Fonte: http://www.renenaba.com/

9 ottobre 2009

La connivenza tra Israele e l’apartheid sudafricano, un handicap

Israele ha ingaggiato un’offensiva diplomatica in direzione dell’Africa al fine di ripristinare il periodo d’oro della cooperazione israelo-africana dei primi tempi dell’indipendenza africana. Ma quest’operazione di seduzione sembra derivare più da una ricerca disperata  di un paradiso perduto, tanto rimane vivo nella memoria il ricordo della connivenza tra Israele e il regime sudafricano dell’apartheid, tanto il suo bellicismo anti-palestinese confina Israele in un isolamento internazionale tanto, infine, la xenofobia dei nuovi dirigenti israeliani penalizza la sua diplomazia. al punto da disgustare anche i suoi più fedeli alleati occidentali.

Il bestiario israeliano è ricco ed abbondanti sono i paragoni animaleschi di cui sono oggetto gli Arabi, al punto che alcuni non esitano a ritenere che si tratti di un marchio di fabbrica del personale politico israeliano. Dall’antico primo ministro laburista Golda Meir, al capo del Likud Menahem Begin, che li definiva « bestie a due gambe », all’ultra-destrorso capo di stato maggiore Raphaël Eytan, che non esiterà a definirli degli « scarafaggi », passando per l’ex primo ministro laburista Ehud Barak che li paragonerà a dei « coccodrilli », i principali dirigenti israeliani hanno apportato, in tutta impunità, il loro contributo a questa fraseologia xenofoba che non trova uguali in nessun altro Stato (1).

Sull’onda della sua offensiva di seduzione in America latina, la campagna diplomatica condotta da Avigdor Liebermann, ministro israeliano degli Esteri, agli inizi di settembre ha preso di mira i paesi africani che costituiscono il tradizionale punto di ancoraggio di Israele sul continente nero (Etiopia, Kenya, Uganda) nonché la Nigeria ed il Ghana, nella prospettiva di rompere la sua quarantena e di mobilitare le sue amicizie nella sua campagna contro l’Iran.

L’Etiopia, paese non arabo e non musulmano, per di più scaraventato dalla strategia neoconservatrice americana nel ruolo di gendarme dell’Africa orientale, il Kenya, che nel 1901 era chiamato a servire da patria ebraica nel quadro del programma Uganda del ministro britannico delle colonie Joseph Chamberlain, nelle viste dei dirigenti israeliani costituiscono delle basi essenziali per render sicura la navigazione marittima dall’Oceano indiano verso il porto israeliano di Eilat, nel golfo di Akaba.

Ma questo tacito patto è valso a questi due paesi perno dell’alleanza alle spalle di Israele di fronte alla penisola arabica e al versante africano del mondo arabo, in particolare sul percorso che conduce alle sorgenti del Nilo (Egitto, Sudan, Somalia) dei seri insuccessi e dei dolorosi richiami all’ordine. Il fiasco dell’intervento etiope in Somalia nel 2007, ha aperto la via alla recrudescenza della guerriglia delle corti islamiche a Mogadiscio, abbinata ad uno sviluppo della pirateria marittima al largo delle coste dell’Africa orientale e alla ristrutturazione di una base di collegamento della marina iraniana in Eritrea, a poche gomene dall’importante base franco-americana di Gibuti.

Quanto al Kenya, esso è stato teatro di sanguinosi attentati nel 1998 a Nairobi contro l’ambasciata degli Stati Uniti, padrino di Israele, poi direttamente contro gli interessi israeliani a Mombasa, nel 2002, con un totale di 224 morti per l’attentato di Nairobi, tra cui 12 Americani, e quindici per quello di Mombasa, tra cui tre Israeliani.

