Ormai da diversi anni molti analisti parlano della crisi della democrazia e del sistema politico americano, soprattutto da quando nel 2016 Donald Trump è salito al potere palesando le contraddizioni della società nordamericana. “The Donald” è stato probabilmente la punta di un iceberg che senza la sua elezione quattro anni fa non si sarebbe manifestato così rapidamente; Trump ha solo accelerato il corso degli eventi, nulla di più. In questo senso la crisi dei mutui subprime tra il 2007 e il 2008 è stato l’inizio di un incubo e la fine del “sogno americano”; il movimento “Occupy Wall-Street” nel 2011 è stato un ulteriore tassello della deriva politica e sociale statunitense e la salita la potere di Donald Trump negli ultimi anni è stato l’ultimo passaggio verso la certificazione della crisi in corso almeno da circa 15 anni.

In altre parole, se il XX secolo è stato quello dell’”American Dream”, del “Paese guida del mondo libero”, il nuovo secolo ha rappresentato fino ad ora e rappresenterà anche in futuro l’epoca del ridimensionamento progressivo del sistema americano dal punto di vista della politica interna. A dire il vero non sono mancati gli spunti di riflessione sulla crisi statunitense per quanto concerne la politica estera e l’egemonia americana nel mondo. Dall’ascesa della Cina come principale economia mondiale, questione che secondo gli ultimi studi e grazie alla crisi del Covid-19 si concretizzerà ancora prima del previsto, all’incapacità di dirimere le controversie regionali in alcune zone calde del mondo come il Medio Oriente – dove il ruolo di potenze “alternative” all’egemonia mondiale statunitense sta crescendo costantemente (si pensi prevalentemente al fondamentale ruolo russo in questa regione, sconosciuto fino a pochi anni fa) – la decadenza dell’impero americano nel mondo è al centro dell’attenzione da diverso tempo.

In pochi però hanno discusso seriamente la crisi che vive la società americana al proprio interno: la forte lacerazione sociale esistente tra ricchi e poveri, tra alta borghesia cosmopolita e piccola borghesia e proletariato nazionalista, il ridimensionamento del ruolo dei partiti a favore di nuove entità sociali e leader carismatici, la contrapposizione razziale tra la componente wasp e “gli altri”, la crisi industriale che ha desertificato città e zone economicamente sviluppate sono tutti sintomi della decadenza imperiale anche all’interno dei confini nazionali. Si potrebbe rispondere che tutti questi fenomeni sono esistiti anche in passato e non sono delle assolute novità del 21esimo secolo negli USA. Certamente è così: la contrapposizione tra nord industriale (alta borghesia) e sud agricolo (piccola borghesia) esiste dai tempi di “Via col vento”, il KKK non è una invenzione di Trump, la crisi industriale non risale a qualche anno fa, i problemi legati all’immigrazione in una nazione fondata da migranti clandestini sono sempre esistiti. In fondo la Guerra d’Indipendenza non è stata forse una lotta tra immigrati, colonizzatori vecchi e nuovi per il predominio su una terra che era di terzi (i pellerossa)?

Ma in tutto ciò vi è una dirompente verità del tutto nuova che riguarda gli anni del governo Trump, ovvero una specificità della nostra epoca, non riscontrabile in altri periodi della storia americana. Tale evento certifica in modo inequivocabile la crisi del sistema americano: l’aggressività senza precedenti dei movimenti di “estrema destra” (una galassia variegata ed eterogenea, dai razzisti veri e propri alle sette evangeliche). In passato questi gruppi erano attivi a livello locale nelle roccaforti tradizionali dell’estremismo ultra-conservatore, le regioni del sud-est. Il KKK classico e le sue ramificazioni o imitazioni si “accontentavano” di attaccare gli apparati statali, i “comunisti”, gli immigrati e i neri nelle lande remote del profondo sud, lontanto dai centri del potere politico ed economico del ricco, progressista e opulento nord (New York e Washington). Anche quando si andava oltre, eravamo dinanzi a singoli “pazzi” che con azioni dimostrative importanti, ma isolate, cercavano di impressionare l’opinione pubblica (vedi l’attentato di Oklahoma City nel 1995). Grazie all’ascesa di Trump e alla sua dialettica “alternativa” rispetto ai canoni tradizionali della politica amercana (Repubblicani vs. Democratici), le pulsioni più selvagge dell’”estremismo di destra” sono esplose senza controllo. Inoltre se in passato tali gruppi erano sostenuti da una parte minoritaria degli abitanti del sud, ora una parte importante del proletariato del nord (prevalentemente di razza bianca, ma ci sono anche delle eccezioni) si è alleato con gli eredi dei Cavalieri Bianchi et similia, creando un gruppo numeroso e attivo su tutto il territorio nazionale.

Gli eventi di questi giorni e l’attacco al cuore del sistema americano da parte dei sostenitori di Trump dimostrano come la crisi sociale e politica nordamericana non riguarda solo l’egemonia mondiale di Washington. Essa è una realtà interna al paese d’oltre oceano; difficilmente Biden riuscirà a far tacere le anime inquiete di questo movimento di protesta che al contrario del movimentismo classico americano non proviene dai salotti buoni (è noto che molti sessantottini avessero i propri “genitori” o “amici” nel “Palazzo”), ma ha le sue radici nel disagio storico di alcuni ceti sociali che hanno ancora addosso le ferite del passato e si ritengono derubati da quelle che a ragione o a torto vengono ribattezzate come le “lobby massoniche” di New York e Washington. Con la differenza che in passato questa visione era circoscritta ai circoli più esaltati di alcune cittadine e villaggi del Tennessee e dell’Alabama, mentre oggi la base sociale dei sostenitori massimalisti del presidente uscente è molto più ampia ed eterogenea, con una notevole capacità paramilitare e con la volontà di portare avanti i propri progetti anti-sistema costi quel che costi.

Forse, prima di concentrarsi sulle esercitazioni militari nel Mare Cinese, nel Mare Baltico e nel Golfo Persico, il centro del potere politico americano (che va ben oltre Trump o Biden) dovrebbe preoccuparsi seriamente per quello che sta accadendo a Washington per via dell’alleanza sui generis tra i residui dell’estrema destra americana, il proletariato bianco (e non) e Donald Trump, l’ultra capitalisa amico (o presunto tale) degli emarginati (possibilmente wasp).


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Ali Reza Jalali, laureato in giurisprudenza presso l`Università degli Studi di Brescia, ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Verona. Attualmente insegna diritto costituzionale e internazionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università Islamica di Shahrud (Iran). Presiede il Centro studi internazionale Dimore della Sapienza, di cui è anche responsabile per la sezione dedicata agli studi giuridici e politologici. Ha pubblicato numerosi saggi su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Nelle sue ricerche si occupa prevalentemente dei temi attinenti al diritto pubblico, al diritto internazionale, al rapporto tra Islam e scienza politica ed alle relazioni internazionali, in particolare per quanto riguarda l’area islamica.