“Geopolitica” è un termine di cui occorre preliminarmente chiarire il significato, perché se ne fa troppo spesso uso ed abuso, attribuendogli contenuti che non ha ed impiegandolo per lo più come sinonimo di geografia politica, relazioni internazionali, geostrategia ecc.
In realtà la geopolitica è un’altra cosa; ma siccome non è il caso di ripercorrerne la storia, da quando lo svedese Rudolf Kjellén (1848-1922) impiegò questo termine per la prima volta, propongo una definizione che intende sintetizzare quelle fornite dai vari studiosi. La geopolitica può essere considerata come “lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, ove si considerino l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati”[1].
Per quanto grande sia il peso attribuito ai fattori geografici, permane tuttavia il rapporto della geopolitica con la dottrina dello Stato, cosicché viene spontaneo porsi una questione che finora non risulta abbia impegnato la riflessione degli studiosi.
La questione, che inevitabilmente porta l’indagine “tra il sacro e il profano”, è la seguente: è possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”[2]?
In altre parole, è possibile ipotizzare che la geopolitica rappresenti la derivazione secolarizzata di un complesso di concetti teologici connessi a quella che alcuni hanno chiamata la “geografia sacra”[3]? Se così fosse, la geopolitica si troverebbe in una situazione per certi versi analoga non soltanto alla “moderna dottrina dello Stato”, ma anche ad altre scienze moderne (per citare due soli esempi: la chimica e l’astronomia).
Per essere più esplicito, faccio ricorso ad una citazione di René Guénon: “Separando radicalmente le scienze da ogni principio superiore col pretesto di assicurar loro l’indipendenza, la concezione moderna le ha private di ogni significato profondo e perfino di ogni interesse vero dal punto di vista della conoscenza: ed esse son condannate a finire in un vicolo cieco, poiché questa concezione le chiude in un dominio irrimediabilmente limitato”[4] .
Per quanto riguarda in particolare la “geografia sacra”, alla quale – secondo la nostra ipotesi – si ricollegherebbe in qualche modo la geopolitica, è ancora Guénon a fornirci una sintetica indicazione al riguardo.
“Esiste realmente – egli scrive – una ‘geografia sacra’ o tradizionale che i moderni ignorano completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna esser capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà. È per questo – prosegue Guénon – che vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da ‘supporto’ all’azione delle ‘influenze spirituali’, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di certi ‘centri’ tradizionali principali o secondari, di cui gli ‘oracoli’ dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di ‘influenze’ di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”[5].
Per citare un caso specifico, queste considerazioni di Guénon hanno rapporto con la nozione romana del “genius loci”. Oggi questa espressione significa semplicemente l’atmosfera specifica di un luogo, lo spirito del luogo; ma nella religione romana il genius loci è il nume che presiede ad un luogo e lo protegge, tant’è vero che sul territorio dell’Impero c’erano molti altari dedicati ciascuno ad un particolare genius loci. Anzi, non esiste alcun luogo che non abbia il suo genio: “Nullus locus sine genio”, come dice Servio[6] commentando un passo dell’Eneide. Vedendo sbucare dai recessi della terra un serpente che si accosta agli altari, assaggia le sacre offerte e quindi scompare, Enea non capisce se si tratti del genio del luogo o di uno spirito ministro di Anchise (incertus geniumne loci famulumne parentis – esse putet)[7].
Non è detto, dunque, che una traccia della “geografia sacra” non sia individuabile in alcune caratteristiche nozioni geopolitiche, che potrebbero essere perciò considerate, secondo l’indicazione di Schmitt, “concetti teologici secolarizzati”.
Primo caso: il dio Terminus, tutore del limes. La parola limes, che è stata assunta come titolo da una rivista di geopolitica, indicava in origine una linea divisoria tracciata fra le porzioni di terreno assegnate ai coloni; in seguito “il suo valore si allargò a indicare più precisamente una strada militare, fortificata, anzi l’insieme stesso delle fortificazioni distese ai confini dell’impero (limes imperii), là dove questi non erano segnati dal mare o da un fiume, cioè da una ripa”[8].
Supremo tutore del limes era il dio Terminus, quello che secondo Ovidio segna i confini di popoli e città e grandi regni: “Tu populos urbesque et regna ingentia finis”[9]. Attraverso la comparazione dei materiali indoiranici, Georges Dumézil ha mostrato che il nome Terminus corrispondeva in origine ad una caratteristica qualità del dio sovrano adorato dai popoli indoeuropei e che solo in seguito venne applicato ad una divinità autonoma e particolare. Alla fine del periodo regio, quando Tarquinio il Superbo volle sgombrare il Campidoglio dagli altri santuari per erigervi un tempio alla Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva), tutti gli dèi che avevano sede sul colle accettarono di ritirarsi, tranne due: Juventas e Terminus[10]. Se ne dedusse che il popolo romano non sarebbe mai invecchiato e che le sue frontiere non sarebbero mai state violate.
D’altronde la storia di Roma ha inizio proprio con una drammatica affermazione della santità dei confini: il fondatore della Città punisce con la morte il fratello che ha violato il perimetro della Roma Quadrata.
L’episodio fondante del ciclo romano illustra nel migliore dei modi l’affermazione di Carl Schmitt secondo cui il nómos “può essere definito come un muro, poiché anche il muro si basa su localizzazioni sacrali”[11], cosicché la terra, “detta nel linguaggio mitico la madre del diritto (…) reca sul proprio saldo suolo recinzioni e delimitazioni, pietre di confine, mura, case e altri edifici. Qui divengono palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana”[12]. Tutto questo è rappresentato nel modo più efficace dalla struttura della muraglia, anche se nell’epoca del no border ciò può suonare blasfemo.