In Nigeria, in preda ad una larvata guerra intestina tra musulmani e cristiani, per di più incancrenita dalla corruzione, secondo le stime della Banca Mondiale nell’ordine di 300 miliardi di dollari nel corso degli ultimi tre decenni, Israele lavora per equipaggiare la gendarmeria con due ricognitori e per il loro inquadramento nella lotta contro i guerriglieri del delta del Niger. Nello stesso ordine di idee, Israele conta di consegnare alla Guinea equatoriale veicoli blindati e ricognitori di marina per un valore di cento milioni di dollari, per la protezione di questo nuovo eldorado del continente nero e del suo capriccioso dittatore.

Aureolato dall’immagine di giovane nazione costituita dagli sfuggiti al genocidio hitleriano, fondata sul socialismo agrario, il Kibbutz, Israele ha a lungo beneficiato di un prestigio presso alcuni dirigenti africani, al punto di vedersi invitare, nel 1958 ad Accra, ad una sessione speciale della prima Conferenza di tutti i popoli africani. All’epoca, Israele era rappresentato dalla signora Golda Meir, mi ministro degli Esteri.

Di dimensioni modeste, per questo poco sospettato di egemonismo, Israele ha potuto così vedersi affidare la formazione dei primi piloti dell’arma aerea dell’Uganda, del Kenya, del Congo e della Tanzania, al punto da potersi poi vantare di aver lanciato, con la complicità dei servizi occidentali, due dirigenti africani alla testa del loro paese, Joseph Mobutu del Congo (ex-belga) e Idi Amin Dada dell’Uganda.

Tra il 1958 ed il 1973, data della rottura collettiva delle relazioni tra Israele e l’Africa, tremila esperti israeliana, cioè i due terzi degli effettivi israeliani in missione nel Terzo mondo, erano assegnati al continente nero; l’altro terzo era dislocato in Asia (Thailandia, Singapore, Laos, Cambogia e Filippine). Nello stesso periodo, il 50% degli stagisti dell’«International Institute for development, cooperation and labour studies», un organismo israeliano incaricato della formazione dei tecnici del Terzi mondo, era originaro dell’Africa.

Al culmine della guerra fredda sovietico-americana, la penetrazione israeliana in Africa beneficia del sostegno finanziario e materiale della CIA, di cui lo Stato ebraico assume per delega dei compiti di formazione, di inquadramento e di protezione. Così, durante il decennio 1960, la centrale americana stanzia circa ottanta milioni di dollari ad Israele per finanziare dei movimenti contro-rivoluzionari in Africa, – Jonas Savimbi, presidente dell’UNITA, contro l’Angola filo-sovietica e Joseph Garang, capo della provincia secessionista del Darfur, nel meridione sudanese, contro il governo arabofono  di Khartum – accordando contemporaneamente un sostegno ufficioso a Milton Obote (Uganda), una discreta protezione a Joseph Désiré Mobutu (Congo Kinshasa), assicurando la frontiera tra la Namibia e l’Angola nell’ottica di prevenire le destabilizzanti infiltrazioni contro il regime dell’Apartheid (2). Un’identica tacita alleanza viene ad allacciarsi tra Israeliani e i Francesi per contenere, al culmine della guerra d’Algeria (19541962), la spinta nazionalistica africana azionata dall’asse Ghana, Guinea, Mali del trittico rivoluzionario Kwamé N’krumah, Seku Turé e Modibo Keita.

L’Africa suscita bramosie (3). Continente omogeneo di una superficie di 30 milioni di chilometri quadrati, è ricca della sua diversità. Rappresentando un mercato di seicento milioni di abitanti di cui 350 milioni di consumatori vivono nell’Africa sub-sahariana, l’Africa è il primo esportatore mondiale di oro, platino, diamanti, bauxite, manganese; il secondo per il rame ed il petrolio grezzo. Inoltre, è primo produttore mondiale di cacao, the, tabacco, il secondo di sisal e cotone. Paradossalmente, l’Africa trae poco profitto  dalle sue ricchezze minerarie. A tal punto che i paesi riccamente dotati di risorse minerarie si ritrovano spesso nella parte inferiore della scala dello sviluppo umano stabilita dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD). Se l’Algeria occupa il 104° posto, la Nigeria, che pure è grande esportatrice di petrolio ed ambisce, per la sua importanza demografica,,a svolgere un ruolo di primo piano sulla scena diplomatica regionale ed internazionale, si ritrova al 158° rango e la Guinea al 160°. Le poste in gioco sono la misura delle ambizioni, in un’epoca in cui la corsa per il controllo delle fonti d’energia ha raddoppiato la sua intensità dopo la penetrazione cinese in Africa e l’infiammarsi dei prezzi delle materie prime.

