Le strategie cinesi nel contesto del nuovo “great game” che si sta giocando nelle acque dell’Oceano Indiano.
L’evento geopolitico caratterizzante degli ultimi anni è senz’altro l’ascesa della Cina. A partire dal 1979, con le liberalizzazioni introdotte da Deng Xiaoping, la Cina è cresciuta ad una velocità senza paragoni, divenendo così, complice il fatto di possedere una popolazione da 1,4 miliardi di abitanti, la seconda economia al mondo in termini assoluti.
Essa è inoltre la maggiore detentrice di riserve di denaro, il maggior produttore mondiale di beni, il secondo consumatore ed è subito dietro gli Stati Uniti per quel che concerne le spese militari (che, seppur ancora molto distante da quella statunitense, cresce a tassi dell’ordine del 14%).
Tutti questi elementi non possono che provocare serie ripercussioni sugli scenari internazionali, spostando i tradizionali equilibri e dando vita a nuove frizioni e nuovi schieramenti.
Tuttavia, occorre dire che la crescita cinese, è finora avvenuta in un clima pacifico che ne ha favorito l’espansione economica e che ha tranquillizzato gli altri attori internazionali. La Cina infatti, aveva ed ha tuttora troppo bisogno di pace e di buoni rapporti con gli altri paesi per poter consolidare una crescita tanto più necessaria, se si considerano i gravi disordini sociali interni e le dispute territoriali che la vedono coinvolta. Infatti, solamente una crescita sostenuta può permettere a Pechino di gestire in relativa tranquillità certe situazioni.
Nonostante dunque una politica per certi versi accondiscendente specie in relazione agli USA, comincia a delinearsi una strategia cinese di ampliamento della sua sfera d’influenza che finirà, molto probabilmente, col creare tensioni con gli altri attori internazionali.
Si prenda ad esempio l’intensificarsi della presenza cinese in Africa.
Gli interscambi con questo continente sono aumentati del 45% negli ultimi anni. Si prevede inoltre il raddoppio degli aiuti ai paesi africani con l’erogazione di 3 miliardi di prestiti preferenziali e 2 miliardi di crediti all’importazione di prodotti cinesi.
Pechino detiene delle relazioni diplomatiche molto strette con paesi quali il Sudan (il quale fornisce alla Cina l’8% del greggio che le occorre), lo Zimbabwe di Mugabe e l’Angola.
Senza soffermarsi sugli effetti ambigui di tali aiuti (i quali, pur costituendo una boccata d’ossigeno per le economie africane, finiscono spesso per rimpinguare le tasche di leader violenti e autoritari) non si può non notare come tale offensiva cinese vada a toccare zone d’influenza tradizionalmente attribuite a paesi come Usa, Gran Bretagna e Francia.
Stesso discorso e in misura forse anche maggiore, vale per l’America Latina e le isole del Pacifico poco distanti dal confine statunitense (Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Tonga), dove la Cina è riuscita ad accrescere la sua influenza, sfruttando l’enorme disponibilità di denaro a sua disposizione e il fatto di poterlo elargire senza interrogarsi sulle finalità per cui questo sarà utilizzato.
È dunque evidente come Pechino, spinta soprattutto dal suo crescente fabbisogno di materie prime, stia cercando di stringere rapporti privilegiati con paesi in grado di soddisfarla.
Discorso a parte andrebbe fatto invece per la sua influenza in Asia e dunque, nella sua area di vicinato. A tal proposito, occorre sottolineare come, utilizzando la sua forza politica ed economica in maniera indulgente e mantenendo un basso profilo, la Cina sia riuscita a migliorare le sue relazioni con i Paesi dell’area. Essa ha assunto una linea politica più accomodante, ha offerto lauti pacchetti di aiuti e si è mossa verso la creazione di una zona di libero scambio in ambito Asean.
Occorre sottolineare come Pechino sia riuscita anche a migliorare il suo rapporto col nemico storico, il Giappone, paese su cui si è sempre basato il nazionalismo cinese. Nel 2008 infatti, Hu Jintao e l’ex primo ministro giapponese Fukuda (l’attuale premier è il democratico Naoto Kan), hanno firmato un documento congiunto che riassume l’impegno dei due Paesi a rafforzare la mutua cooperazione sulla base di un ‘rapporto strategico di reciproca convenienza’.
Alla incontenibile crescita economica sta dunque seguendo la messa in pratica di una strategia tesa, da una parte a far sì che tale crescita non venga penalizzata dalla scarsità di materie prime e dall’altra, a ad accrescere la sua influenza politica su territori ritenuti strategici.
