L’improvvisa e tragica morte di Lech Kaczynski non ha fatto altro che imprimere un’accelerazione ad un processo politico già in corso. L’era Kaczynski è finita e, con essa, una certa visione geopolitica della Polonia.
Allo schianto del Tupolev 154 che il 10 aprile scorso si è portato via il Presidente Lech Kaczynski ed una buona fetta della classe dirigente polacca ha fatto eco un coro unanime di cordoglio da parte di tutta la comunità internazionale. Mai, nella storia recente, un singolo evento ha colpito in maniera così grave i vertici politici, economici e militari di una nazione. Solo la nube vulcanica islandese è riuscita a fermare la vicinanza di diversi dirigenti mondiali (tra i quali Obama, Sarkozy, Zapatero, Berlusconi ed Angela Merkel) nel momento delle esequie, presiedute a Cracovia dal cardinale Stanislaw Dziwisz. Presenti, invece, il Presidente georgiano Saakashvili, il Presidente ceco Klaus (entrambi grandi amici di Kaczynski) e, soprattutto, il Presidente russo Dimitri Medvedev.
La partecipazione del capo del Cremlino non è ascrivibile al semplice rispetto del protocollo diplomatico. Per comprendere appieno il senso più profondo dell’attuale vicinanza russa nei confronti della nazione polacca e di ciò che essa sta vivendo in questi giorni è perlomeno necessario considerare due elementi: da un lato, chi era Lech Kaczysnki e come lui e buona parte del suo entourage hanno perso la vita; dall’altro, l’andamento delle relazioni russo-polacche negli ultimi mesi.
Partiamo dal primo punto. Per una personalità come Kaczysnki, morire a Katyn appena prima di commemorare gli ufficiali polacchi vittime dell’eccidio perpetrato dalla polizia segreta staliniana nell’aprile del 1940 appare come il finale perfetto di un’esistenza scandita dai valori della patria, della nazione, dell’identità e del contrasto ai due grandi nemici di sempre, la Russia e la Germania (in ogni loro forma storica). Kaczynski era anzitutto un nazionalista polacco, un portavoce di quelle istanze rurali della Polonia orientale che guardavano con diffidenza alla medio-alta borghesia urbana, così come allo straniero in generale. Solitamente, in queste regioni di confine non si è polacchi, lituani, bielorussi o ucraini, ma semplicemente cattolici. Continui mutamenti di frontiera e trasferimenti di popolazioni hanno indebolito il legame tra la gente ed il territorio e l’unica vera e radicata identità rimasta si rivela essere quella religiosa, cattolica appunto. Nondimeno la ricerca di una più forte appartenenza nazionale appare lungi dall’essere sopita, sicché, da queste parti, la questione nazional-identitaria risulta d’importanza capitale, in un intreccio secolare-religioso che si rafforza sempre più.
Kaczysnki, al suo elettorato, offriva essenzialmente questo. Offriva un’intransigente difesa dei valori cattolici tradizionali ed offriva miraggi di grandezza nazionale. Il climax di questo tipo di approccio lo si poté notare dal 2005 al 2007, quando lui ed il gemello Jaroslaw diventarono rispettivamente Capo di Stato e Primo Ministro. Sconfitto il centro-destra liberale di Tusk, il partito conservatore dei Kaczynski (“Legge e Giustizia”) decise di stringere un’alleanza di governo con due formazioni politiche radicali, guardate generalmente con timore dagli osservatori nazionali ed internazionali più moderati: Autodifesa e la Lega delle Famiglie Polacche. La diarchia dei “due che rubarono la luna”, per citare il titolo della pellicola del 1962 che rese celebri i gemelli Kaczynski, sarebbe stata ricordata anzitutto per la cosiddetta lustracja, la “caccia alle streghe” contro tutti coloro che si erano anche minimamente “compromessi” con il passato regime comunista.
Certamente l’era Kaczynski non fu solo questo. A ben vedere i risultati positivi ottenuti dai gemelli non furono pochi. Si pensi, ad esempio, alla rilevante diminuzione della corruzione (fenomeno che, peraltro, travolse il governo nel 2007), alla netta semplificazione del quadro partitico ed ai vantaggi fatti ottenere alla Polonia in sede di negoziazione comunitaria (bilancio 2005, procedure di voto in seno al Consiglio, etc.). È tuttavia innegabile che il tratto distintivo dell’era Kaczynski sia stato la paranoia, verso i nemici interni (rappresentati, oltre che dalla quasi inesistente sinistra, da tutta l’ala moderata della vecchia Solidarnosc, Walesa in testa) così come verso i nemici esterni (Mosca e Berlino).