Dal 1960 al 1990, nei primi trent’anni della sua indipendenza,  l’Africa ha conosciuto 79 colpi di forza, nel corso dei quali 82 dirigenti sono stati uccisi o deposti (4). In confronto, il mondo arabo, nell’occhio del ciclone dopo la scoperta del petrolio, conta nello stesso periodo diciotto colpi di Stato.

Il continente è una delle più grandi zone minerarie del mondo, assieme all’Australia, al Canada e all’America del Sud. Si colloca come primo produttore mondiale di numerosi prodotti minerari, tra cui il platino, l’oro, i diamanti, i fosfati o il manganese, e possiede riserve di primordine di bauxite o di coltan – un minerale che in particolare rientra nella composizione delle carte a microchip. La metà delle riserve mondiali d’oro si trova così nella regione del Witwatersrand, in Sudafrica. Il continente estrae anche rame, zinco e minerali di ferro, nonché uranio nel Niger e petrolio in Angola, in Nigeria, in Guinea equatoriale ed in Camerun. Tutti prodotti che da qualche anno hanno visto i loro prezzo sui mercati internazionali prendere il volo, trainati dalla domanda mondiale in generale e da quella industriale in particolare, specialmente da quella proveniente dalla Cina. Lo sfruttamento dei minerali è un’attività dominante e rappresenta il primo posto dell’esportazione in quasi la metà dei paesi africani, specialmente del Sudafrica, del Botswana, della RD Congo, del Mali, della Guinea, del Ghana, dello Zambia, dello Zimbabwe, del Niger, della Tanzania, del Togo e della Mauritania. Anche altri paesi, come l’Angola, la Sierra Leone o la Namibia, hanno sviluppato un importante polo minerario.

Così, secondo uno studio della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (SADC) e dell’Unione Europea, nel 2005 l’Africa avrebbe beneficiato del 17% delle spese mondiali legale alle ricerche minerarie, collocandosi alle spale dell’Australia (23%) e del Canada (19%). Le multinazionali che oggi dominano il settore delle miniere traggono l’essenziale delle loro attività dal continente africano, specialmente le imprese sudafricane che hanno la loro sede attorno a Johannesburg, e in particolare AngloGold Ashanti, frutto del riavvicinamento tra il gruppo ghanese Ashanti e il gigante minerario AngloGold. Anche altre, come AngloAmerican, primo gruppo minerario mondiale oggi installato nel Regno Unito, hanno trovato la loro origine in questa parte dell’Africa.

Una delle sue principali filiali, De Beers, vi ha ancora la sede sociale e controlla il commercio dei diamante nella regione e in particolare nel Botswana, dove è azionista e gestore dell’unica impresa diamantifera del paese. A parte questi pochi casi, l’essenziale delle multinazionali che operano sul continente sono australiane, canadesi, britanniche o statunitensi. Al di fuori del Sudafrica, dobbiamo constatare che l’Africa non conta alcun gigante minerario all’altezza di ciò che potrebbe esprimere un continente così ricco di materie prime.