A tal proposito, la Cina è impegnata in un’opera di ristrutturazione e ammodernamento industriale e militare (concentrando i suoi sforzi su alcuni reparti aerei, navali e terrestri d’élite e tecnologicamente avanzati e alla componente strategica e tattica missilistica) e ha costruito la propria rete di potere geopolitico, assicurandosi il controllo o la semplice presenza in numerose aree strategiche (Thailandia, Myanmar, Sri Lanka, Cambogia).
Nella sua collezione di perle spicca il porto di Gwadar, territorio situato nella regione meridionale pakistana del Belucistan.
La strategia cinese della “collana di perle”: il porto di Gwadar
Storica via di comunicazione tra Medio Oriente e India, Gwadar è appartenuta al sultano dell’Oman fino al 1958, anno in cui è stata venduta al Pakistan per il valore di 3 milioni di sterline.
Nel 1992, il governo di Nawaz Sharif decise di costruirvi un porto e questo progetto ha subito una decisa accelerazione sotto Musharraf.
Gwadar ha assunto un rilievo sempre maggiore in questi ultimi anni a causa dell’interessamento mostrato da parte dei maggiori attori internazionali, in primo luogo, della Cina.
Pechino ha investito circa 200 milioni di dollari sulla costruzione di questo porto (la quale è cominciata nel 2002 ed è stata realizzata in tempi tanto brevi da renderlo operativo già nell’ottobre 2008) e ci si interroga dunque sugli scopi che l’hanno spinta a tale investimento.
Tanto per cominciare, la Cina è sprovvista di un porto in acque calde, il quale possa essere utilizzato tutto l’anno. Inoltre, Gwadar è piuttosto vicino al confine cinese (regione dello Xinyang) e potrebbe dunque inserirsi nel progetto del governo cinese del “go west”, teso a ridurre le differenze di sviluppo tra regioni orientali e occidentali e fermare le conseguenti migrazioni che creano non pochi problemi di ordine sociale.
Gwadar è inoltre situato in una zona assolutamente strategica: esso è divenuto la principale scelta cinese per il commercio di petrolio, dato che Hormuz si sta sempre più congestionando. Circa l’80% delle importazioni cinesi di greggio transita attraverso lo stretto di Malacca, il quale sta diventando sempre più insicuro a causa dei frequenti attacchi dei pirati. La posizione di Gwadar, a 400 km dagli stretti di Hormuz, fornisce alla Cina un’alternativa importante allo stretto di Malacca.
Il forte interessamento cinese nei confronti di Gwadar è inoltre probabilmente dovuto alla possibilità di possedere una postazione privilegiata da cui monitorare le attività della marina statunitense nel Golfo Persico, quelle indiane nel Mare arabico e l’eventuale cooperazione indo-statunitense nell’Oceano Indiano.
Strozzati da un filo di perle
I timori di Stati Uniti ed India sono evidenti. I primi temono che Gwadar possa costituire un altro passo importante nella strategia cinese di detenere una sempre maggiore influenza sull’area e sono inoltre sospettosi circa le relazioni intrattenute tra Pechino e Islamabad. Inoltre, dal punto di vista del Pentagono, ma anche della Nato, dopo la perdita del Khyber Pass nel nord-ovest del Pakistan, Gwadar sarebbe stata la via ideale per il rifornimento per le truppe di stanza nell’Afghanistan occidentale.
L’India condivide parte dei timori statunitensi e percepisce la collaborazione sino-pakistana in termini assolutamente negativi. Essa inoltre, teme di perdere posizioni per quel che concerne i traffici marittimi regionali ed è per questa ragione che si è impegnata nello sviluppo del porto iraniano di Chabahar e di una strada che lo metta in comunicazione con l’Afghanistan, ottenendo così accesso ai paesi dell’Asia centrale e bypassando il territorio pakistano.
Le preoccupazioni indiane si sono fatte ancora più fondate dopo la firma di un accordo dal valore di centinaia di milioni di dollari, tra Cina e Sri Lanka, per lo sviluppo della Hambantota Development Zone. Questo progetto, finanziato per l’85% dalla Cina e riguardante, tra le altre cose, anche la costruzione di un aeroporto e di una raffineria da ultimare entro il 2015, costituisce una vera e propria spina del fianco nella zona di vicinato dell’India e dunque, una potenziale minaccia per la sua sicurezza.
È dunque fuori discussione l’importanza strategica del porto di Gwadar. E negli ultimi mesi, tutto ciò si è reso palese agli occhi di tutti.
