La questione dei rifugiati palestinesi costituisce il più grande problema di profughi non risolto nel XX secolo: ne vengono stimati circa 5 milioni, che rappresentano quasi 1/5 della comunità di popolazioni profughe riconosciuta nel mondo. L’UNRWA , l’organizzazione delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione, definisce “rifugiato palestinese” una persona il cui normale luogo di residenza è stato in Palestina fra il giugno 1946 e il maggio 1948, che ha perso sia l’abitazione sia i mezzi di sussistenza in conseguenza del conflitto arabo-israeliano del 1948”1. La definizione di rifugiato include anche i discendenti delle persone che sono diventate rifugiate nel 1948.
Nel 1950 se ne contavano circa 914 mila, nel 2002 più di 4 milioni (dati UNRWA) e il loro numero continua ancora a crescere dato lo sviluppo naturale della popolazione. Oggi queste persone vivono senza documenti d’identità, non possono studiare, sposarsi, lavorare e rischiano di essere arrestati ogni volta che vengono fermati a qualche posto di blocco. Non possono, dunque, godere degli stessi diritti civili delle popolazioni dei paesi ospitanti.
Origini della diaspora palestinese
L’esodo palestinese ebbe inizio nel 1948, con la nascita dello Stato di Israele e la cosiddetta Nakba (letteralmente “catastrofe”), che segnò la cacciata delle popolazioni non ebree che vivevano nelle aree israeliane. Tra il 1947 e il 1949 il numero dei rifugiati palestinesi passò da 520 unità a circa 1 milione. I ricchi mercanti e i capi villaggio si spostarono da Tel Aviv e Gerusalemme verso i paesi confinanti. Più di 1/5 della popolazione palestinese abbandonò il suo territorio: circa 100 mila andarono in Libano, altri 100 mila in Giordania, 90 mila in Siria, 10 mila in Egitto e 4 mila in Iraq. La classe media si recò in città arabe, come Jaffa e Haifa, mentre i contadini finirono nei campi dei rifugiati delle Nazioni Unite. In Israele rimasero circa 150 mila palestinesi, 1/8 della popolazione araba dell’epoca.
I palestinesi, come cittadini di Israele, avrebbero dovuto godere degli stessi diritti civili e religiosi degli ebrei ma, in realtà, fino al 1966, vissero sotto una giurisdizione militare che imponeva loro severe restrizioni sulla libertà di movimento. Dopo che le loro terre vennero confiscate, molti agricoltori arabi divennero lavoratori sottopagati nelle fabbriche israeliane. Alcuni riuscirono ad inserirsi all’interno della società israeliana, ma la maggior parte di coloro che vivevano in territorio israeliano rimasero isolati rispetto a quelli che abitavano in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, entrambe poste sotto il controllo egiziano fino al 1967. In Cisgiordania, l’area ad ovest del fiume Giordano, avevano trovato rifugio circa 300 mila persone, mentre nell’attuale Striscia di Gaza si riversarono circa 190 mila palestinesi, rendendo questo minuscolo territorio (lungo 40 chilometri e largo 8 chilometri) una delle aree attualmente più popolose al mondo e sopratutto un’area in cui quotidianamente si assiste, attraverso i media, ad una delle più gravi emergenze umanitarie.
La base della questione dei profughi è di natura nazionale-politica, oltre che umanitaria. I rifugiati palestinesi in tutti i paesi della diaspora insistono sulla loro unità come nazione, sul diritto a tornare nel loro paese e all’autodeterminazione, basato sulla risoluzione n.194 delle Nazioni Unite e rafforzato dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, decretata anch’essa dall’ONU il 10 dicembre 1948. Questi diritti sono sostenuti dai profughi palestinesi anche laddove godono dei diritti civili fondamentali.
In Siria, per esempio, i rifugiati godono dei diritti civili pur mantenendo la loro identità palestinese, in conformità con il Protocollo di Casablanca, firmato dal primo vertice arabo nel settembre 1965. Il Protocollo esortò tutti i paesi ospitanti a trattare i palestinesi come propri cittadini, permettendo loro di preservare l’identità nazionale. Ma non tutti gli stati nei quali i palestinesi vivono da più di sessant’anni rispettano quanto suggerito, rendendo la questione palestinese un problema di difficile soluzione.