Il caso paradigmatico è quello del baluardo catecontico che Alessandro Magno, il Bicorne della ierostoria coranica, fa erigere per frenare gli assalti delle orde devastatrici di Gog e Magog, le quali, nel contesto apocalittico che precederà la parusia anticristica, abbatteranno la muraglia e dilagheranno nel nostro mondo.
Secondo caso. Si considerino termini tipici del lessico geopolitico quali Heartland (lett. “territorio cuore”) e pivot area (“area perno”), i quali, riprendendo alcune rappresentazioni d’origine orientale che circolavano negli ambienti della Phabian Society frequentati dal geografo inglese Halford John Mackinder (1861-1947), richiamano in maniera esplicita il simbolismo del cuore ed il simbolismo assiale e ripropongono in qualche modo quell’idea di “Centro del Mondo” che gli antichi rappresentavano attraverso una varietà di simboli, geografici e non geografici.
La scienza delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus “aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre”[13], tuttavia questa idea non è scomparsa insieme con la visione “arcaica” del mondo, ma è sopravvissuta in qualche modo in contesti storico-culturali più recenti.
Basti pensare al fatto che la Cina è chiamata dai suoi abitanti Chong-kuo, ossia “Paese del Centro”, e che sono parecchi i paesi e le regioni che si autopercepiscono come centrali rispetto allo spazio geografico al quale appartengono, tant’è vero che abbiamo un’Europa centrale o un’Europa di Mezzo (Mitteleuropa, Zwischeneuropa), un’Italia centrale, un’Asia centrale, un’America centrale ed anche una Repubblica Centroafricana.
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D’altra parte, fra i termini geografici ve ne sono alcuni che le culture tradizionali hanno utilizzato per designare realtà appartenenti alla sfera spirituale.
È il caso, ad esempio, dei punti cardinali.
La civiltà iranica, sia nella fase mazdaica sia in quella islamica, ha sviluppato una geografia che Henry Corbin chiama “immaginale”, che non vuol dire affatto “immaginaria”, ossia “fantasiosa” e “irreale”. Il “mondo immaginale”, invece, è quello che “segna l’articolazione tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile”[14].
Ebbene, in questa geografia “immaginale”, l’uomo e il suo mondo sono attratti magneticamente dal Nord, poiché è a Nord che si trova la montagna di Qâf, sulla cui cima inizia il mondo di Hûrqalyâ, la “terra celeste”.
‘Abdul-Karîm al-Gîlî (767/1366 – 805/1403), continuatore dell’insegnamento metafisico di Ibn ‘Arabî, nel Kitâb al-insân al-kâmil parla di una regione dell’estremo Nord in cui soggiornano gli “uomini dell’Invisibile” (rigiâl al-ghayb), sui quali regna il misterioso Khidr. La luce che illumina questa regione “è quella del ‘sole di mezzanotte’, poiché la preghiera della sera vi è sconosciuta, sorgendo l’alba prima che il sole tramonti. E senza dubbio – commenta Henry Corbin – si dovrebbero considerare qui tutti i simboli che convergono verso il paradiso del Nord, la Terra di luce delle anime e il castello del Graal”[15].
Ancora in relazione al simbolismo dei punti cardinali, è possibile menzionare un versetto coranico[16] in cui Allah è chiamato “Signore dei due Orienti e dei due Occidenti” (Rabbu ’l-mashriqayni wa rabbu ’l-maghribayni). Secondo la gnosi sciita, il versetto allude a quattro orizzonti metafisici, quattro realtà archetipiche divine (haqâ’iq muta‘assila ilâhîya); due di esse, l’Intelligenza universale e l’Anima universale, si trovano ad oriente della Realtà vera (mashriq al-haqîqat), “perché – scrive Qâzî Sa‘îd Qommî – appartengono entrambe all’orizzonte del mondo delle pure Luci e sono l’Oriente dove sorge il Sole dei segreti (shams al-asrâr)”. Le altre due realtà archetipiche si trovano ad occidente, e sono la Natura Universale e la Materia universale. “La Luce – spiega Henry Corbin – si leva con le prime due (l’Intelligenza e l’Anima), che costituiscono il suo Oriente, il Giorno divino, poi essa declina, tramonta e si nasconde nei due ultimi quarti del ciclo, la Natura e la Materia universale, che sono il suo Occidente, corrispondente alla Notte. I quattro limiti, nel loro insieme, formano il nittemero della cosmogonia. La Luce di un’alba nuova deve sorgere da questa notte, dall’orizzonte occidentale, portando a compimento ‘il tempo oscuro e senso’ (zamân katîf) del nostro mondo”[17].
Nella cosmologia di Avicenna, quale essa traspare dal Racconto di Hayy ibn Yaqzân di Ibn Tufayl (noto al Medioevo cristiano col nome Abubacer), lo schema del mondo “divide la totalità dell’essere pensabile in un Occidente cosmico e in un Oriente cosmico”[18]. Ma questo Oriente cosmico non deve essere cercato nell’Est delle nostre carte geografiche; esso è il polo celeste, il centro di ogni orientamento, e deve essere cercato nella direzione del Nord cosmico, dove si trova la Terra di Luce.
L’Occidente dello schema di Ibn Tufayl, spiega ancora Corbin, “rappresenta il mondo materiale sensibile, ed è duplice: vi è il ‘clima’ [ossia la zona] della Materia terrestre sublunare, quello della nostra Terra materiale, soggetto alla generazione e alla dissoluzione; e vi è il ‘clima’ [la zona] della Materia celeste, quello delle Sfere costituite d’una sostanza eterica, diafana e incorruttibile, ma che tuttavia rientra ancora nella fisica”[19].