In effetti la politica estera dei due gemelli si rivelò piuttosto semplice: la Russia (coi suoi alleati) e la Germania erano i nemici, mentre Washington (ed i suoi alleati) erano gli amici. Dinanzi a cotanta intransigenza la diplomazia e la mediazione lasciavano spazio a dichiarazioni ed atteggiamenti provocatori: nell’ambito dei negoziati comunitari sul peso da attribuire al voto di ciascun Stato, quando Berlino propose una ponderazione basata sul numero di abitanti, Lech Kaczysnki affermò che il voto della Polonia sarebbe valso di più, se i Tedeschi non avessero ucciso 6 milioni di Polacchi nella Seconda Guerra Mondiale. Ancora: quando Russia e Germania trovarono un accordo per la costruzione del gasdotto Nord Stream, una pipeline che avrebbe saltato i Paesi Baltici e la Polonia, il governo polacco definì l’intesa tra Mosca e Berlino come un “nuovo Patto Ribbentrop-Molotov”. Quando Juščenko ed i suoi diedero vita alla Rivoluzione Arancione ucraina, Kaczynski, prima da sindaco di Varsavia, poi da Presidente, non mancò di far sentire il suo sostegno ai “rivoltosi colorati”. Anche il sostegno incondizionato al progetto di “scudo spaziale” di George W. Bush, così come la creazione del famigerato “gruppo dei cinque”, paesi (la Polonia, i tre Baltici e l’Ucraina) che si ponevano a fianco dell’azione militare di Saakashvili nell’agosto 2008, si ascrive alla medesima ostinata politica estera.
Intanto, già dall’autunno del 2007 Donald Tusk era diventato primo ministro e la sua Piattaforma Civica si confermava il maggiore partito della Polonia. Jaroslaw, il più intransigente dei due gemelli, cessava di essere Primo Ministro ed al suo posto saliva al potere un intellettuale di Danzica, garbato nei modi, europeista convinto e non russofobo. L’era Kaczynski sarebbe continuata, ma in modo edulcorato. Era comunque un segnale: l’opinione pubblica, ormai stanca di una gestione paranoica del potere, desiderava un cambiamento, non necessariamente nei contenuti, quanto almeno nella forma. Tusk, lo sconfitto del 2005, coglieva ora la sua occasione. Da quel momento Lech Kaczynski non poté che rincorrere ed adattarsi, peraltro senza evitare una continua perdita di consenso (al momento della morte, esso si attestava intorno al 27%).
I risultati di questa particolare convivenza liberal-conservatrice si sono rivelati piuttosto positivi. Ad oggi, la Polonia risulta essere il paese europeo meno afflitto dall’attuale crisi economico-finanziaria globale. Merito dell’oculatezza della spesa pubblica, della diminuita corruzione, della solidità del tessuto produttivo, della laboriosità polacca ma, soprattutto, di una politica monetaria (posta in essere dal banchiere centrale Skrzypek, deceduto anch’egli nell’incidente di Katyn) che non ha esitato ad utilizzare l’arma della svalutazione (dello zloty), per favorire le esportazioni e migliorare la situazione della propria bilancia dei pagamenti(1).
In politica estera poi, ed arriviamo così al secondo punto della mia analisi, l’ascesa al potere di Donald Tusk ha visto uno spettacolare miglioramento delle relazioni con Mosca. Il punto più alto di tale evoluzione, favorita dall’elezione di Obama negli Stati Uniti, è stato rappresentato senza dubbio dall’abbandono del sostegno polacco ai progetti americani di “scudo spaziale”, progetti che avevano previsto, con grande gioia dei Kaczynski, installazioni militari statunitensi sul suolo della Polonia (oltre che della Repubblica Ceca). Occorre tuttavia non cadere nel facile errore di pensare ad una cesura netta col periodo precedente: la periodizzazione dei rapporti internazionali, in effetti, porta sempre con sé questo rischio. Si tenga dunque a mente come sia stato lo stesso Tusk a volere missili nordamericani (“difensivi”, e non “offensivi”) sulle frontiere orientali della Polonia. L’ultimo progetto in ordine cronologico sarebbe quello di schierare numerosi Patriot nei pressi di Morag, cittadina non lontana dall’enclave russa di Kaliningrad. Proprio a Kaliningrad, tra l’altro, Mosca avrebbe ribadito l’intenzione di posizionare batterie di Iskander; come a dire, dialoghiamo sì, ma non è possibile arrivare ad una piena fiducia reciproca.
È innegabile, tuttavia, che qualcosa sia cambiato nelle relazioni tra la Federazione e la Polonia. Come detto, i meriti della diplomazia polacca sono notevoli. Molto significativo il fatto che Tusk, erodendo costantemente il consenso verso il Presidente, sia riuscito (più o meno volontariamente) ad ammorbidire in modo drastico la russofobia di quest’ultimo. Un punto dell’ormai mitico ultimo discorso di Kaczynski, mai pronunciato a Katyn, è sicuramente paradigmatico: “(..) lasciamo cicatrizzare la ferita di Katyn. Siamo già sulla buona strada per farlo. Noi Polacchi apprezziamo ciò che i Russi hanno fatto negli ultimi tempi. Dobbiamo continuare sul sentiero che avvicina sempre di più le nostre nazioni, non dobbiamo fermarci o tornare indietro (…)”(2).
