Il commento pubblicato da Vladimir Putin sull’edizione del “New York Times” dello scorso 13 settembre ha aperto un enorme dibattito negli Stati Uniti. Dando un’occhiata alle migliaia di commenti apparsi nel sito del celebre quotidiano e ai principali rotocalchi televisivi statunitensi, sembra possibile affermare che il grosso del pubblico nordamericano si sia spaccato in due fazioni. L’una, già in gran parte critica con Obama ma non necessariamente di fede repubblicana, ha accolto con sostanziale favore le considerazioni del presidente russo; l’altra, lo “zoccolo duro” dell’elettorato di Obama ma anche alcuni repubblicani di orientamento marcatamente nazionalista, al di là della verità che emergerà dalla questione siriana ha criticato l’operato del “New York Times”, sottolineando che in Russia i cosiddetti deficit di democrazia non avrebbero consentito un analogo trattamento ai politici statunitensi.
Tuttavia il risultato più importante, Putin lo ha comunque già ottenuto. Nell’incipit del suo articolo egli sostiene di rivolgersi «direttamente agli americani e ai loro dirigenti politici» e tutto ciò è senz’altro evidente, non fosse altro che per la “tribuna” scelta. Eppure le riflessioni di Putin contengono un ulteriore significato, meno visibile ma ben più profondo il cui principale destinatario sembra essere il resto del mondo.
Il presidente russo prosegue infatti rimarcando l’importanza del ruolo delle Nazioni Unite e in particolare del Consiglio di Sicurezza che «ha favorito la stabilità dei rapporti internazionali per decenni» e ha impedito che una catastrofe come quella della Seconda Guerra Mondiale potessi ripetersi. Elenca inoltre tutta una serie di questioni internazionali irrisolte (il nucleare iraniano, il conflitto israelo-palestinese, l’instabilità del Medio Oriente e del Nord Africa) legandole in qualche modo alla crisi in Siria, dove si assiste ad «un conflitto tra governo e opposizione in un paese multiconfessionale» nel quale lo Stato è impegnato contro «jihadisti di al-Qaeda ed estremisti di ogni genere».
Trovando conforto nei rapporti dell’intelligence di Washington, Putin sostiene che «il Fronte al-Nusra e il Movimento per lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante combattono a fianco dell’opposizione» in uno scontro «alimentato dalle armi straniere» che mette in pericolo il mondo intero. Citando espressamente il pericolo del terrorismo islamista, il presidente russo cerca chiaramente di toccare le corde dei repubblicani e dei settori della società statunitense più sensibili al tragico ricordo dell’Undici Settembre, per altro fresco di commemorazione al momento di andare in stampa. Richiamandosi invece a quel diritto internazionale in base al quale «l’uso della forza è consentito solo per autodifesa o su decisione del Consiglio di Sicurezza», Putin ricerca presumibilmente un consenso presso quei settori dell’opinione pubblica democratica maggiormente orientati al multilateralismo e al rispetto della legalità internazionale. Un colpo al cerchio e uno alla botte, insomma: da un lato un aperto richiamo ai drammatici conflitti aperti da George W. Bush in Afghanistan e in Iraq che hanno trasmesso l’immagine di un’America nel mondo «sempre più considerata da milioni di persone non un modello di democrazia, ma un paese che si affida alla sola forza bruta»; dall’altro le contraddizioni dell’amministrazione Obama dinnanzi al terrorismo e al diritto internazionale.
Eppure il nodo strategico del messaggio di Putin è quello successivo. Ben prima che il rapporto della Commissione ONU fosse pubblicato, egli afferma di non dubitare affatto «che in Siria sia stato usato gas venefico», aggiungendo che «è lecito credere che non sia stato usato dall’esercito siriano, bensì dall’opposizione per provocare l’intervento dei suoi potenti alleati stranieri». La diplomazia russa era evidentemente già a conoscenza dell’uso di armi non convenzionali nella zona di Ghouta e si aspettava , come anche Obama e Kerry, che il rapporto recentemente pubblicato da Ban Ki Moon confermasse l’utilizzo del gas sarin oltre – come poi effettivamente è stato – ad una generica condanna delle violenze da ambo i fronti.
Nel dettaglio del rapporto, i commissari fanno riferimento ad alcuni razzi sui quali sarebbero state installate cariche contenenti prodotti chimici asfissianti. In primo luogo il razzo è un mezzo tra i più comunemente utilizzati nel mondo, è facilmente procurabile in situazioni di guerra civile o addirittura in tempo di pace nei mercati clandestini delle armi (quello libico è diventato dal 2011 uno dei più tristemente floridi) ed il fatto che siano state individuate alcune scritte in alfabeto cirillico su quelli utilizzati a Ghouta non è dunque un elemento in grado di provarne con certezza la provenienza; in secondo luogo, il carattere rudimentale e scarsamente tecnico dell’ordigno rimanda a modalità di guerriglia pertinenti a forze irregolari costrette ad agire nella clandestinità e nell’improvvisazione.
Il rapporto ONU, dunque, non aggiunge nulla di nuovo sul piano delle prove concrete ma, ad un’attenta lettura, contribuisce ad alimentare i dubbi sulla tesi anglo-franco-americana, così ciecamente presentata alla fine di agosto. Se per i governi occidentali è necessaria una chiara dimostrazione di responsabilità che inchiodi le autorità siriane in base alla celebre “linea rossa”, per Mosca un rapporto del genere costituisce una conferma di livello internazionale alle proprie tesi. Secondo l’ONU, così come per Mosca e Washington, è stato compiuto un «crimine di guerra» ma, come per Mosca e diversamente da Washington, non esistono dati incontrovertibili che legittimino un intervento militare contro Assad, anzi compaiono elementi che inducono a ritenere possibile la responsabilità dei ribelli.
La breccia aperta da Putin con l’aspra critica alla tesi dell’“eccezionalismo nordamericano”, si allarga così ulteriormente mettendo in crisi l’amministrazione Obama e i suoi alleati Hollande e Cameron che, da Parigi, non hanno potuto che arretrare le proprie posizioni di appena due settimane fa. A pochi minuti dalla pubblicazione del rapporto, lo stesso ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha nuovamente puntato il dito contro il presidente siriano Assad ma ha poi affermato che in Siria «la soluzione è politica, non militare».
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