Se la gnosi islamica vede nell’Occidente il simbolo di una Materia che non è solo terrestre, ma acquisisce nel mondo celeste una sua dimensione più “sottile”, il Poema sacro di Dante non sembra invece fare distinzioni, in quanto assegna a questo punto cardinale una valenza tenebrosa e mortale.
Infatti nel canto XXVI dell’Inferno, dove peraltro viene confermata la santità dei confini collocati da Ercole sul limite occidentale del Mediterraneo “acciò che l’uom più oltre non si metta”[20], l’Ulisse dantesco rievoca in questo modo il discorso con cui egli esortò i propri compagni ad affrontare il “folle volo”: “O frati, dissi, che per cento milia – perigli siete giunti all’occidente (…)”[21].
Se ci sforziamo di intravedere qualcosa di quel senso allegorico che, per espressa dichiarazione di Dante, si trova celato dietro il senso letterale “delli versi strani”, possiamo supporre che l’Occidente evocato da Ulisse nella sua “orazion picciola” non si esaurisca nell’accezione spaziale e geografica del termine, ma simboleggi la prossimità a quel limite che l’uomo non deve violare.
La parola “Occidente” trae origine dal participio latino del verbo occĭdo, che, essendo composto di ob e di cado, significa “cadere”, “morire”. Sol occĭdens è dunque il “Sole che tramonta”, il “Sole che muore”, e designa il luogo in cui ha inizio il regno della tenebra e della morte. Lì termina il cosmo degli uomini e inizia quello che Dante chiama il “mondo sanza gente”.
Non è escluso che l’Occidente dantesco, data la polivalenza semantica del simbolismo, indichi anche una fase temporale, cosicché un senso ulteriore del discorso di Ulisse sarebbe questo: i suoi compagni, in quanto “vecchi e tardi”, sono giunti “a l’occidente” della vita, cioè in prossimità della morte. E siccome essi rappresentano la nostra umanità, l’umanità europea, come non intendere, simultaneamente, che l’Europa doveva arrivare – e vi sarebbe effettivamente arrivata proprio al tempo di Dante, agli inizi del Trecento – in prossimità di quella fase storico-culturale che, secondo René Guénon, “ha rappresentato in realtà la morte di molte cose”?
D’altronde l’Occidente, il luogo della tenebra, è anche un simbolo di quello che Martin Heidegger ha chiamato “l’oscuramento del mondo”. “Mondo” – spiega lo stesso Heidegger – “si deve sempre intendere in senso spirituale”, sicché “l’oscuramento del mondo implica un depotenziamento dello spirito”. E la situazione dell’Europa, prosegue Heidegger, “risulta tanto più fatale e senza rimedio in quanto il depotenziamento dello spirito proviene da lei stessa”. Secondo Heidegger, l’oscuramento del mondo, “anche se è stato preparato in passato, si è definitivamente verificato a partire dalla condizione spirituale della prima metà del secolo XIX”, cioè col trionfo del razionalismo contemporaneo, del materialismo, dell’individualismo liberale.
D’altra parte, questo oscuramento del mondo è proceduto di pari passo con quella che Serge Latouche ha chiamata “l’occidentalizzazione del mondo”.
L’inferno, nel fondo del quale è finito quell’Ulisse dantesco che lasciò l’Europa per inoltrarsi nella tenebra occidentale, è un Occidente perenne (legge del contrappasso!), perché la luce non vi splende mai.
Dante esce da questa eterna tenebra occidentale e infernale grazie alla guida di Virgilio, il poeta dell’Impero; il poeta di un Impero che, come è detto esplicitamente in Paradiso, VI, 4-6, è per la sua stessa origine legato allo spazio europeo e mediterraneo: “cento e cent’anni e più l’uccel di Dio – ne lo stremo d’Europa si ritenne, – vicino a’ monti de’ quai prima uscìo”. È infatti il caso di ricordare che, secondo Dante, l’Aquila imperiale (“l’uccel di Dio”) ebbe i suoi natali “ne lo stremo d’Europa”, cioè nell’odierna Anatolia, là dove sorgeva Troia, patria di Enea, antenato di Romolo.
D’altronde era originaria della riva orientale del Mediterraneo anche Europa, la fanciulla che fu amata da Zeus e che diede il suo nome al nostro subcontinente (a questa “penisoletta avanzata dell’Asia”, sein vorgeschobenes Halbinselchen Europa, per dirla con Nietzsche). Ciò potrebbe indurci a riflettere sul fatto che per i Greci e per i Romani, e poi ancora per gli uomini del Medioevo, l’Europa si estendeva verso oriente molto più che non nell’età moderna e in quella contemporanea; ma questo sarebbe un altro discorso.
Si dovrebbe invece porre questa domanda: chi indicherà all’Europa la strada per uscire dall’Occidente e tornare “a riveder le stelle”? La prima cosa da fare, a tal fine, è operare un chiarimento concettuale. Dobbiamo cioè ristabilire i veri termini del rapporto che intercorre tra l’Europa e l’Occidente, rifiutando come falsa una sinonimia che è stata accettata dagli Europei nella maniera più acritica e supina.
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Come si vede, il discorso sui significati dei punti cardinali ci porta lontano. Ma oltre ai punti cardinali ci sono altri termini geografici che si applicano a realtà appartenenti all’ambito spirituale: ad esempio, il termine polo, che nel lessico dell’esoterismo islamico indica il vertice della gerarchia iniziatica (al-qutb); o il termine istmo, che nella versione araba (al-barzakh) indica quel mondo intermedio – situato oltre il divenire e la causalità storica – al quale si riferisce anche l’espressione coranica “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn), la “confluenza, cioè, del mondo delle Idee pure col mondo degli oggetti sensibili”[22].