La presenza palestinese nei paesi confinanti ha alterato l’equilibrio demografico della regione, in particolar modo in Giordania e in Libano.
In Giordania gli esuli palestinesi, che corrispondevano a circa 1/3 della popolazione, ricevettero subito la cittadinanza, causando il malcontento degli abitanti locali. Negli anni Settanta, inoltre, si verificarono violenti scontri tra le milizie del re giordano Hussein e i gruppi armati palestinesi, che minacciavano di impossessarsi dello stato.
In Libano la presenza palestinese provocò una serie di conflitti che insanguinarono il paese durante gli anni ’80.
L’esodo palestinese in Libano
Il problema dei rifugiati palestinesi in Libano è di grande importanza per la loro ingente presenza. Sono circa 420 mila le persone che vivono in 12 campi profughi. Una consistente ondata si riversò sul territorio libanese in seguito al conflitto avvenuto in Giordania tra il 1970 e il 1971, noto come Settembre Nero, che si concluse con la morte o l’espulsione dalla Giordania di migliaia di palestinesi2. L’afflusso, che, come ricordato, aveva avuto inizio nel 1948, modificò la composizione demografica del paese. Infatti, nel 1975, il numero dei palestinesi nel territorio libanese era cresciuto fino a circa 300 mila unità. Sono circa 400 mila i palestinesi attualmente presenti in Libano. Ad essi è precluso il diritto di ritorno nei territori d’origine e sopravvivono grazie alle rimesse dei familiari emigrati all’estero, agli aiuti dell’UNRWA e delle organizzazioni internazionali non governative.
Inoltre, le autorità libanesi continuano ad ostacolare l’integrazione dei palestinesi nel tessuto sociale attraverso il mancato riconoscimento dei diritti civili: i profughi non hanno diritto alla proprietà privata, a viaggiare liberamente nel paese. Sono perfino esclusi dalla sanità pubblica del governo, dai servizi scolastici e dai servizi sociali pubblici. Considerati come stranieri, è vietato loro di accedere a più di 72 professioni.
Stanchi di questa discriminazione che ormai perdura da più di mezzo secolo, alla fine di giugno i rifugiati hanno organizzato un’imponente manifestazione a Beirut, davanti al Parlamento, a cui hanno partecipato 2000 persone. Scopo dell’evento era fare pressione al governo affinché approvi una legge che garantisca diritti e lavoro ai palestinesi. Il disegno di legge, se venisse approvato, darebbe loro l’opportunità di ottenere la residenza o almeno una copertura sanitaria. Sarebbe un passo avanti nella difficile soluzione della questione palestinese, considerato anche che le istituzioni libanesi hanno sempre visto la consistente presenza dei profughi (quasi il 10% della popolazione) come una minaccia alla già fragile stabilità dello stato, basato su equilibri demografici e confessionali tra le varie entità religiose e culturali presenti. In seguito ai fatti giordani dei primi anni ’70, lo spostamento della guerriglia palestinese in Libano trasformò il paese in un campo di battaglia che attirò anche le pressioni israeliane, provocando una serie di tensioni tra le varie componenti religiose (cristiana, maronita e falangista, di orientamento filo-israeliano, musulmano-sciita, sunnita, palestinese, etc.), le quali sono state al centro della guerra civile che ha sconvolto il Libano dal 1975 al 1990.
Nel periodo del conflitto, durante il quale l’esercito israeliano occupò militarmente il paese, nei campi profughi i palestinesi subirono perdite materiali e umane devastanti. Fu soltanto con l’intervento dell’esercito siriano, in forma di forze di “interposizione”, che si pose fine alle ostilità.
Nel 2000, poi, il ritiro di Israele dal sud del Libano dopo ventidue anni di occupazione militare, diede al paese la possibilità di sperare nell’avvio di un processo di pacificazione interno ed internazionale e costituì l’inizio di un periodo di ricostruzione sociale ed economica del paese.
