alla quale seguirono una serie di proteste in sostegno all’Intifada nelle maggiori piazze del Cairo, nelle principali moschee e in quasi tutte le università egiziane. Il gruppo subì da subito numerose intimidazioni e i fondatori vennero arrestati e interrogati dai servizi segreti egiziani. Questo nuovo clima di attivismo portò alla nascita di iniziative, reti e forum riguardanti diverse, seppur connesse, questioni politiche. Nel 2002 venne fondato l’Anti-Globalization Egyptian Group (AGEG), che organizzò la sua prima manifestazione in occasione della visita del presidente della Banca Mondiale al Cairo James Wolfensohn il 2 ottobre 2002. Circa cinquecento attivisti tra cui alcune figure internazionali del movimento antiglobalizzazione si riunirono per discutere questioni regionali come la disoccupazione, la povertà, i diritti dei lavoratori, l’occupazione israeliana e la guerra in Iraq. Questi temi erano collegati allo stesso processo di globalizzazione che aveva scatenato le proteste anti-WTO a Seattle nel 1999: gli organizzatori avevano cercato di presentare il gruppo come una parte di un più ampio movimento internazionale contro la globalizzazione, avanzando al contempo un programma basato sulle specifiche caratteristiche della situazione egiziana. L’invasione occidentale dell’Iraq (marzo 2003) diede inizio ad un’altra serie di manifestazioni nelle maggiori città del Paese, che culminarono con la più grande dimostrazione degli ultimi anni, il 20 marzo 2003, a cui presero parte più di 35.000 persone che per ventiquattr’ore si accamparono in Piazza Tahrir. Tuttavia le misure prese dal governo per vietare le dimostrazioni pubbliche, le continue violenze e la brutalità della polizia nei confronti dei manifestanti resero difficile la crescita del movimento pacifista e anti-globalizzazione.
Oltre ai movimenti, un altro gruppo di attori extraparlamentari si diffuse in questi anni. La proliferazione delle organizzazioni non governative (Ong), in Egitto come altrove, va analizzata nel contesto delle riforme di austerità economica che hanno imposto drastici tagli alle spese nel settore pubblico. Il compito di compensare una politica redistributiva inefficiente e squilibrata è ricaduto sulle spalle delle varie Ong che, in quanto fornitrici di servizi sociali che lo Stato non offre più, sono diventate, nella retorica, le migliori alleate tanto del governo quanto della popolazione e delle organizzazioni internazionali che si occupano di sviluppo. La questione diventa ancora più problematica se si prendono in considerazione le cosiddette advocacy organizations, costituite intorno a temi dichiaratamente politici particolarmente invisi al governo e al di fuori della portata della sensibilità di gran parte della popolazione, alle prese con problemi ben più contingenti di sopravvivenza quotidiana. Le advocacy organizations sono state sotto la minaccia costante della repressione che ha inibito la loro capacità di risultare incisive nelle rivendicazioni avanzate, già minacciata paradossalmente dal supporto di cui godono a livello internazionale, che le rende vulnerabili all’accusa di prostituirsi alle strategie occidentali e di favorire l’ingerenza straniera negli affari interni del paese.
Nel 2004, in periodo preelettorale, nacque “Kifâya”, che guadagnò presto la posizione di un nuovo, forte e decisivo movimento per un’analoga trasformazione in Egitto. Tuttavia la mancanza di influenza su ampi segmenti della società, l’eterogeneità dei suoi membri, l’esistenza di sottogruppi al suo interno e, di conseguenza, la mancanza di un progetto programmatico e coerente hanno reso evidente che Kifâya era solo un attore minore con limitate capacità per influire sul corso delle riforme. “Giovani per il Cambiamento”, sottogruppo di Kifâya, divenne un attore principale delle proteste per le riforme del periodo 2004-2006. Le proteste, anche se di piccole dimensioni, attrassero l’attenzione nazionale e internazionale, e ruppero una serie di tabù che avevano caratterizzato la vita pubblica in Egitto per molti decenni. In primo luogo, i manifestanti si focalizzarono su questioni di politica interna. In secondo luogo, organizzarono manifestazioni popolari in aree pubbliche senza il permesso ufficiale, sfidando così il divieto di manifestare pubblicamente al di fuori dei campus universitari. Infine, innalzarono slogan che attaccavano direttamente il presidente e le forze di sicurezza, rompendo un prolungato divieto che impediva critiche dirette alle istituzioni del regime.
