L’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha stimato in oltre 23 milioni di abitanti – Turchi e Siriani – le persone coinvolte dal tragico e violentissimo terremoto di inizio febbraio 2023. Due Paesi in ginocchio di fronte ai quali il mondo attonito risponde in parte con generosità in parte con spirito di pregiudizio, in un momento in cui la solidarietà internazionale dovrebbe essere assoluta.
Partiamo dalla Siria: una nazione e un popolo martoriati da un decennio di guerra imposta e poi spesso dimenticata, di terrorismo funzionale a un “cambio di regime” per l’affermazione della “democrazia”. Il problema dei soccorsi internazionali – indispensabili per cercare di fronteggiare l’emergenza – si collega a quello delle sanzioni che Stati Uniti e altri Paesi (come quelli europei) mantengono nei confronti di Damasco, anche se qualcuno ha avuto l’ardire e l’impudenza di sostenere che i due aspetti vanno tenuti distinti, e che possono convivere.
La realtà è che in questa prospettiva il terremoto viene utilizzato in aggiunta alle sanzioni, per far sì che la situazione generale risulti definitivamente ingestibile per il governo siriano, in una fase in cui vi sono stati importanti incontri diretti turco-siriani – favoriti dalla Russia – per il ristabilimento delle relazioni. Occorre sottolineare che la Mezzaluna Rossa Araba Siriana, il Consiglio delle Chiese Mediorientali (che raggruppa cristiani cattolici, ortodossi e copti dell’area), non soltanto il governo siriano, hanno chiesto la revoca delle sanzioni; e che il Dipartimento di Stato statunitense ha obiettato che le sanzioni non attengono all’assistenza umanitaria, la quale in ogni caso viene riconosciuta “senza il controllo o la direzione del regime di Assad. Questo per garantire che la nostra assistenza non venga deviata da attori maligni o dal regime di Assad”. Più o meno lo stesso avviene per l’Unione Europea: il coordinatore della Commissione per le emergenze, Lenarcic, ha spronato i Paesi membri dell’UE ad inviare in Siria forniture mediche e alimentari, accertandosi però che gli aiuti “non vengano deviati” dal governo sanzionato di Damasco. Un governo riconosciuto dall’ONU, dunque, viene unilateralmente escluso dagli Stati Uniti e dai suoi pavidi alleati perfino dalla gestione dei soccorsi necessari a fronteggiare lo spaventoso scenario del terremoto di questi giorni. Devono comunque essere ricordati i nomi di quegli Stati che hanno deciso di aiutare Damasco in questa sua durissima prova: l’Iran arrivato prima di tutti, la Russia, il Libano, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, l’Algeria, la Corea del nord, la Giordania, l’Iraq, l’Egitto, l’Armenia, il Pakistan, l’India, l’Arabia Saudita, la Tunisia.
La strada che collega Gaziantep al valico di Bab al-Hawa (l’unico attualmente disponibile per il passaggio degli aiuti dal territorio turco a quello siriano) è ora impraticabile in seguito ai danneggiamenti sismici e ciò complica ulteriormente la situazione; intanto all’immane disastro causato dai crolli si sommano problemi di ordine sanitario ereditati dal decennale conflitto: fra questi il colera, che in Siria si è propagato con una virulenta epidemia a partire dalla fine dell’agosto 2022. Filippo Agostino, referente della fondazione Avsi per la Siria, da Aleppo ha denunciato che “questa epidemia di colera è una delle più grandi, se non la più grande, attualmente al mondo. Nemmeno Haiti o la Somalia presentano questi numeri. Il colera è uno dei simboli del decadimento socioeconomico della Siria determinato dalla guerra, dalla povertà, dalle sanzioni che pesano tantissimo sulla popolazione”.
La situazione della Turchia è certamente altrettanto tragica, pur in presenza di una autorità politica centrale stabile e in grado di agire nell’emergenza. Qui la polemica rilanciata sul piano internazionale dai media ostili al governo di Ankara riguarda l’asserita incapacità di quest’ultimo di intervenire nelle province terremotate. Vi sono in realtà due diversi aspetti da considerare: il grado di protezione antisismica dell’edilizia, pubblica e privata, e la tempestività degli interventi di soccorso.
Riguardo al primo aspetto, nell’analisi di diversi specialisti appare l’insufficienza di adeguati criteri di progettazione antisismica. Ad esempio la Türk Mühendis ve Mimar Odaları Birliği (Unione delle Camere degli Ingegneri e degli Architetti) ha con forza denunciato il silenzio in risposta alla sua raccomandazione di non costruire l’aeroporto di Hatay sulla faglia; appare anche evidente la presenza di importanti collassi innescati principalmente da crisi strutturali che partono dai piani bassi degli edifici, sintomo questo di carente progettualità antisismica. L’estrema eterogeneità degli stabili evidente anche a Gaziantep e Kilis (citiamo queste due città perché abbiamo avuto modo di visitarle l’anno scorso) suggerisce l’idea di una contraddittorietà dei piani regolatori, o di una loro mancata applicazione. Potrebbe configurarsi una situazione simile a quella dell’Italia, dove il piano di prevenzione sismica elaborato dalle professioni tecniche, e presentato al governo di Roma nel marzo 2012, non è mai stato attuato, sicché, secondo la Rete professioni tecniche – che raggruppa ordini e consigli nazionali di nove professioni tecniche impegnate nel campo delle costruzioni e delle infrastrutture – oltre 12 milioni di edifici in Italia sono a rischio sismico.
C’è però da riconoscere che terremoti come quelli del 6 febbraio, di violentissima intensità, vanno comunque considerati come difficilmente fronteggiabili, anche per la loro sequenza particolarmente micidiale, con edifici crollati a seguito delle repliche più che per effetto del vero e proprio terremoto principale.
Per quanto riguarda le critiche sulla – si dice – mancata o intempestiva azione di soccorso, queste appaiono piuttosto parziali e ingenerose, e si spiegano con una ben orchestrata campagna propagandistica antigovernativa di matrice occidentale. Non si dimentichi che a maggio vi saranno in Turchia importanti elezioni generali e che anche qui gli ambienti atlantisti vogliono favorire il “cambio di regime”. Si è giocato in questo caso equivocando consapevolmente le parole pronunciate da Erdoğan per affermare che il capo dello Stato turco ha dovuto ammettere ritardi nei soccorsi; invece egli aveva affermato che “dopo gli iniziali problemi negli aeroporti e sulle strade (dovuti alla loro indisponibilità per effetto del terremoto) le cose sono diventate più facili e sono state mobilitate tutte le risorse disponibili”.
In Turchia la campagna in corso di mobilitazione (Haydi Türkiye! Sensiz olmaz, vale a dire: “Avanti, Turchia! Senza di te è impossibile”) è in pieno svolgimento e coinvolge tutti, a di là del dolore, della preoccupazione e della paura; lavoro instancabile e risultati non mancano, c’è tanto da fare nell’immediato e poi nel tempo. Squadre di soccorso encomiabili e generose arrivano da varie parti del mondo – anche dall’Italia – e vanno oltre la polemica pregiudiziale mossa da ambienti faziosi contro Ankara. Non mancano a tal proposito le provocazioni di “Charlie Hebdo”, che in una vignetta rappresenta la tragedia turca e siriana con un incredibile “Non c’è neppure bisogno dei carri!”.
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