Le difficoltà economiche e sociali dei palestinesi, oltre che dalle ostilità dirette, sono state aumentate anche da altri eventi. Nel 1982, la partenza dal Libano dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), in seguito all’invasione israeliana, privò i palestinesi dei servizi che le istituzioni dell’OLP avevano loro fornito fino ad allora.
In seguito, lo scoppio della seconda Guerra del Golfo (1990-91) provocò l’espulsione di migliaia di palestinesi da alcuni stati del Golfo, soprattutto dal Kuwait, dove molti di loro lavoravano. L’espulsione fu una risposta al supporto dell’OLP a favore dell’Iraq che, tra l’altro, perse gran parte delle sue fonti di supporto finanziario, e quindi dovette ridurre o annullare l’assistenza ai profughi in Libano.
Le autorità libanesi, inoltre, non si sono mai preoccupate del benessere economico e sociale dei profughi e si sono sempre rifiutate di prendere provvedimenti per migliorare la loro situazione. Altri paesi ospitanti hanno, invece, adottato provvedimenti riguardo ai diritti civili.
Bisogna considerare, poi, il peggiorare delle condizioni economiche del paese, in seguito al crollo della moneta nazionale, l’inflazione e l’alto costo della vita, tutti fattori che hanno provocato una degenerazione della vita economica e sociale libanese. Il rapporto delle Nazioni Unite sul Libano indica che il 27% della popolazione vive sotto il livello della povertà assoluta.
Il fatto che il governo libanese non accordi ai palestinesi i diritti civili fondamentali, significa che l’integrazione dei profughi viene considerata dannosa per l’unità politica in una società che sta ancora cercando una stabilità dopo la guerra civile. Di conseguenza i palestinesi in Libano sono meno integrati economicamente e subiscono restrizioni più severe sui diritti civili rispetto ai profughi negli altri paesi ospitanti della regione.
I rifugiati palestinesi in Giordania
I rifugiati palestinesi che vivono in territorio giordano sono più della metà dei 6,3 milioni di abitanti del paese.
Secondo Human Rights Watch, l’organizzazione internazionale indipendente che si dedica a difendere e proteggere i diritti umani, a tremila giordani di origine palestinese (e ai loro familiari) è stata revocata la cittadinanza agli inizi di quest’anno. Il governo giordano giustifica il ritiro come un’operazione per l’attuazione del disimpegno dalla Cisgiordania presa nel 1988. La Giordania, infatti, aveva annesso la Cisgiordania nel 1950, dopo lo scoppio del conflitto arabo-israeliano del 1948, ed aveva concesso la cittadinanza giordana a tutti gli abitanti che erano sottoposti alla sua amministrazione, fino a quando Israele occupò nel 1967 tutta la Cisgiordania. Nel 1988 il governo di Amman decise di liberarsi del legame giuridico e amministrativo al quale era soggetta la Cisgiordania.
Alla luce di quanto accaduto con il ritiro della cittadinanza ai palestinesi che vivono in territorio giordano, bisogna considerare la violazione dei diritti fondamentali di migliaia di persone. Attualmente centinaia di migliaia di abitanti di origine palestinese sono esposti al rischio del ritiro della cittadinanza giordana, inclusi circa 200 mila giordani palestinesi tornati in patria dal Kuwait nel 1990-91, dopo l’invasione irachena nel 1990. Come avviene in Libano, anche in Giordania le autorità temono la possibilità di un esodo permanente dei palestinesi entro il suo regno, dal momento che il governo israeliano non intende rimuovere i suoi insediamenti nei territori occupati. L’ingente quantità di palestinesi che vivono in Giordania viene considerata sia come una minaccia all’identità sociale e culturale del popolo giordano sia come un fattore di impoverimento di un’economia, come quella giordana, già di per sé non molto sviluppata.