Altrettanto notevoli sono i meriti della diplomazia russa, estremamente abile nel bilanciare bastone e carota. Subito dopo l’intesa per la fornitura di gas metano alla Polonia fino al 2037 (era il 7 aprile scorso), veniva inaugurata, vicino a Vyborg, la costruzione della condotta Nord Stream, il gasdotto che, come ricordato, saltando la Polonia porterà 27,5 miliardi di metri cubi di metano ogni anno in Europa occidentale (era il 9 aprile)(3). Poi fu la volta dell’incidente aereo di Katyn, il quale offrì all’intera Russia un’occasione per lenire le secolari discordie con Varsavia. Il sopralluogo di Putin, insieme a Tusk, sulla scena della tragedia, l’abbraccio (immortalato dalle telecamere di tutto il mondo) tra i due primi ministri, la presenza di Putin alla partenza dalla Russia delle spoglie di Kaczynski, il discorso di Medvedev al popolo polacco, la completa collaborazione russo-polacca nelle indagini sulla sciagura (coordinate dallo stesso Putin) e la trasmissione in prima serata, sulla Tv di Stato russa, del film “Katyn” di Andrzej Wajda sono gesti che non saranno facilmente dimenticati a Varsavia.
Possiamo dunque concordare con Marko Papic quando rileva come Mosca sia stata capace di dar luogo ad una smart public diplomacy nei confronti della Polonia(4). Il Cremlino è ben consapevole del ruolo geopolitico della Polonia, un paese, il più esteso dell’Europa centro-orientale, che è stabilmente inserito all’interno di dispositivi istituzionali occidentali, ma che rimane pur sempre quel “campo da gioco di Dio” (e delle grandi potenze), indicato dal celebre studioso Norman Davies. In altre parole: nonostante la Polonia sia un fedele membro, ad esempio, della NATO e dell’UE, Mosca sembrerebbe intravedervi ora un certo margine di manovra, per realizzare quello che è il suo principale interesse nell’Europa centro-orientale: la presenza di governi, se non amici, almeno non ostili al Cremlino.
Ecco allora che giungiamo al punto conclusivo di questa analisi, e cioè alla domanda: quale sarà il futuro politico della Polonia?. La cosa certa è che la sciagura di Katyn non inficerà la qualità della democrazia polacca, la quale, almeno a livello istituzionale, sembra aver già superato il colpo. Il quesito si sposta allora su chi prenderà le redini del potere presidenziale dopo la fine dell’era Kaczynski. Possibile che sia lo stesso Jaroslaw, il gemello scampato miracolosamente al disastro perché in visita all’anziana madre malata? Secondo Vladislav Gulevič tale ipotesi appare plausibile, anche se la sua candidatura per le imminenti elezioni anticipate del 20 giugno (per quanto riguarda il primo turno) non è stata ancora ufficializzata. Nonostante tale eventualità spaventi il Cremlino, appare difficile, anche in questo caso, un ritorno alla pura intransigenza (specie in politica estera) degli anni passati: lo “stile Kaczynski”, ormai, parrebbe aver fatto il suo tempo.
Considerando lo scarso peso elettorale della sinistra, la quale, tra l’altro, ha visto il proprio candidato alle presidenziali (originariamente fissate per l’autunno prossimo) Jerzy Szmajdzinski perire nell’incidente di Katyn, appare molto probabile un’elezione a Capo di Stato per Bronislaw Komorowski, il candidato della Piattaforma Civica di Tusk, già presidente della Camera Bassa (Sejm) ed ora anche guida del governo ad interim. Se questo fosse l’esito finale (molto dipenderà da come l’elettorato reagirà emotivamente alla sciagura aerea di Katyn), il ruolo geopolitico della Polonia continuerebbe a mutare decisamente nella direzione prefigurata in questi ultimi mesi. E per la Russia, nonché per l’Unione Europea e per la stessa Polonia, non potrebbe che essere una notizia positiva.
* Francesco Rossi è dottore in Relazioni internazionali
Note
1. http://blogs.wsj.com/new-europe/2010/04/09/polish-central-bank-pulls-trigger-to-weaken-zloty/ http://blogs.wsj.com/new-europe/2010/04/12/polands-central-bank-head-slawomir-skrzypek-is-dead/ (21 Aprile 2010).
2. http://www.thenews.pl/national/artykul129342_president-kaczynskis-last-speech.html (22 Aprile 2010)
3. http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2010/04/07/visualizza_new.html_1760583088.html http://news.bbc.co.uk/2/hi/business/8607214.stm (22 Aprile 2010)
4. http://www.stratfor.com/analysis/20100412_video_dispatch_russian_opportunity_poland (22 Aprile 2010)
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