Fonte: http://www.voltairenet.org/article169393.htm


L’operazione militare alleata in Libia segna un importante cambiamento strategico. Washington ha rinunciato ad una guerra di occupazione e ha affidato ai suoi alleati le future operazioni di terra. Thierry Meyssan delinea il nuovo paradigma strategico degli Stati Uniti: la globalizzazione forzata viene interrotta, l’era dei due mondi comincia. [Nella foto: Obama e Robert Gates]

Si dice spesso che i generali non vedano i cambiamenti e preparino la prossima guerra come se dovesse essere simile alla precedente. Questo vale anche per i commentatori politici: interpretano i nuovi eventi, non per quello che sono, ma come se ripetessero quelli che li hanno preceduti.

Quando i movimenti popolari hanno rovesciato Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto, molti hanno pensato di assistere ad una “rivoluzione gelsomino” [1] e a una “rivoluzione dei loti” [2], come nelle rivoluzioni colorate che la CIA e il NED hanno organizzato a catena dopo la fine dell’URSS. Alcuni fatti sembrano dar loro ragione, come la presenza di agitatori serbi al Cairo o la diffusione di materiale di propaganda [3]. Ma la realtà era ben diversa. Queste rivolte erano popolari e Washington ha cercato senza successo di cavalcarle. In definitiva, i tunisini e gli egiziani non aspiravano alla American Way of Life, ma piuttosto a sbarazzarsi dei governi fantoccio manipolati dagli Stati Uniti.

Quando i disordini sono esplosi in Libia, questi stessi commentatori hanno cercato di recuperare il loro ritardo sulla realtà, spiegando che questa volta si trattava di una sollevazione popolare contro il dittatore Gheddafi. Hanno poi accompagnato i loro editoriali dalle dolci bugie presentando il colonnello come un eterno nemico della democrazia occidentale, dimenticando che collaborava attivamente con gli Stati Uniti da otto anni [4].

Eppure, se guardiamo più da vicino, quello che sta accadendo in Libia è la prima riemersione dell’antagonismo storico tra la Cirenaica da un lato, e la Tripolitania e il Fezzan dall’altro. E’ solo in modo secondario che questo conflitto ha preso una piega politica: l’insurrezione s’identifica con i monarchici, presto raggiunti da ogni sorta di gruppi di opposizione (nasseriani, komeinisti, comunisti, islamisti ecc…). In ultima analisi, in nessun momento l’insurrezione si è diffusa in tutto il paese.

Qualsiasi voce che denuncia la fabbricazione e la strumentalizzazione di questo conflitto da parte di un cartello coloniale raccoglie contestazioni. L’opinione della maggioranza afferma che l’intervento militare straniero serve al popolo libico per liberarsi dal suo tiranno, e che gli errori della coalizione non possono essere peggiori del crimine di genocidio.
Tuttavia, la storia ha già dimostrato la fallacia di questo ragionamento. Per esempio, molti iracheni contrari a Saddam Hussein e che hanno accolto come dei salvatori le truppe occidentali dicono che, otto anni e un milione di morti dopo, la vita era migliore nel loro paese al tempo del despota.

È importante sottolineare che l’interpretazione suddetta si basa su una serie di false convinzioni.

Contrariamente alla propaganda occidentale, e a ciò che sembra dar credito la vicinanza cronologica e geografica con la Tunisia e l’Egitto, il popolo libico non s’è sollevato contro il regime di Gheddafi. Ha ancora la legittimazione popolare in Tripolitania e Fezzan, regioni in cui il colonnello aveva distribuito armi alla popolazione per resistere all’avanzata dei ribelli nella Cirenaica e alle potenze straniere.

Contrariamente alla propaganda occidentale e a ciò che sembra dar sostegno alle dichiarazioni furiose del “Fratello Leader” stesso, Gheddafi non ha mai bombardato la propria popolazione civile. Ha usato la forza militare contro il colpo di stato, senza badare alle conseguenze per la popolazione civile. Questa distinzione non è importante per le vittime, ma nel diritto internazionale separa i crimini di guerra dai crimini contro l’umanità.