Lo scorso giugno infatti, Iran e Pakistan hanno siglato uno storico accordo per la costruzione di un gasdotto che dovrebbe trasportare 150 milioni di metri cubici al giorno di gas iraniano del ricco giacimento di Pars Sud per i prossimi 25 anni.
Il valore dell’accordo si aggira intorno ai 7,5 miliardi di dollari e comporterebbe delle importanti conseguenze a livello geopolitico.
Infatti, la costruzione di questo gasdotto costituirebbe un’alternativa ad altri due progetti: l’uno – il TAPI (Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India), detto anche “gasdotto della pace”, supportato dagli Stati Uniti- e l’altro – l’IPI (Iran, Pakistan , India), sostenuto attivamente dalla Russia.
Un gasdotto che collegasse Iran e Pakistan rappresenterebbe dunque una sconfitta per gli USA, i quali avrebbero preferito accentuare l’isolamento iraniano attraverso una maggiore integrazione degli altri paesi dell’area asiatico – mediorientale.
Statunitensi ed europei stanno infatti cercando di indebolire economicamente il regime di Teheran e questo gasdotto potrebbe invece vanificare, almeno parzialmente, questo loro tentativo. Infatti, qualora il gasdotto venisse prolungato per raggiungere l’India o la Cina, creerebbe una dipendenza politica ed economica di uno di questi paesi nei confronti dell’Iran e rimpinguerebbe le casse del tesoro iraniano.
Per quanto riguarda l’India, essa aveva deciso, in un primo momento, di partecipare a questo progetto. Tuttavia, ragionamenti soprattutto politici l’hanno spinta, almeno per il momento a tirarsene fuori. Essa infatti, non potrebbe tollerare di essere dipendente da Teheran per la fornitura e dal governo pakistano per la distribuzione del gas. Inoltre, su questa sua scelta potrebbero aver influito le pressioni del governo nord-americano il quale, non potrebbe tollerare un tale legame a doppio filo tra New Delhi e i suoi poco affidabili vicini. La situazione potrebbe però cambiare nei prossimi anni, considerando che in India ci sono al momento 400 milioni di persone che soffrono la scarsità di energia.
Allo stesso tempo, questo progetto costituisce l’ennesimo colpo per le ambizioni europee circa una maggiore diversificazione delle sue fonti di approvvigionamento. In effetti, venendo meno il gas iraniano ed essendo già venuto a mancare quello dell’Asia centrale per via degli accordi stretti da questi paesi con Russia e Cina, non ci sarebbero più molte speranze per il Nabucco di trovare delle valide soluzioni alternative. L’altra faccia della medaglia, vede dunque una Russia che , perduto il monopsonio che deteneva in Asia Centrale (per via dell’ingresso poderoso della Cina), vede però rafforzata la sua posizione di forza nei confronti del vecchio continente, sempre più dipendente dalle sue risorse.
Tuttavia, il paese che trarrebbe maggiori benefici da questo accordo è certamente la Cina.
Il gas iraniano affluirebbe verso il porto di Gwadar e da qui, potrebbe transitare verso i territori cinesi attraverso infrastrutture finanziate proprio dal governo di Pechino.
Il Pakistan è assolutamente il corridoio di transito ideale (il più breve) per la Cina al fine di importare petrolio e gas dall’Iran e dal Golfo Persico. Con la costruzione dell’IP, e con i multimiliardari accordi per la vendita di gas fra Teheran e Pechino, la Cina si potrebbe finalmente permettere di importare meno energia attraverso lo Stretto di Malacca, che Pechino considera eccessivamente pericoloso, e soggetto alla sfera di influenza di Washington.
Molto di quel che si è detto dipenderà da almeno due fattori: la raccolta dei fondi necessari (7,5 miliardi di dollari che potrebbero venire da Gazprom, la quale si è detta molto interessata al progetto, ma questo non è certo) e, soprattutto, la capacità del governo pakistano di regolare la situazione del Belucistan.
Gli ostacoli al progetto
Situata a sud del Pakistan, questa regione ha da sempre nutrito delle mire indipendentistiche e negli ultimi anni, gli scontri col governo centrale sono aumentati notevolmente.