Il dissenso nei confronti dell’insediamento della popolazione palestinese in Giordania è stato manifestato recentemente anche da parte del Comitato Nazionale dei Veterani dell’Esercito giordano, i quali hanno firmato una petizione con attacchi diretti sia alla monarchia sia al popolo palestinese. Nel documento i veterani hanno espresso la loro preoccupazione per il problema palestinese che, dal loro punto di vista, il governo affronta cedendo a pressioni esterne ad insediare i rifugiati del regno e vedono la loro presenza come una grande fonte di problemi per il governo del paese. I veterani hanno, inoltre, criticato le politiche economiche neo-liberali del re Abdullah e le nomine di persone di origine palestinese in posizioni importanti del governo. Il documento si conclude con la richiesta di costituzionalizzare il disimpegno dalla Cisgiordania del luglio 1988, privare del diritto di voto l’intera popolazione palestinese del regno e rinforzare l’esercito. Infine viene affermata la necessità di riforme politiche e viene chiesto di impedire la corruzione ed investire il governo e il parlamento di maggiori poteri.
I palestinesi della Siria
Anche in Siria la questione palestinese costituisce un fardello per le autorità del governo. Come gli altri stati della regione, la Siria iniziò ad accogliere i profughi palestinesi all’indomani della nascita dello Stato d’Israele: allora se ne contarono circa 85 mila (dati UNRWA). Un altro imponente afflusso si verificò dopo la Guerra dei Sei giorni nel 1967, quando il numero di profughi giunse a 450 mila. Circa il 10% dei palestinesi vive nei 10 campi profughi ufficiali; il 25% vive in tre campi profughi non ufficiali, controllati dalle forze di sicurezza siriane. Il 50% circa vive, invece, nelle varie città siriane.
A differenza dei profughi che vivono altrove, tuttavia, in Siria essi possono godere di qualche diritto civile: malgrado non possano acquisire la cittadinanza siriana, possono frequentare scuole e università gratuitamente ed hanno diritto all’assistenza sanitaria pubblica. Godono, inoltre, del diritto di proprietà per quanto riguarda le abitazioni, esclusi i terreni. Ricoprono alte cariche governative, con l’eccezione degli incarichi politici. Infine possono richiedere dei passaporti speciali per recarsi all’estero.
Molti leader delle fazioni politiche e militari palestinesi hanno scelto come sede delle loro attività la Siria: si tratta dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Hamas ed altri gruppi di resistenza palestinese. Nonostante il gran numero dei rifugiati abbia danneggiato l’economia e le condizioni di vita siriane, il paese arabo ha concesso loro dei diritti che vengono negati in altri paesi.
Conclusioni
Il ritorno dei palestinesi in Palestina è una questione complicata. Sebbene il diritto di ritorno sia riconosciuto a livello internazionale, dal momento che fu decretato dall’Assemblea delle Nazioni Unite con la risoluzione n.194 del 1948, esso non è mai stato rispettato dai governi mediorientali e i palestinesi sono tuttora cittadini senza patria. Essi non intendono rinunciare alla speranza di assistere un giorno alla tanto agognata nascita di uno Stato palestinese. Gli aiuti e l’assistenza da parte degli enti internazionali sono certamente utili, ma non risolvono il problema. L’unica soluzione per porre fine al grande esodo e favorire il riconoscimento dei diritti umani fondamentali alla popolazione palestinese, sarebbe l’esecuzione della risoluzione n.194. Ciò richiede la collaborazione degli organi internazionali affinché premano su Israele per la realizzazione dell’autodeterminazione del popolo palestinese.
* Silvia Bianchi è dottoressa in Editoria e giornalismo (LUMSA di Roma)
1La prima guerra arabo-israeliana portò allo scontro fra la componente ebraica della Palestina e quella araba della stessa regione. Quest’ultima ottenne l’appoggio delle forze armate di diversi paesi arabi del Vicino Oriente, come l’Egitto, la Transgiordania, la Siria, il Libano e l’Iraq.
2Il 16 settembre 1970 Re Hussein di Giordania dichiarò il controllo militare del suo paese, in risposta ad un tentativo da parte dei Fedayyn palestinesi ( militanti della guerriglia armata) di prendere il controllo del regno.
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