Infine, come il nome di Europa, così pure il concetto di Eurasia può essere assegnato alla categoria schmittiana dei “concetti teologici secolarizzati”. Da una parte, infatti, la cosmologia indù e buddhista rappresenta l’Asia e l’Europa come un’unica grande isola (dvîpa) che ruota intorno all’asse della montagna cosmica, il monte Mêru; dall’altra, il più antico testo teologico dei Greci, la Teogonia esiodea, menziona “Europa (…) ed Asia”[23] come due sorelle, entrambe figlie di Oceano e di Teti, cosicché esse, secondo Esiodo, appartengono alla “sacra stirpe di figlie (thygatéron hieròn génos) che sulla terra – allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo – e coi Fiumi: questa sorte esse hanno da Zeus”[24].
L’intima parentela dell’Asia con l’Europa è proclamata anche dal teologo della tragedia, Eschilo, il quale nella parodo dei Persiani ci presenta la Persia e la Grecia come due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe (kasignéta génous tautoû)”[25], mostrandoci “gli assolutamente distinti (i Due che, in Erodoto, non possono non muoversi guerra) come alla radice inseparabili”[26]. Questo è il commento di Massimo Cacciari, al quale l’immagine eschilea, rappresentativa della radicale connessione di Europa e di Asia, ha fornito lo spunto per concepire il progetto di una “geofilosofia dell’Europa”.
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Se è vero che a volte nella geopolitica si possono cogliere alcune remote risonanze di motivi e di nozioni appartenenti al simbolismo geografico caratteristico delle culture religiose, è anche vero che il fattore religioso riveste una notevole importanza tra gli oggetti dell’analisi geopolitica.
In un numero della rivista “Eurasia” (n. 3/2014) dedicato alla “geopolitica delle religioni” si è cercato di mostrare come in diverse zone della terra il fattore religioso costituisca, tra l’altro, un imprescindibile parametro della geopolitica, specialmente nel caso di alcune odierne aree di crisi e di conflitto.
Che significa “geopolitica delle religioni”?
La geopolitica come metodo d’indagine non si limita a lavorare sulle relazioni internazionali e sui fatti militari. Tra i fattori che la geopolitica si sforza di identificare e comprendere, bisogna includere anche le manifestazioni sociopolitiche determinate dal fattore religioso.
“In effetti, – scrive il geopolitico francese François Thual – sebbene tutti concordino sul fatto che le religioni sono un fattore non trascurabile delle relazioni internazionali, al di là di questa dichiarazione di principio ci si accontenta, in generale, di relegare il fatto religioso nella sua dimensione geopolitica a un ruolo superficiale e secondario”[27]. Invece, ribadisce Thual, “La religione non è un fattore secondario delle relazioni internazionali e non è nemmeno una sovrastruttura della geopolitica”[28].
Nell’Ottocento – ed ancora nella prima metà del Novecento – l’intelligencija laicista dell’Occidente aveva previsto che, realizzandosi “le magnifiche sorti e progressive”, la religione sarebbe inevitabilmente scomparsa per effetto della modernizzazione economica e sociale; ma la seconda metà del XX secolo si è incaricata di deludere una tale aspettativa.
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, infatti, il mondo ha assistito a quell’evento epocale che è stata la rivoluzione islamica in Iran ed al più esteso fenomeno del cosiddetto “risveglio islamico”.
Tra gli anni Ottanta e i Novanta si è potuto constatare il peso del sentimento cattolico in Polonia, mentre nei Balcani è riemersa la coscienza dell’identità comunitaria su base confessionale (ortodossa, musulmana ed anche cattolica).
Quindi, benché la modernizzazione abbia raggiunto dimensioni mondiali, diverse aree del pianeta sono state interessate da un fenomeno di ripresa religiosa che da un islamologo francese è stato definito enfaticamente come “la revanche de Dieu”, “la rivincita di Dio”[29] e che ha indotto alcuni osservatori a parlare addirittura di “desecolarizzazione del mondo”[30].
Le implicazioni geopolitiche di questo fenomeno divengono evidenti allorché si consideri che in genere l’appartenenza religiosa contribuisce in maniera decisiva a rafforzare il senso di identità di un popolo o di una comunità di popoli o perfino, in certi casi, a riconfigurarne l’identità stessa.
Nel mondo musulmano, per esempio, in momenti di emergenza si è manifestata spesso la tendenza (cito un orientalista, Bernard Lewis) “a individuare la propria fonte principale di identità e di fedeltà nella comunità religiosa, cioè in un’identità definita non da criteri etnici o geografici, ma dall’Islam”.
In India, per citare le parole di uno studioso indiano, “una nuova identità indù è in via di costituzione come risposta alle tensioni ed all’alienazione create dalla modernizzazione”[31].
In Russia, come osservava già all’inizio degli anni Novanta un’analista statunitense, la rinascita religiosa è il prodotto del desiderio di “trovare un’identità che può essere offerta soltanto dalla Chiesa ortodossa, unico legame ancora non reciso con il passato millenario della nazione”[32].
Gli studiosi di geopolitica, insomma, hanno dovuto prendere atto dell’aumentato peso geopolitico delle religioni, le quali per certi versi hanno sostituito le ideologie del mondo bipolare.
Le religioni, scriveva una ventina d’anni fa un geopolitico italiano, il generale Carlo Jean, “svolgono una funzione in taluni casi unificatrice e di identificazione collettiva, in rafforzamento di quella nazionale, come in Polonia, ma in altri divisiva, come in Bosnia o in Cecoslovacchia e come potrebbe capitare in Ucraina e nello stesso Occidente fra i Paesi protestanti e quelli cattolici, fra questi ultimi due e quelli ortodossi, nonché fra la Cristianità e l’Islam, fra l’Islam e l’Induismo, e così via”[33].