Infine, contrariamente a ciò che afferma la propaganda occidentale e il romanticismo rivoluzionario da operetta di Bernard Henry Levy, la rivolta in Cirenaica non ha nulla di spontaneo. E’ stata preparata dal DGSE, dal MI6 e dalla CIA. Per formare il Consiglio nazionale di transizione, i francesi si sono appoggiati alle informazioni e ai contatti di Massoud El-Mesmar, ex compagno e confidente di Gheddafi, che disertò nel novembre 2010 e ha ricevuto asilo a Parigi [5]. Per ripristinare la monarchia, gli inglesi hanno riavviato le reti del principe Muhammad al-Sanusi, pretendente al trono del Regno Unito di Libia, attualmente in esilio a Londra, e hanno distribuito dappertutto la bandiera rosso-nero-verde con la mezzaluna e la stella [6]. Gli USA hanno preso il controllo economico e militare rimpatriando gli esiliati libici a Washington, per occupare i ministeri chiave e lo stato maggiore del Consiglio Nazionale di Transizione.

Inoltre, il dibattito sull’opportunità di un intervento internazionale è l’albero che nasconde la foresta. Se vogliamo fare un passo indietro, ci rendiamo conto che la strategia delle potenze occidentali è cambiata. Certo, continuano ad usare ed abusare della retorica della prevenzione dei genocidi e del dovere agli interventi umanitari dei fratelli maggiori, perfino anche il sostegno fraterno ai popoli che lottano per la loro libertà, purché aprano i loro mercati, ma le loro azioni sono diverse.

La “dottrina Obama”

Nel suo discorso alla National Defense University, Obama ha definito alcuni aspetti della sua dottrina strategica sottolineando ciò che la distingue da quella dei suoi predecessori, Bill Clinton e George W. Bush [7].

Ha subito detto: “In un solo mese, gli Stati Uniti sono riusciti con i loro partner internazionali a mobilitare un’ampia coalizione per ottenere un mandato internazionale per proteggere i civili, per frenare l’avanzata di un esercito, per evitare un massacro e per stabilire, con gli alleati e partner, una no-fly zone. Per mettere in prospettiva la velocità della nostra risposta militare e diplomatica, ricordiamoci che nel 1990, quando le popolazioni sono state brutalizzate in Bosnia, c’è voluto più di un anno alla comunità internazionale per intervenire con la potenza aerea per proteggere quei civili. Ci sono voluti solo 31 giorni questa volta“.

Questa rapidità contrasta con il periodo di Bill Clinton. Si spiega in due modi. Da un lato gli Stati Uniti del 2011 hanno un disegno organico, vedremo quale, mentre negli anni ’90 erano esitanti tra il godere del crollo dell’URSS per arricchirsi commercialmente o costruire un impero senza rivali.

D’altra parte, la politica del “reset” (azzeramento) dell’amministrazione Obama, volto a sostituire il confronto con la trattativa, ha parzialmente portato i suoi frutti con la Russia. Benché sia una dei grandi perdenti della guerra economica alla Libia, l’ha accettata in linea di principio – anche se i nazionalisti Vladimir Putin [8] o Vladimir Chamov [9] hanno dei mal di pancia-.

Poi, nello stesso discorso del 28 marzo 2011, Obama ha continuato: “La nostra alleanza più efficace, la NATO, ha preso il comando per l’esecuzione dell’embargo sulle armi e la no-fly zone. La scorsa notte, la NATO ha deciso di prendersi maggiori responsabilità nella protezione dei civili libici. Gli Stati Uniti svolgeranno un ruolo di sostegno (…) – soprattutto in termini di intelligence, supporto logistico, assistenza nella ricerca e soccorso, e del disturbo delle comunicazioni del regime. Grazie a questa transizione verso una coalizione più ampia, basata sulla NATO, i rischi ed i costi di queste operazioni – per le nostre truppe e i nostri contribuenti – saranno notevolmente ridotti“.