Per spiegare le ragioni di questa tensione si dovrebbe forse risalire al 1893, anno in cui gli inglesi tracciarono la linea di divisione tra Afghanistan e Pakistan (Linea Durrand) e divisero di fatto la popolazione belucia in 3 diversi Stati (Afghanistan, Pakistan e Iran). Senza spingersi tanto indietro, basti sapere che le controversie derivano dalle lagnanze di questa regione nei confronti di un governo centrale colpevole di sfruttare le importanti risorse naturali di cui essa gode, senza darle nulla in cambio. Il Belucistan è infatti la regione più povera del Pakistan.
I ribelli beluci (nonostante una parvenza di tregua derivante dal fatto che nelle elezioni del 2008 abbia ottenuto la vittoria il PPP, tanto a livello nazionale, quanto a livello regionale) potrebbero prendere di mira il gasdotto, così come fanno da anni per tutte le infrastrutture (condutture dell’acqua e dell’energia) che attraversano il loro territorio. In questo modo, ci sarebbero nuove chances per la costruzione del TIPI, il quale non può però prescindere da una stabilizzazione della situazione afghana (dovrebbero infatti passare per Herat, Afghanistan occidentale).
E’ dunque essenziale un’azione del governo di Islamabad tesa a risolvere le tensioni e stemperare il clima di odio instauratosi a livello nazionale, specie tra beluci e punjabi.
In questa operazione potrebbe avvalersi, o comunque essere spinta, dal governo cinese. Questo infatti, oltre a nutrire ingenti interessi economici in questi territori, non potrebbe mai tollerare un’eventuale secessione del Belucistan dal Pakistan poiché ciò la priverebbe di un importante sbocco sull’Oceano indiano ed inoltre, questo costituirebbe un modello da cui gli uiguri della regione dello Xinyang potrebbero trarre ispirazione.
Tuttavia, oltre al separatismo belucio, a rendere molto delicata la situazione di questa regione, si aggiunge oggi la palpabile tensione tra Pakistan e India.
Il governo di Islamabad infatti, accusa New Delhi di fomentare la ribellione al fine di destabilizzare e dunque indebolire il paese. A questo proposito, i pakistani sottolineano la presenza, ad esempio, di ben 26 uffici consolari lungo il confine tra del Pakistan con Iran e Afghanistan. Essi temono infatti che questi uffici nascondano delle basi organizzative in cui si coordina e si finanzia l’azione degli indipendentisti beluci. D’altra parte, le dichiarazioni rilasciate da taluni esponenti beluci circa la riconoscenza nutrita dalla popolazione nei confronti dell’India, unico paese che si curerebbe realmente delle loro esigenze, non fanno che alimentare i sospetti di Islamabad.
Conclusioni
Il porto di Gwadar costituisce dunque uno snodo molto importante per i traffici marittimi e in prospettiva potrebbe divenire un fondamentale hub regionale, il cui possesso sarebbe in grado di alterare la distribuzione della potenza e dell’influenza regionale.
Esso quindi coagula attorno a sé molte tensioni e ci permette inoltre di cogliere le redistribuzioni di potere che sono in atto a livello globale: una Cina sempre più assertiva, gli Stati Uniti che arretrano, un’Europa incapace di incidere e tutti gli altri che tentano di trarre il massimo vantaggio dalle singole situazioni.
Tuttavia, aldilà delle questioni geopolitiche, appare evidente come Gwadar possa costituire una doppia opportunità per il Pakistan.
Da una parte, esso potrebbe trarre consistenti benefici economici dal transito di materie prime che sarebbero poi indirizzate verso la Cina (si stima che il paese potrà contare su entrate dell’ordine di 500 milioni di dollari all’anno per i soli diritti di transito) e potrebbe dunque accelerare la sua crescita economica. Inoltre, esso risolverebbe, per diversi decenni, il problema dell’approvvigionamento energetico.
In secondo luogo, Islamabad deve essere capace e soprattutto, avere la volontà, di spartire con la popolazione belucia parte delle entrate economiche, in modo da sollevare la regione dalla drammatica situazione socio-economica in cui versa.
In questo modo, ci sarebbero benefici immediati per la stabilità del paese poiché è probabile che le mire indipendentiste subirebbero un indebolimento.
Inoltre, un Belucistan più stabile gioverebbe a tutta la comunità internazionale e sarebbe un passo importante nella lotta contro il terrore. Infatti, se questa regione dovesse restare nell’attuale situazione di disperazione, diventerebbe sempre più vulnerabile nei confronti dei richiami dell’estremismo islamico, con immediate ripercussioni negative su tutta quanta la regione e non solo.
* Daniele Grassi, dottore in Scienze Politiche presso la LUISS “Guido Carli” e attualmente ricercatore presso l’Istituto di Studi Strategici di Islamabad.
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