Per quanto riguarda in particolare i Paesi cattolici come l’Italia, il generale Jean indicava l’importanza che avrebbe avuta la dottrina della Chiesa cattolica in relazione ad un fenomeno quale l’immigrazione.
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Oggi il fattore religioso riconferma il suo aspetto di parametro fondamentale della geopolitica in quella vasta area di crisi che è la porzione di mondo musulmano corrispondente al Nordafrica ed al Vicino Oriente.
In tutta questa area è in atto un conflitto che è, in primo luogo, una sorta di “guerra civile” intraislamica. Si tratta di un conflitto che contrappone all’Islam tradizionale ed ortodosso, sia sunnita sia sciita, un fenomeno diffuso nello spazio geografico e variegato nei suoi aspetti, definito volta a volta mediante etichette quali “integralismo”, “fondamentalismo”, “radicalismo islamico”, “Islam politico”, “gihadismo”, “takfirismo”.
L’aspetto più appariscente di tutto questo fenomeno consiste nel movimento armato inizialmente noto sotto gli acronimi ISIL ed ISIS, quindi designato come “Stato Islamico”, un movimento che ha dato vita ad un grottesco e caricaturale pseudocaliffato, ispirato a un’ideologia dalle radici palesemente eterodosse e settarie.
L’esistenza del sedicente “Stato Islamico” e di tutta la galassia dei movimenti analoghi costituisce un oggetto tipico della “geopolitica delle religioni”. Per comprendere il fenomeno sarà perciò necessario combinare i criteri della geopolitica con quelli della storia delle religioni e, in particolare, dell’islamologia.
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In chiusura di un lungo capitolo dedicato al rapporto fra l’Islam e l’Occidente, Samuel Huntington colloca questa frase, che merita di essere letta con un’attenzione maggiore di quella che finora le è stata riservata: “Il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’Islam in quanto tale”[34].
Secondo l’ideologo statunitense, l’Islam in quanto tale è un nemico strategico dell’Occidente, poiché è il suo antagonista in un conflitto di fondo, che non nasce tanto da controversie territoriali, quanto da un confronto tra due visioni del mondo: una antropocentrica e l’altra teocentrica; una basata sui diritti umani e l’altra sui diritti di Dio.
Ma la frase di Huntington non si limita a designare il nemico strategico; da essa è anche possibile dedurre un suggerimento circa la scelta di un alleato tattico: e questo alleato tattico è il fondamentalismo islamico.
È vero che nelle pagine dello Scontro delle civiltà l’idea di utilizzare il fondamentalismo islamico contro l’Islam non viene sviluppata né si trova formulata in una forma più esplicita; tuttavia nel 1996, quando Huntington pubblicò The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, una tattica di questo genere (cioè la manipolazione di movimenti fondamentalisti da parte della CIA) era già stata inaugurata da un pezzo: ed era stata inaugurata ben prima che la CIA armasse i gruppi della guerriglia antisovietica in Afghanistan.
Questa tattica risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono il loro sostegno al movimento dei Fratelli Musulmani.
L’uso strumentale dei movimenti fondamentalisti e settari funzionali alla strategia atlantica non terminò col ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan.
Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti armati in Asia centrale, l’intervento occidentale a favore delle bande sovversive in Libia contro il governo di Tripoli e dei cosiddetti “ribelli” in Siria contro il governo di Damasco sono gli episodi di una guerra contro l’Eurasia, nella quale gli USA e i loro alleati si sono avvalsi della collaborazione fornita da gruppi di ispirazione wahhabita e salafita.
Il fondatore del movimento fondamentalista tunisino An-Nahda, Rachid Ghannouchi, che nel 1991 ricevette gli elogi del governo di George Bush per l’efficace ruolo da lui svolto nella mediazione tra le fazioni afghane antisovietiche, ha cercato di giustificare il collaborazionismo filoamericano di An-Nahda (partito rimasto nella stanza dei bottoni dall’ottobre 2011 al gennaio 2014) abbozzando un quadro pressoché idilliaco delle relazioni tra gli USA e il mondo islamico.
A un giornalista del “Figaro” che gli chiedeva se gli americani gli sembrassero più concilianti degli Europei Ghannouchi rispose di sì, perché, disse, “non esiste un passato coloniale tra i paesi musulmani e l’America; niente Crociate, niente guerra, niente storia”; ed alla rievocazione della lotta comune di americani e fondamentalisti contro il nemico bolscevico aggiunse la menzione del contributo dato dall’Inghilterra[35].
La tendenza rappresentata da Rachid Ghannouchi, scrive un orientalista italiano, è quella che “si richiama alla nobile tradizione salafita di Muhammad ‘Abduh e che ha avuto una versione più moderna nei Fratelli Musulmani”[36].
Viene chiamata salafita la corrente riformista che, richiamandosi ai “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn) vissuti ai primordi dell’Islam, fa piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei secoli.
I capostipiti del salafismo sono il persiano Jamâl ad-Dîn al-Afghânî (1838-1897) e i suoi discepoli, i più importanti dei quali furono appunto l’egiziano Muhammad ‘Abduh (1849-1905) e il siriano Rashîd Ridà (1865-1935), rappresentante principale del modernismo islamico.
Al-Afghânî, che nel 1883 fondò l’Associazione dei Salafiyya, nel 1878 era stato iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Egli fece entrare nell’organizzazione liberomuratoria gli intellettuali del suo entourage, tra cui Muhammad ‘Abduh, il quale, dopo aver ricoperto una serie di importanti cariche, nel 1899 diventò Muftì dell’Egitto col beneplacito degl’Inglesi.
“Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”[37]: questo l’esplicito riconoscimento dell’azione di Muhammad ‘Abduh e dell’indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) che venne rilasciato da Lord Cromer (1841-1917), uno dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano.
Infatti, mentre Ahmad Khan asseriva che “il dominio britannico in India è la cosa più bella che il mondo abbia mai visto”[38] ed in una sua fatwa affermava che “non è lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettano la religione islamica e consentono ai musulmani di praticare il loro culto”[39], Muhammad ‘Abduh trasmetteva all’ambiente islamico le idee razionaliste e scientiste dell’Occidente contemporaneo e sosteneva la necessità di rivedere e correggere la dottrina tradizionale sottoponendola al giudizio della ragione e accogliendo gli apporti scientifici e culturali del pensiero moderno.
Dopo Muhammad ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashîd Ridà, che in seguito alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito islamico progressista” in grado di dar vita ad un nuovo califfato.
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Intanto, nella penisola araba prendeva forma il Regno Arabo Saudita, la cui ideologia era costituita da un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.
La corrente wahhabita trae nome da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhâb (1703-1792), un arabo del Nagd seguace di un giurista letteralista vissuto quattro secoli prima, Ibn Taymiyya (1263-1328), condannato più volte per le sue vedute eterodosse.
Seguendone le orme, Ibn ‘Abd al-Wahhâb e i suoi partigiani bollarono come manifestazioni di politeismo la fede nell’intercessione dei profeti e dei santi e tutti quegli atti che, a loro giudizio, equivalessero a ritenere partecipe dell’onnipotenza e del volere divino un essere umano o un’altra creatura; perciò considerarono politeisti, con tutte le conseguenze del caso, anche pii musulmani che pregavano accanto alle tombe dei santi.
I seguaci di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhâb attaccarono i centri dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari; impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta; misero al bando le confraternite sufiche e i loro riti; taglieggiarono i pellegrini e poi sospesero il Pellegrinaggio; emanarono le proibizioni più strampalate (ad esempio quelle contro il caffè e contro il fumo, equiparati alle bevande inebrianti).
Finalmente sconfitti dall’esercito che il sovrano egiziano aveva inviato contro di loro per esortazione della Sublime Porta, i wahhabiti per un secolo impegnarono le loro energie nelle lotte intestine, finché Ibn Sa‘ûd (1882-1953) risollevò le sorti della setta.
Patrocinato dalla Gran Bretagna, che, unico Stato al mondo, nel 1915 instaurò relazioni ufficiali con lui esercitando una sorta di protettorato sul Sultanato del Nagd, Ibn Sa‘ûd riuscì ad occupare Mecca nel 1924 e Medina nel 1925 proclamandosi Guardiano dei Luoghi Santi dell’Islam. Diventò così “Re del Higiaz e del Nagd e sue dipendenze”, secondo il titolo che gli venne riconosciuto nel Trattato di Gedda del 1927, stipulato con la prima potenza europea che riconobbe la nuova formazione statale wahhabita: la Gran Bretagna.
Il consigliere più ascoltato di Ibn Sa‘ûd fu l’inglese Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), l’organizzatore della rivolta antiottomana, il quale caldeggiò presso Winston Churchill, Giorgio V, il barone Rothschild e Chaim Weizmann il progetto di una monarchia saudita che, usurpando la custodia dei Luoghi Santi tradizionalmente assegnata alla dinastia hascemita, unificasse la penisola araba e controllasse per conto dell’Inghilterra la via marittima Suez-Aden-Bombay.
Alla fine del secondo conflitto mondiale, nel quale l’Arabia Saudita mantenne una neutralità filoinglese, al patrocinio britannico si sarebbe aggiunto e poi sostituito quello americano. Un evento simbolico in tal senso fu l’incontro avvenuto il 1 marzo 1945 nel Canale di Suez, a bordo della Quincy, tra il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt, di ritorno dalla conferenza di Jalta, e il sovrano wahhabita ‘Abd al-‘Azîz Ibn Sa’ûd.
Sarà utile ricordare che nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in concessione alla Standard Oil Company of California il monopolio dello sfruttamento petrolifero, mentre nel 1934 la compagnia americana Saudi Arabian Mining Syndicate aveva ottenuto il monopolio della ricerca e dell’estrazione dell’oro.
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La famiglia dei Sa‘ud avvertì l’esigenza di disporre di una “internazionale” che le consentisse di estendere la propria influenza egemonica nel mondo islamico, al fine di contrastare la diffusione del panarabismo nasseriano, del nazionalsocialismo baathista e successivamente – dopo il rientro dell’Imam Khomeini in Iran – della rivoluzione islamica.
L’organizzazione dei Fratelli Musulmani mise a disposizione della politica di Riyâd un movimento militante che, a sua volta, trasse valido sostegno dai cospicui finanziamenti sauditi.
D’altronde la sinergia tra la monarchia wahhabita e il movimento fondato nel 1928 da Hassan al-Banna (1906-1949) si basa su un terreno dottrinale affine, poiché i Fratelli Musulmani sono gli “eredi diretti, anche se non sempre rigorosamente fedeli, della salafiyyah di Muhammad ‘Abduh”[40].
Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna, così interpreta il pensiero del fondatore dell’organizzazione: “Come tutti i riformisti che l’hanno preceduto, Hassan al-Banna non ha mai demonizzato l’Occidente. (…) L’Occidente ha permesso all’umanità di fare grandi passi in avanti e ciò è avvenuto a partire dal Rinascimento, quando è iniziato un vasto processo di secolarizzazione”[41]. L’intellettuale riformista ricorda che il nonno, maestro di scuola, si ispirava alle più moderne teorie pedagogiche occidentali e riporta da un suo scritto un brano eloquente: “Dobbiamo ispirarci alle scuole occidentali, ai loro programmi (…) Dobbiamo anche prendere dalle scuole occidentali e dai loro programmi il costante interesse all’educazione moderna”[42].