Dopo aver messo avanti la Francia e aver finto di esservi trascinata, Washington ha ammesso che ha “coordinato” tutte le operazioni militari fin dall’inizio. Ma ciò per annunciare l’immediato trasferimento di questa responsabilità alla NATO.
In termini di comunicazione interna, è ovvio che il Nobel per la Pace Barack Obama non vuole dare l’immagine di un presidente che guida il suo paese in una terza guerra al mondo musulmano, dopo l’Afghanistan e l’Iraq. Tuttavia, questo problema di pubbliche relazioni non dovrebbe dimenticare l’essenziale: Washington non vuole più essere il poliziotto del mondo, ma intende esercitare una leadership sulle grandi potenze, intervenendo a nome dei loro interessi collettivi e mutualizzandone i costi. In questo contesto, la NATO diventerà la struttura di coordinamento militare d’eccellenza, in cui la Russia, o anche più tardi la Cina, dovrebbero essere coinvolte.

Infine, Obama ha concluso presso la National Defense University: “Ci saranno occasioni in cui la nostra sicurezza non sarà minacciata direttamente, ma dove i nostri interessi e i nostri valori lo saranno. La storia ci mette faccia a faccia con alcune delle sfide che minacciano la nostra umanità e la nostra sicurezza comune – intervenire in caso di calamità naturali, per esempio, o impedire il genocidio e per preservare la pace, la sicurezza regionale e mantenere il flusso del commercio. Questi non sono forse problemi unicamente statunitensi, ma sono importanti per noi. Questi sono problemi che devono essere risolti. E in queste circostanze, noi sappiamo che gli Stati Uniti, come nazione più potente del mondo, saranno spesso chiamati a fornire assistenza.

Barack Obama rompe con il discorso infuocato di George W. Bush che pretendeva di estendere al mondo l’American Way of Life con la forza delle baionette. Mentre ammette di schierare le risorse militari per cause umanitarie od operazioni di mantenimento della pace, non contempla la guerra che per “la sicurezza regionale e mantenere il flusso del commercio“.

Questo merita una spiegazione approfondita.

Il mutamento strategico

Per convenzione o convenienza, gli storici chiamano ogni dottrina strategica intitolandola al presidente che la implementa. In realtà, la dottrina strategica è oggi sviluppata dal Pentagono e non dalla Casa Bianca. Il cambiamento fondamentale non si è verificato con l’ingresso di Barack Obama nello Studio Ovale (gennaio 2009), ma con quello di Robert Gates al Pentagono (dicembre 2006). Gli ultimi due anni della presidenza Bush non uscivano dalla “Dottrina Bush“, ma prefiguravano la “dottrina Obama“. E’ perché ha trionfato che Robert Gates progetta di andare in pensione orgoglioso del lavoro svolto [10].

Per fare capire, distinguerei quindi una “dottrina Rumsfeld” e una “dottrina Gates“.
Nella prima, l’obiettivo è quello di cambiare i regimi politici, uno per uno, in tutto il mondo, finché non sono tutti compatibili con quello degli Stati Uniti. Questo si chiama “democrazia di mercato” essendo in realtà un sistema oligarchico in cui i pseudo-cittadini sono protetti dall’azione arbitraria dello stato e possono scegliere i loro leader, senza essere in grado di scegliere le loro politiche. Questo obiettivo ha portato all’organizzazione delle rivoluzioni colorate come all’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Eppure, dice Barack Obama nello stesso discorso: “Grazie ai sacrifici straordinari delle nostre truppe e alla determinazione dei nostri diplomatici, siamo fiduciosi per il futuro dell’Iraq. Ma il cambiamento di regime ha richiesto otto anni, costando migliaia di vite americane e irachene e quasi mille miliardi di dollari. Non possiamo permettere che ciò accada di nuovo in Libia.

In breve, questo obiettivo di una pax americana, che protegge e domina tutti i popoli della terra, è economicamente irrealizzabile. Al pari dell’idea di convertire l’umanità all’American Way of Life. Un’altra visione imperiale, più realistica, si è gradualmente imposta al Pentagono. E’ stata resa popolare da Thomas PM Barnett nel suo libro The Pentagon’s New Map. War and Peace in the Twenty-First Century (La Nuova Mappa del Pentagono. Guerra e pace nel XXI.mo secolo).

Il mondo futuro sarà diviso in due. Da un lato il centro stabile, costruito intorno agli Stati Uniti dai paesi sviluppati e più o meno democratici. Dall’altro una periferia, lasciata a se stessa, in preda a sottosviluppo e violenza. Il ruolo del Pentagono sarebbe quello di garantire l’accesso del mondo civile che ha bisogno delle ricchezze naturali della periferia, che non sa utilizzarle.