Con l’armamento, i diamanti costituiscono il principale prodotto di richiamo della perizia israeliana in Africa. Alcuni osservatori ritengono che Israele abbia intenzione di effettuare massicci investimenti in Africa nel campo dell’informatica al fine di sopperire all’assenza di infrastrutture (5), specialmente sul piano della telefonia mobile. In questi giorni, una decina di grandi società israeliane (Solel Bonet, Koor Industries, Meïr Brothers, Agridno) sono presenti nell’economia africana con investimenti diretti  e prestiti accordati dalla «Banca Leumi» e dalla «Japhet Bank». Esse operano in una ventina di Stati africani nei campi della costruzione, dell’estrazione e del commercio di diamanti e dei metalli preziosi, in particolare dell’oro zairese. Precisamente nella Repubblica Democratica del Congo, la ditta israeliana DGI (Dan Gertler Investment) investirà, tramite la sua società Oriental Iron, sette miliardi di dollari in un giacimento di ferro valutato oltre 700 milioni di tonnellate di minerale. Elemento centrale dei prossimi decenni per la produzione del’acciaio, il ferro è oggetto di una feroce battaglia tra i due giganteschi gruppi in via di fusione BHP Billiton e Rio Tinto. Presente in parecchi paesi africani, in Europa e in America, il gruppo Dan Gertler ha attività nei settori dell’estrazione e gestione di diamanti, ferro, cobalto, rame, nell’immobiliare, nell’agricoltura e anche nei biodiesel.

Note

1- Avigdor Liebermann si distinguerà per i suoi eccessi verbali al punto da concepire il primato del sionismo sulla democrazia, con una soluzione finale alla questione dei prigionieri palestinesi mediante l’annegamento, ispirandosi direttamente ai procedimenti dei torturatori degli Ebrei. “La visione che qui vorrei vedere è la difesa dello Stato ebraico e sionista. Sono molto favorevole alla democrazia, ma quando c’è una contraddizione tra i valori democratici e i valori ebraici, i valori ebraici e sionisti sono più importanti.» (The vision I would like to see here is the entrenching of the Jewish and the Zionist state. I very much favor democracy, but when there is a contradiction between democratic and Jewish values, the Jewish and Zionist values are more important») Avigdor Liebermann, intervista  con un giornale israeliano ripresa da Scotsman, 23/10/2006. Nel luglio 2003, durante un dibattito alla Knesset, Liebermann, allora ministro dei Trasporti, propose di fornire degli autobus per trasportare i prigionieri palestinesi liberati da Israele «verso un luogo da cui non tornerebbero », precisando poi che li si sarebbe potuti «annegare nel mar Morto».

2-«The tacit alliance» E. Crosbie /Princeton University Press 1974.

3- «La spécificité du Mali sur l’échiquier africain» di Salif Mandela Djiré. Tesi di Dottorato (Antropologia), diretta da Pierre Philippe Rey – UFR territorio, ambiente, società – Università Paris VIII Saint Denis) – sostenuta il 12 marzo 2009 E Cf. Jeune Afrique 30 luglio 2006, «Ces richesses que l’Afrique laisse échapper» de Frédéric MAURY.

4- Inventario accertato da Antoine Glaser e Stephen Smith nel loro lavoro «Comment la France a perdu l’Afrique» Ed. Calmann-Lévy 2005

5- Cf. New York Times 8 agosto 2009 “With Cable, Laying a Basis for Growth in Africa”, di CAT CONTIGUGLIA. Secondo il giornale, l’apertura di un cavo a fibre ottiche che fornisca un accesso ad internet a milioni di persone nel Sud e nell’Est dell’Africa riflette un ambizioso piano di estensione dell’accesso al Web sul continente nero per favorirvi lo sviluppo dell’economia e dell’industria,  Fabbricato da Seacom, un consorzio composto per il 75% da investitori esteri, il cavo è il primo di una serie di 10 nuove connessioni sottomarine per l’Africa orientale che saranno terminate prima della metà del 2010. L’espansione della rete, che costerà in totale 2,4 miliardi di dollari (circa 1,7 miliardi di euri), aiuterà a connettere l’Africa all’Europa, all’Asia e a certe parti del Medio Oriente  ad una velocità più elevata e a costo inferiore. Finora, l’Africa aveva un solo cavo sottomarino a fibre ottiche, il meno efficiente SAT-3, in Africa occidentale. Chi non aveva accesso a quel cavo era obbligato ad utilizzare una connessione via satellite lenta e costosa.

Traduzione dal francese a cura di Belgicus


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