Con la cosiddetta “Primavera araba”, si è manifestata la disponibilità dei Fratelli Musulmani ad accogliere quei capisaldi ideologici della cultura politica occidentale che Huntington indicava come termini fondamentali di contrasto con l’Islam.
In Libia, in Tunisia, in Egitto l’organizzazione dei Fratelli Musulmani ha goduto infatti del patrocinio statunitense.
In Egitto, il partito Libertà e Giustizia, costituito il 30 aprile 2011 per iniziativa della Fratellanza e poi messo fuori legge dal generale ‘Abd el-Fattâh al-Sîsî, si richiamava ai “diritti umani”, propugnava la democrazia, appoggiava una gestione capitalistica dell’economia, e non era nemmeno contrario ad accettare prestiti dal Fondo Monetario Internazionale. Il presidente del partito Libertà e Giustizia, Muhammad Morsi (n. 1951), diventato presidente dell’Egitto dal giugno 2012 al luglio 2013, aveva studiato negli Stati Uniti, dove aveva anche lavorato come assistente universitario alla California State University; due dei suoi cinque figli erano cittadini statunitensi. Diventato presidente, Morsi dichiarò che l’Egitto avrebbe rispettato tutti i trattati stipulati con altri paesi (quindi anche con lo Stato ebraico); fece in Arabia Saudita la sua prima visita ufficiale all’estero e dichiarò che intendeva rafforzare le relazioni con Riyâd; proclamò “dovere etico” il sostegno al movimento armato di opposizione che si era ribellato al governo di Damasco.
Considerata da una prospettiva geopolitica, la “Primavera araba” può essere inserita nello scenario disegnato dall’americano Nicholas J. Spykman (1893-1943), del quale bisogna ricordare la celebre formula: “Chi controlla il territorio costiero dell’Eurasia [Rimland] governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo”[43]. Spykman suggerisce perciò agli Stati Uniti di concentrare il loro impegno sul Rimland, quella lunga fascia semicircolare che dalle coste atlantiche dell’Europa fino al Giappone abbraccia – ad ovest, a sud e ad est – il “territorio centrale” dell’Eurasia, il mackinderiano Heartland (la “terra cuore”).
Siccome le coste meridionali e orientali del Mediterraneo sono un segmento del Rimland, Spykman ritiene necessario che esse vengano mantenute in uno stato di perenne disunione e instabilità. Qualora tale regione si unificasse ed instaurasse con l’Europa un rapporto di solidarietà, il predominio statunitense nel Mediterraneo verrebbe messo a serio rischio. La strategia statunitense richiede perciò che l’area mediterranea venga balcanizzata e destabilizzata.
Oggi, anche concedendo che i movimenti di protesta e di eversione nel Nordafrica e nel Vicino Oriente abbiano avuto un’origine endogena e un’esplosione imprevista, non si può non constatare che gli Stati Uniti, rappresentati dal loro Presidente Barack Obama, dopo alcune iniziali esitazioni del loro Presidente, li hanno guardati con simpatia, li hanno patrocinati e sostenuti.
Le organizzazioni non governative e le varie associazioni dirittumaniste sostenute dalla CIA, dal Dipartimento di Stato e da poteri finanziari internazionali hanno intensificato le loro attività nella regione, in conformità con la raccomandazione che fin dal 1993 Samuel Huntington aveva rivolta al governo americano: allacciare stretti legami con tutti coloro che, all’interno del mondo islamico, difendono i valori e soprattutto gl’interessi occidentali.
Lo stesso “New York Times” ha riconosciuto che “alcuni movimenti e capi politici direttamente impegnati nelle rivolte del 2011 nel Nordafrica e in Medio Oriente (…) hanno ricevuto addestramento e finanziamenti dall’International Republican Institute, dal National Democratic Institute e dalla Freedom House”[44].
Quest’ultima organizzazione, in particolare, già nel 2010 aveva accolto negli USA un gruppo di attivisti egiziani e tunisini, per insegnar loro a “trarre beneficio dalle opportunità della rete attraverso l’interazione con Washington, le organizzazioni internazionali e i media”[45].
Anche il National Endowment for Democracy ha comunicato ufficialmente, tramite il suo sito informatico[46], di aver versato nel 2010 più di un milione e mezzo di dollari ad organizzazioni egiziane impegnate nella difesa dei “diritti umani” e nella promozione dei “valori democratici”.
Ai finanziamenti del National Endowment for Democracy e di altri enti statali americani si sono aggiunti i fondi stanziati dalla Open Society Foundation di George Soros, che nel 2010 ha finanziato organizzazioni e movimenti in tutto il mondo arabo e in particolare in Egitto e in Tunisia. Se poi si risale al 2009 e ci si limita a considerare l’Egitto, il bilancio dei fondi dell’USAID destinati alle organizzazioni democratiche e dirittumaniste ammonta complessivamente a 62.334.187 dollari[47].