Questa visione presuppone che gli Stati Uniti non siano più in concorrenza con altri paesi sviluppati, ma ne diventino il loro leader nella sicurezza. Sembra possibile con la Russia, da quando il presidente Dmitry Medvedev ha aperto la strada alla cooperazione con la NATO, durante la parata per commemorare la fine della Seconda Guerra Mondiale, e poi al vertice di Lisbona. Questo può essere più complicato con la Cina, la cui nuova dirigenza sembra più nazionalista di quella precedente.

Dividere il mondo in due zone, stabile e caotica, dove la seconda è il serbatoio naturale della prima, solleva ovviamente la questione dei confini. Nel lavoro di Barnett (2004), i Balcani, l’Asia centrale, la maggior parte dell’Africa, le Ande e l’America centrale sono gettate nelle tenebre. Tre stati-membri del G20, di cui uno è anche membro della NATO, sono condannati al caos: Turchia, Arabia Saudita e Indonesia. Questa mappa non è statica e dei ripescaggi restano possibili. Così, l’Arabia Saudita sta guadagnando i suoi galloni schiacciando nel sangue la rivolta in Bahrain.

Dal momento che non è più una questione di occupare paesi, ma solo di mantenere delle aree di sfruttamento e di effettuare incursioni in caso di necessità, il Pentagono deve estendere a tutta la periferia il processo di frammentazione, di “rimodellamento”, iniziato nel “più vasto Medio Oriente” (Greater Middle-East). Lo scopo della guerra non è più lo sfruttamento diretto di un territorio, ma la disintegrazione di ogni possibilità di resistenza. Il Pentagono si sta concentrando sul controllo delle vie marittime e sulle operazioni aeree per esternalizzare il più possibile le operazioni di terra ai suoi alleati. Questo fenomeno è appena iniziato in Africa con la divisione del Sudan e le guerre in Libia e in Costa d’Avorio.

Se, in termini di discorso democratico, il rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi sarebbe un traguardo gratificante, non è né necessario né auspicabile dal punto di vista del Pentagono. Nella “dottrina Gates”, è meglio mantenere un isterico e umiliato Gheddafi nella ridotta tripolitana che una Grande Libia, capace un giorno di resistere di nuovo all’imperialismo.

Naturalmente questa nuova visione strategica non sarà indolore. Ci saranno dei flussi di migranti, che sono sempre più in fuga dall’inferno della periferia per entrare nel paradiso del centro. E ci saranno quegli umanisti incorreggibili i quali pensano che il paradiso degli uni non dovrebbe essere costruito sull’inferno degli altri.

È questo il progetto in gioco in Libia ed è in relazione a esso che ognuno deve essere determinato.


* Thierry Meyssan, analista politico francese, fondatore e presidente del Réseau Voltaire e della conferenza Axis for Peace. Pubblica rubriche settimanali che si occupano di politica estera nella stampa araba e russa.



Fonte Komsomolskaja Pravda (Russia)

[1] «Washington face à la colère du peuple tunisien», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 23 gennaio 2011.

[2] «L’Égypte au bord du sang», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 31 gennaio 2011.

[3] «Le manuel états-unien pour une révolution colorée en Égypte», Réseau Voltaire, 1 marzo 2011.

[4] «Mon album de famille, par Mouammar Kadhafi», Réseau Voltaire, 25 marzo 2011.

[5] «La France préparait depuis novembre le renversement de Kadhafi», Franco Bechis, Réseau Voltaire, 24 marzo 2011.

[6] «Quand flottent sur les places libyennes les drapeaux du roi Idris», Manlio Dinucci, Réseau Voltaire, 1 marzo 2011.

[7] «Allocution à la Nation sur la Libye», Barack Obama, Réseau Voltaire, 28 marzo 2011.

[8] «Remarks on the situation in Libya», Vladimir V. Putin, Réseau Voltaire, 21 marzo 2011.

[9] «L’ambassadeur Chamov accuse Medvedev de trahison en Libye», Réseau Voltaire, 26 marzo 2011.

[10] «Robert Gates sur le départ», Réseau Voltaire, 7 aprile 2011.


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