Nello stesso periodo emerse la tendenza, in particolare tra i giovani, di presentare e proporre i propri pensieri, interessi, idee attraverso i weblog o attraverso Internet in generale. I blogger anti-regime hanno giocato un ruolo fondamentale all’interno del dibattito pubblico. In molte occasioni sono stati i primi a publicizzare eventi, mobilitazioni, incidenti che i media statali non erano autorizzati a trasmettere. Molti blogger hanno utilizzato i loro diari on-line per pubblicare fotografie o video che testimoniavano episodi di violenza e tortura da parte dei servizi di sicurezza, o filmati che riproducevano lo scambio di tessere elettorali e le frodi che si sono verificate durante le elezioni. Il regime scoprì ben presto il potenziale a lungo termine di questo tipo di attivisti, e nel 2006 lanciò una massiccia repressione contro i blogger che condusse all’incarcerazione del più noto di costoro, ‘abd el-Karîm, un giovane di Alessandria. Il gruppo egiziano più attivo in rete è sicuramente il Movimento Giovanile 6 Aprile. Questo gruppo fu fondato dai blogger Ahmed Mâher e Isrâ’ ‘abd el-Fattâh sul social network Facebook nella primavera del 2008 per sostenere i lavoratori di Mahalla al-Kubrâ.
L’ondata di proteste all’interno delle fabbriche tessili del Delta del Nilo era iniziata qualche anno prima con il famoso sciopero di tre giorni alla Misr and Weaving Company, per poi estendersi velocemente a quasi tutti i settori dell’economia. Ma un punto di non ritorno, che segnò la definitiva politicizzazione del movimento operaio, venne raggiunto quando 10.000 esattori delle tasse iniziarono un sit-in di dieci giorni di fronte al Ministero delle Finanze costringendo il governo a consentire la formazione del primo sindacato autonomo dagli anni Quaranta. Il primo importante tentativo di protesta congiunta da parte di più movimenti si verificò il 6 aprile 2008, quando una coalizione di lavoratori di Mahalla al-Kubrâ e di Kafr al-Dawwâr appoggiata da alcune associazioni e organizzazioni della società civile organizzò unoo sciopero generale. Le richieste avanzate da questa giornata nazionale di proteste erano: l’aumento del salario minimo e la fine della corruzione del governo e della violenza della polizia. Le forze di sicurezza tuttavia presero il controllo delle fabbriche nei giorni precedenti per impedire allo sciopero di prendere avvio e diffondersi. Ci furono delle manifestazioni al Cairo e in altre città egiziane che vennero però facilmente gestite dalla polizia. Anche se lo sciopero è stato considerato un fallimento, alla luce degli ultimi eventi è più corretto considerarlo come un primo importante passo sulla strada che ha portato a ciò che oggi si considera un enorme successo. Il movimento 6 Aprile, che da questo sciopero ha preso vita, è stato fra i principali organizzatori della manifestazione del 25 gennaio 2011 che ha dato inizio alla “rivoluzione egiziana”. Il gruppo è composto prevalentemente da giovani studenti, la maggior parte dei quali non ha mai partecipato attivamente alla vita politica egiziana in precedenza. Al centro delle loro rivendicazioni si trovano la libertà di stampa, la lotta contro il nepotismo e la corruzione all’interno del governo e la situazione economica del paese. L’obiettivo del movimento è di avviare un processo pacifico di riforme in Egitto attraverso la creazione di un’ampia organizzazione giovanile che sia in grado di proporre idee innovative.
L’ascesa e la continuità dei movimenti sociali in Egitto possono essere notate solo se gli eventi sono visti in un continuum, nella loro totalità. Questi movimenti, nonostante i diversi luoghi di sviluppo e azione, hanno in comune la maggior parte dei loro slogan: “giustizia, dignità e libertà”.
Ma le proteste non sono terminate con la “rivoluzione”. Nulla è certo in questo periodo postrivoluzionario, ma una cosa inizia ad essere chiara: le influenti teorie sulla transizione dei regimi autoritari sono venute meno. Argomento su cui non solo gli studiosi, ma anche i governi occidentali impegnati a sostenere i cambiamenti regione, dovrebbero riflettere.
*Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).
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