Una cifra enorme, che in Egitto è stata superata soltanto dai cento milioni di dollari elargiti dall’Emiro del Qatar ai Fratelli Musulmani[48]. Le reti eversive finanziate dagli USA e i loro alleati hanno rovesciato i governi della Tunisia e dell’Egitto. Quanto alla Libia, i gruppi eversivi locali (Fratelli Musulmani, Al-Qaida e residui della Senussia filobritannica) hanno collaborato con gli aggressori occidentali per abbattere Gheddafi e realizzare lo scenario che il geopolitico François Thual aveva paventato in un suo libro del 2002 (da me tradotto e pubblicato in italiano nel 2008 dalle Edizioni all’insegna del Veltro): “sul tracciato delle vecchie reti senussite, – scriveva Thual – l’agitazione islamista potrebbe provocare l’esplosione di questo paese artificiale e recente. Nella Cirenaica si concentrano le ricchezze petrolifere; e il regime di Gheddafi irrita certe capitali occidentali che non vedrebbero male una divisione della Libia”[49].
Infine, distruggendo la Libia, gli esecutori europei della strategia statunitense del “caos creativo” hanno aperto un varco attraverso cui milioni di africani si riversano sul territorio europeo.
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Possiamo concludere osservando che l’islamologia occidentale non ha prestato la giusta attenzione ad un fenomeno così gravido di conseguenze come quello dei movimenti eterodossi e settari generati dal cosiddetto “riformismo islamico”.
Solo recentemente, con la comparsa del cosiddetto “Stato Islamico” e col verificarsi di attentati terroristi in Europa, è iniziata una timida riflessione intorno a realtà che esercitano un enorme peso sociologico e geopolitico sugli equilibri regionali e sulla stabilità interna degli Stati, musulmani e non musulmani.
Per riassumere sinteticamente, ci troviamo di fronte ad un fenomeno di sovversione che, in maniera solo apparentemente paradossale, rivela la propria compatibilità con la globalizzazione mondialista.
L’ideologia mondialista, che persegue la conversione del genere umano all’idolatria del Mercato, e quindi lo smembramento delle nazioni, la dislocazione dei popoli, la riduzione delle comunità ad un pulviscolo di consumatori anonimi e senza identità, solo apparentemente si situa agli antipodi del virulento settarismo eterodosso che abbiamo cercato di descrivere.
Sarebbe opportuno perciò, anzi sarebbe molto urgente, che il fenomeno del takfirismo (o del gihadismo, se si preferisce chiamarlo in questo modo) venisse preso in considerazione nelle sue vere dimensioni ideologiche e nei suoi rapporti palesi ed occulti con le centrali che lo ispirano e lo alimentano.
NOTE
[1] Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma 2011.
[2] Carl Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, trad. it. di P. Schiera, in: C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.
[3] Jean Richer, Géographie sacrée du monde grec, Hachette, Paris 1967; Idem, Géographie sacrée dans le monde romain, Trédaniel, Paris 1985.
[4] René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni dell’Ascia, Roma 1953, p. 66.
[5] René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 162.
[6] Comm. In Verg. Aen. 5, 95.
[7] Aen., V, 95-96.
[8] W. Kubitschek, Limes, in Enciclopedia Italiana, 1934.
[9] Ovidio, Fasti, II, 659.
[10] Dion. Hal., II, 74. “Juventas Terminusque maximo gaudio patrum vestrorum moveri se non passi” (Liv., V, 54, 7; cfr. I, 55, 3 s.). “nempe deorum – Cuncta Jovi cessit turba, locumque dedit. – Terminus, ut veteres memorant, inventus in aede, – Restitit et magno cum Jove templa tenet” (Ov., Fasti, II, 667-670).
[11] C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, p. 59.
[12] C. Schmitt, op. cit., p. 19.
[13] Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.
[14] Henry Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, p. 95.
[15] Henry Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, p. 91.
[16] Cor. 55, 17.
[17] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, pp. 89-90.
[18] Henry Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, p. 94.
[19] Henry Corbin, Corpo spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano 1986, p. 94.
[20] Inf. XXVI, 109.
[21] Inf. XXVI, 112-113.
[22] Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, p. 154. Sul barzakh, cfr. Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, Mimesis, Milano-Udine 209, pp. 97-123.
[23] Esiodo, Teogonia, 357-359.
[24] Esiodo, Teogonia, 346-348.
[25] Eschilo, Persiani, 185-186. Su questa immagine, cfr. C. Mutti, L’Iran in Europa, “Eurasia”, 1, 2008, pp. 33-34.
[26] Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 19.
[27] François Thual, Geopolitica dell’Ortodossia, Società Editrice Barbarossa, Milano 1995, p. 33.
[28] François Thual, op. cit., p. 109.
[29] Gilles Kepel, La revanche de Dieu, Seuil 1991.
[30] George Weigel, sul “Washington Quarterly” 1991.
[31] Sudhir Kakar, cit. da Huntington.
[32] Suzanne Massie, Back to Future, “Boston Globe” 1993.
[33] C. Jean, Geopolitica, Laterza 1995.
[34] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 319.
[35] “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires )
[36] Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.
[37] Cit. in: Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.
[38] Cit. in: Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2004, p. 65.
[39] Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, cit., p. 23.
[40] Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.
[41] Tariq Ramadan, op. cit., pp. 350.
[42] Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, 19 sett. 1929, cit. in: Tariq Ramadan, op. cit., p. 352.
[43] Nicholas Spykman, The Geography of Peace, Harcourt Brace, New York 1944, p. 43.
[44] U.S. groups Helped Nurture Arab Uprising, “The New York Times”, 15 aprile 2011.
[45] New Generation of Advocates: Empowering Civil Society in Egypt, dal sito di Freedom House (www.freedomhouse.org).
[47] Alfredo Macchi, Rivoluzioni S.p.A., Alpine Studio 2012, p. 282.
[48] Alfredo Macchi, op. cit., p. 208.
[49] François Thual, La planète émiettée. Morceler et lotir: une nouvelle art de dominer, Arléa, Paris 2002, p. 124; ed. it. Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, p. 92.
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