Molti media occidentali stanno mettendo in campo con una semplificazione imbarazzante i loro argomenti su ciò che sta accadendo nel mondo arabo. Come se all’interno di esso la scelta obbligata, plausibile residuo di una mentalità colonialista, sia necessariamente tra una dittatura, troppo spesso garante degli stessi interessi dell’Occidente, ed il fondamentalismo islamico, non considerando altre opzioni politiche e soprattutto estromettendo dal dibattito la gente, le popolazioni che per troppo tempo hanno visto soffocate le loro istanze e precluso un loro ruolo davvero partecipativo nella società. Con le rivolte dell’ultimo periodo sono i popoli arabi ad aver rimesso prepotentemente sul piatto della bilancia il loro peso, rivendicando diritti, dignità e visibilità politica. La rivolta libica di questi giorni, tuttavia, presenta dei tratti assolutamente distintivi rispetto a quanto successo in Tunisia prima ed Egitto poi. Prima di tutto, stiamo parlando di un Paese di poco più di sei milioni di abitanti – l’Egitto ne conta ottanta milioni con una superficie inferiore – con un reddito pro-capite elevato rispetto ai suoi vicini – con un reddito medio stimabile intorno ai sedicimila euro annui – in virtù delle enormi risorse del Paese su cui torneremo, che ciò nonostante non ha impedito lo stratificarsi di profonde differenze sociali. Il carattere violento della risposta alla rivolta affonda le sue radici nel carattere settario e tribale della “Suprema Repubblica delle Masse”, come il colonnello Gheddafi ha ribattezzato il Paese.
In “un Paese senza istituzioni reali”, come è stato definito da Abd al Muneim al Hawni, rappresentante libico dimissionario presso la Lega Araba, sono le tribù che, in un rapporto dialettico, si confrontano e si immedesimano, a seconda dei periodi storici, con il potere, configurandone i conflitti intestini. La variegata costellazione delle tribù libiche, circa un centinaio, può essere ricondotto a quattro tribù “madri”: i Qadhdhafa (da cui l’occidentalizzazione di Gheddafi), cui appartiene, il colonnello sotto assedio; i Warfalla, cui appartengono un milione di libici; poi abbiamo i Meqarha e gli Zuwayya. Il clan Qadhdhafa, che costituisce lo zoccolo duro dei militari delle forze aeree fedeli al raìs, è accerchiata in sostanza dalle altre tre. In Cirenaica, nella parte orientale del Paese, area storicamente dissidente e culla della resistenza al colonialismo italiano, è da notare l’influenza della tribù dei Misurata, insieme ai Tebu, nomadi del deserto al confine con il Sudan. Entrambe si oppongono al regime. I Warfalla, come già accennato, costituiscono la principale tribù che, già nel 1993, tentò con esiti sfortunati un colpo di Stato contro Gheddafi. Questo clan tribale ha praticamente in mano le forze di terra ed ha sempre palesato, come nel ’93, una certa insofferenza verso il regime. Da ciò deriva con tutta probabilità il contraddittorio atteggiamento delle forze militari libiche che si sono divise quasi subito fin dallo scoppio dei disordini. Gheddafi, fin dal 1969, ha sempre tentato di ridimensionare e limitare il margine di manovra dei vari gruppi tribali, in nome del principio aureo del divide et impera, ma non appena essi hanno trovato un detonatore le singole “ambizioni” sono venute a galla, mettendo in primo piano la prospettiva di una guerra civile. Ma quando si parla di Libia, oltre a tale imprescindibile peculiarità sociale, le preziose risorse presenti nel suo sottosuolo ricoprono un ruolo di importanza capitale, anche in virtù delle ripercussioni nel panorama internazionale e nei rapporti con gli attori esterni. La spartizione della torta libica e del suo petrolio costituisce uno dei fattori-chiave.
In primo luogo ci sono da valutare gli effetti che l’impennata del prezzo del petrolio può avere sul mercato mondiale. Un mese fa il greggio costava 96 dollari al barile. Oggi, dopo la caduta di Mubarak in Egitto e gli stravolgimenti libici ha raggiunto i 114 dollari. Come si legge sull’Economist, “il mondo può forse sopportare una crisi di breve durata. Ma se i prezzi del petrolio salissero molto e rimanessero alti per un lungo periodo, i danni potrebbero essere molto gravi per le economie in ripresa”. Una partita assai delicata si gioca proprio sul campo degli approvvigionamenti petroliferi. La Libia fonda la sua economia sulle esportazioni di greggio – nel 2009, stando ai dati messi a disposizione dall’Energy Information Administration, il Paese è al dodicesimo posto tra i gli esportatori di “oro nero” – soprattutto diretto verso il continente europeo, con l’Italia in prima fila quale primo partner commerciale. E’ da sottolineare come l’Italia sia anche il primo fornitore di armi nel biennio 2008-2009 per un volume di affari pari a 205 milioni di euro, più di un terzo di tutte le autorizzazioni rilasciate dall’Unione Europea.
In questi giorni navi americane sono giunte e stazionano a poche miglia dalle coste nordafricane, proprio mentre il segretario di Stato americano Hillary Clinton, dichiarando come il suo governo continui ad “esplorare tutte le possibili vie per ulteriori azioni”, lascia aperta l’”opzione militare”, sotto forma di no-fly zone, che prevede l’interdizione dello spazio aereo libico. E’ interessante, come riporta il Wall Street Journal, il fatto che nei giorni scorsi dal porto di Tobruk, nelle mani degli insorti, una superpetroliera carica di greggio ha preso la rotta della Cina. Non una buona notizia per Washington. La politica europea, dal canto suo, sembra focalizzarsi su due tematiche principali: l’energia e l’immigrazione. A partire dal 2003 i contatti tra Bruxelles ed il Paese nordafricano si sono progressivamente intensificati. Da allora Shell, British Petroleum e l’italiana Eni hanno stipulato con il raìs contratti milionari per lo sfruttamento dei giacimenti libici. L’Unione ha puntato, da allora, ad un progressivo rafforzamento delle relazioni con Tripoli, con l’obiettivo di lungo periodo di instaurare un’Area di Libero Scambio, come d’altronde è previsto nel copione che caratterizza ad oggi diversi binari di cooperazione con altri Paesi del Maghreb e del Medio Oriente. Forse più che di rivolte contro dittature locali e regimi corrotti si dovrebbe parlare di reazioni nei confronti di un sistema economico in senso lato. Ma l’instabilità politica è nemica degli affari. Il frequente auspicio alla “stabilità politica”, che ricorre sovente nei discorsi dei leader occidentali, deve essere letto proprio in tal senso, al di là degli accorati riferimenti alle sofferenze delle popolazioni civili ed ai diritti umani. Sarà cruciale, dunque, quale configurazione assumerà tale “stabilità” in un Paese come la Libia, con le sue specificità sociali ed economiche, nel momento in cui le carte del greggio verranno ridistribuite al tavolo delle potenze.
Diego Del Priore è dottore in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali (Università degli studi di Roma “La Sapienza”).
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